Ecco il libro che ha segnato le scelte letterarie di questi primi mesi del 2023: Una minima infelicità. Ci si può innamorare follemente di un libro?
Certamente. L’ho letto il primo giorno di questo nuovo anno e ci ho messo quasi due mesi per digerirlo, per questo pubblico la mia recensione soltanto adesso.
Le emozioni non rispettano il calendario, a volte si sente il bisogno di esternare immediatamente, nel timore che esse sfuggano via come la sabbia tra le dita e siano difficili da ritrovare attraverso il tumulto emotivo quotidiano.
Altre volte invece si insinuano sotto la pelle e strisciano in profondità, come una spina dolorosa che si fa spazio lentamente e ha bisogno di tempo prima di essere espulsa.
Questo è l’effetto che ha provocato in me Una minima infelicità: un libro dolorosamente perfetto.
Perfetto a partire dalla copertina, dolce e insignificante solo all’apparenza, a riprova che questo è un libro per chi non ha fretta.
Se ti prendi il tempo per osservarla noterai occhi profondi, duri e velati da una tristezza eterna.
Occhi che si mescolano ai gesti quotidiani del caffè al mattino, del maglione che pizzica, della vita che scorre silenziosa e inesorabile.
Infatti Annetta è proprio così: silenzioso personaggio che nessuno guarda veramente, lei per me è la portavoce della categoria degli anonimi, di tutte quelle persone che al primo sguardo non degneresti di una minima attenzione eppure …
Annetta è tanto, è un microcosmo racchiuso in un piccolo, esile corpo che si rifiuta di crescere, è il silenzio di chi dentro di sé nutre un amore sconfinato e si accontenta di raggiungere anche solo l’ombra della sua mamma amata, di sentire il suo fiato la notte.
Imparai negli anni a stare come una cosa piccola e morta sotto gli occhi immobili di mia madre.
La più piccola e morta di tutte le cose.
In realtà lei non desidera altro: non dare fastidio pur di starle accanto.
Al contrario Sofia Vivier, sua madre, è tanto grande e luminosa agli occhi del modo, bella e vivace, circondata da una luce che però non riesce a celare la sua tristezza.
Sofia è infatti creatrice di una vita che la fagociterà pian piano, lasciando un guscio vuoto che Anna non smetterà mai di amare.
Le foto di momenti della sua vita scorrono fra le pagine e i ricordi si confondono alle emozioni.
In questa, una donna che non conosco guarda in basso,
verso di me.
E i miei occhi sembrano dire: dove sei mamma?
Che senso ha questo tormento?
Annetta non sa espandersi in questo mondo anzi, preferisce rimpicciolirsi, ridurre i suoi spazi, limitare il suo orizzonte, vivere assaggi della vita degli altri e quando gli altri scompaiono diventare sempre meno, fino a ridursi al nocciolo, fino a diventare fine.
Un nocciolo che ha racchiuso in se la perfezione, ho amato Annetta e la sua nonna che danzava senza pudore, forse perché in cuor mio, amo profondamente chi sa essere puro, senza corruzione esterna, senza lasciarsi influenzare dal mondo che ci vuole tutti simili, performanti, in continua competizione e scalata verso il successo.
Non ci sono scalate per Anna, ma un sottoscala nel quale si può essere autentici nel proprio immenso, perfetto universo.
Carmen Verde con Una minima infelicità ha creato una meravigliosa opera, ciò che ho amato follemente ( come se non bastasse l’amore viscerale che ho provato per questa storia) è la scelta di uno stile narrativo privo di fronzoli, estremamente diretto e curato anche nel mostrarci “la rinuncia sulla pagina”.
Questo è il suo libro di esordio, mi aspetto veramente tanto dal genio di questa scrittrice.
Una minima infelicità è candidato al Premio Strega, qui le motivazioni. Io faccio il tifo per lei!
Quando romanzi come questo vedono la luce, miei cari viaggiatori, apro la porta a ricordi che non mi appartengono, ed entro nel salotto di un uomo che ho inseguito col cuore e l’anima per tutta la vita : l’ultimo mago.
Ho letto e ascoltato tanto su Gustavo Rol, fin da quando si è iniziato a scrivere di lui e a registrare la sua voce. Poi è calato il sipario dell’interesse pubblico e per un po’ di tempo, il silenzio ha nascosto al mondo intero la luce e l’eleganza che quest’uomo sapeva abilmente trasmettere.
A dire il vero però, oltre alla semplice conoscenza delle gesta de l’ultimo mago, la vita mi ha donato dei momenti in cui la sua presenza e il suo ricordo sono stati per me una forte spinta ad andare avanti.
Nel 2021 mi sono ritrovata a soggiornare obbligatoriamente a casa di una splendida donna che, con gentilezza e tanto amore si è presa cura di me durante una lunga degenza. Fu un periodo particolarmente difficile, non ero abituata ai piccoli spazi, al traffico e ai ritmi della città, lontana dalla famiglia e dai miei figli. Il giorno stesso in cui il tampone è risultato negativo mi sono recata nel boschetto più vicino, il parco del Valentino, perché il mio corpo aveva necessariamente bisogno di linfa, di camminare sulle foglie secche, di guardare l’acqua scorrere.
La sera lungo la strada per rientrare, ricordo che il mio sguardo è stato attratto da qualcosa, come una calamita. Fisso un punto ben preciso e scruto le imposte di un appartamento nascosto dai rampicanti. Con sorpresa la mia amica mi dice che quella è la casa di Rol ed io finalmente, dopo ventuno giorni di tensioni e paure, mi sono sentita al sicuro.
La verità è che io faccio poco o niente: non sono che un tramite.
Francesca Diotallevi riporta alla luce il ricordo di Gustavo Rol con L’ultimo mago. Lo spolvera amorevolmente come avrebbe fatto lui con i suoi amati oggetti di antiquariato, per consegnare a questo mondo la storia di un uomo unico che è stato amato, seguito e solo parzialmente compreso.
Si può parlare di magia e spiritismo senza necessariamente appartenere al carrozzone di personaggi pittoreschi che spingono pur di raccontarci la loro grande verità.
La conoscenza è anche discrezione e l’ultimo mago ha preferito condividere con una ristretta cerchia di persone il suo sapere. Un gruppo di persone che ovviamente, rimaneva strabiliata e sconvolta dalle sue capacità.
L’ultimo mago è scritto con toni eleganti e sobri, proprio come il personaggio di cui si parla, quasi come se l’autrice volesse accompagnaci dentro la sua vita seguendo questo filo conduttore.
Una scelta di buon gusto a mio parere, in grado di accentuare ancora di più l’eleganza del dottor Rol.
Attorno a questo filo si intrecciano storie d’amore tormentate, traumi di guerra e amicizie dal sapore antico. come piccoli gioielli che ruotano attorno alla vita del L’ultimo mago.
Gustavo Rol con tocchi leggeri e con estrema discrezione, si fa tramite di messaggi che, in qualche modo sciolgono i nodi dei tormenti d’amore, placando le tempeste interiori.
Torino non sembrava cambiata,
era la stessa cittadina austera ed oscura dei suoi ricordi giovanili,
con quell’aria d’altri tempi e i mostruosi volti in pietra che si affacciavano da sotto i cornicioni,
i diavoli in bronzo a protezione dei portoni e i piccoli occhi a fessura che da terra, spiavano in superficie.
Ad accogliere la vita di un uomo tanto singolare c’è una città che, ancora oggi nasconde tanti segreti. Meravigliosa Torino, che ci accoglie fra le braccia della Grande Madre, grande polmone millenario di storia. Una città che sa raccontare ed ispirare, in grado di rimanere immobile mentre il tempo scorre inesorabile.
Dentro questa splendida corona che è Torino si incastona perfettamente Gustavo Rol che nell’attimo della sua vita, ha compreso e afferrato misteri la cui essenza sfugge alla maggioranza.
L’ultimo mago è poesia e alchimia insieme, è destrezza narrativa, un’opera d’arte che soltanto una grande scrittrice poteva comporre.
Delle vite degli altri ci sfugge sempre l’essenziale
Questo romanzo segna per me una nuova partenza, dopo un lungo silenzio. Forse non è un caso che anche questa volta la presenza dell’ultimo mago sia stata discreta ma decisiva nell’indicarmi la direzione. Finalmente riprendo a leggere, finalmente mi concedo di parlare di magia usando le parole che amo, ora lascio che sia.
Demon Copperhead ha rubato il mio cuore nell’istante in cui i miei occhi si sono posati sulla copertina, composta da una miriade di simboli che raccontano la vita del protagonista. La narrazione inizia così: “Prima di tutto, sono nato. C’era una discreta folla ad...
Ci voleva una giornata di pioggia per inchiodarmi ad una sedia e scrivere, a volte si fa di tutto pur di sfuggire dalle proprie emozioni, oggi però le gocce d’acqua possono camuffare le lacrime e consentirmi di liberare questo torrente in piena: L’equilibrio delle lucciole. Non ho cercato questo libro, forse lui ha scovato me. Nascosta fra mondi di possibilità ho visto lucciole danzare e universi nascosti fra i rami della vita. L’ho preso senza nemmeno pensare, a volte l’istinto sa essere un buon maestro.
Questo libro non può essere valutato con stelline o apprezzamenti, non valgono le parole perché non sono sufficienti.
Ogni parola scritta è cura e tormento, ricordo e risveglio. Non tocca soltanto la pelle, va più in profondità. Arriva fino ai nervi, li tende e li riscalda, li fa fuoriuscire dal corpo fino a renderli radici consapevoli della nostra vita.
Sono le parole a custodirci: le parole custodi. Tocca averne cura e possono riportare in vita l’essenza di chi le ha pronunciate:
è un travaso importante la memoria delle parole.
Non è stato facile, ho centellinato le pagine facendole diventare rito. Mattino, mi nascondo al mondo respirando la campagna, libero dal guinzaglio i miei fedeli amici e apro la porta. Nella casetta invasa dalle foglie lascio andare i muscoli al profumo del mosto. Mi abbandono su una sedia sgangherata e mi prometto che saranno solo dieci pagine, non di più. Poi finisco col rubarne ancora qualcuna perché il respiro del paesino di montagna somiglia a quello del mio fra le colline. Sempre più stanco, sempre più curvo.
Eppure ci sono profumi di fioriture e di emozioni a cui troppo spesso non ho fatto attenzione. Me ne rammarico, ingoiando una lacrima .
Le lucciole stanno sparendo dicono tutti, forse siamo noi che non le sappiamo più osservare. Forse si sono nascoste fra le crepe dei muri scrostati o nelle cantine delle case abbandonate e creano in silenzio la rete della vita. Una rete che sembra quella di un ragno, sottile, trasparente ma perfetta, ti accorgi che esiste solo se la guardi in controluce o se ti sfiora la faccia. Quella rete è il respiro dei piccoli paesi, delle piccole vite che sono piccole luci ancora in grado di indicare il vero senso della vita. Siamo esseri di natura, siamo talmente connessi a lei che spesso la diamo per scontato. Come l’amore di una madre che si pensa di possedere per diritto.
Valeria Tron tocca le corde di questa ragnatela, lo fa con tocchi delicati e pare quasi che abbia la capacità di sciogliere i nodi della vita solamente raccontandoli. Almeno così è stato per me.
L’equilibrio delle lucciole ha bloccato il tempo nel paesino di montagna e nel mio contemporaneamente, lo ha bloccato nell’istante in cui ho aperto la porta della mia casetta in campagna, e lì io sono rimasta con tutta l’anima.
Ogni vita ha stretta alla cintura una giostra di corde tese verso le case e,
in ognuna, una strofa da sommare alle altre,
così da trasformare le esistenze in un canone da riprendere al tempo giusto.
Alle foglie secche e al vento che taglia ho fatto una promessa: avrei ripreso a parlare di emozioni anche nei libri, avrei ripreso a respirare rispettando il ritmo dei miei polmoni. Se vi aspettate dettagli de L’equilibrio delle lucciole allora andate da un’altra parte, io ho scelto di parlare di questo libro attraverso me. Sono ancora incastrata fra vite di persone che mi si sono materializzate davanti. Strappata fra Ade e Nanà, fra disillusione e piccoli gesti che costruiscono la vita. Eppure sono innamorata, piena dell’ebrezza di questo sentimento che riempie le fronde degli alberi, e le fa danzare all’unisono.
Ti auguro di trovare un’anima così piena d’amore che sappia risuonare ovunque tu sia e riportarti a casa,
verso le sue braccia, a dorso di promessa. So che è possibile solamente se avrai a cuore l’attesa. Tanto la vita è inspiegabile pure sulle altitudini e imprevedibile a ogni nebbia.
Sono io e sono loro, e per la prima volta sento fra le pagine una realtà tanto vicina da poterla accarezzare. Mi sono fatta formichina e fascina di legna, sciolta dentro una tisana calda e incastrata fra un pettinino e gli occhiali Neve. Sono loro, eppure è il mio mondo, ed è il mondo di chi ha la fortuna di vivere fra i calcinacci di un luogo antico, vivendo nell’inconsapevolezza di essere quella trave che ancora tiene il tetto. Fondamenta di un mondo semplice fatto di frutta matura e legna da ardere, fatto di lotta alle disgrazie e di spalle a cui sostenersi per andare avanti. Ade e Nanà chiudono le imposte perché si è fatta sera e io grido disperata perché non voglio che cali la notte sulle loro storie. Oscillo pericolosamente, in equilibrio su un filo che si sta staccando, lanciandomi inesorabilmente dentro il limbo di una quotidianità che non mi appartiene, costringendomi a rumori e parole a cui non sono pronta, non oggi. Nanà, Ade e le lucciole mi sorreggono, mi fanno scaldare vicino alla stufa. So che Nanà sta creando una sciarpa anche per me e che Ade sta preparando un nuovo disegno, forse sarò così fortunata da diventare il chiodo che sorregge il quadro che diverrà.
C’è un segreto enorme nelle piccole cose che fanno sopravvivere. C’è la vita stessa, quella che non sconvolge il mondo ma lo accarezza. Vita che non invade con prepotenza, ma illumina delicatamente con la luce fioca di una candela, con la delicata luce di una lucciola sopravvissuta.
C’è un silenzio integrale, nemmeno il gocciolare di una grondaia,
che qui son tutte malconce e perdono come rubinetti.
Nulla, solo il vapore del fiato che mi precede di mezzo passo.
Sono la prima a scendere in fondo alla borgata da un bel po’ di tempo;
nessuna orma, se non qualcuna di uccello sui davanzali.
Di fianco alle stalle le pietre hanno scordato il profumo del letame.
Gli scarponi sprofondano.
I muri calamitano la bufera, e così fanno i vetri e tutto, impastando i colori in un malinconico grigio.
Grazie per aver scritto questo libro, grazie per ogni dolorosa parola. Per aver saputo dare equilibrio alla follia della vita. Io resto qui ancora un po’ e qualcosa di me ci rimarrà per sempre. Chiudo la porta a chiave, piove forte ancora, richiamo i miei amici fedeli e torno a malincuore alla macchina. Prima però osservo le mie mani, sono capaci, così come la mia testa, di ritrovare il tempo e il modo giusto per vivere nella pace del cuore, dove il lavoro della terra non spaventa e i petali dei fiori disegnano pensieri. Sbatto le ciglia umide, tornerò presto con un nuovo libro nel petto ed una nuova storia, ad evocare anime ed emozioni, ma per ora voglio stare a casa di Nanà ad osservare la prima neve.
Buongiorno viaggiatori, oggi vi voglio parlare di “Elisabetta di York. L’ultima rosa bianca.” di Alison Weir, edito Neri Pozza.
Elisabetta di York è nata nel 1466 a Westminster, figlia primogenita di Edoardo IV ed Elisabetta Woodville.
In quel periodo l’ Inghilterra era nel mezzo della guerra delle due rose, che vedeva appunto protagonisti i due rami della casa regnante: Lancaster e York.
La storia, nel romanzo di Alison Weir, si apre con il racconto della fuga di Elisabetta di York all’età di quattro anni, che insieme a sua madre, alle sue due sorelle più piccole, sono costrette a cercare rifugio in un santuario.
« Sveglia, Bessy! Sveglia!»
Elisabetta si mosse, destata da quel sussurro che non le era familiare, Che cosa ci faceva lì sua madre, la regina? Perché la stava scrollando?
L’autrice, come sempre, è stata in grado di farmi entrare subito nella storia e da quel momento non sono più riuscita a staccarmi.
La storia è articolata in quattro parti, ma possiamo suddividerla in un prima e un dopo:
Tutta la prima parte descrive i primi quindici anni di Elisabetta di York, da quando è costretta alla fuga da bambina.
la seconda invece racchiude il periodo dopo la morte di suo padre Edoardo IV e tutti gli intrighi di corte e la lotta per il potere che ne consegue.
Sono sempre stata affascinata da quest’epoca e ammetto di aver letto con passione tutti i romanzi di Alison Weir.
Perché? Ritengo che sia una delle poche autrici capaci di scrivere romanzi storici fedeli alla storia.
Lo fa mettendo nelle mani dei lettori storie in grado di emozionare, esaltando non solo la parte storica ma anche il lato umano dei personaggi da lei descritti. Rende viva la storia.
Questa è una delle cose che più amo quando leggo i suoi romanzi.
Consiglio la lettura di ” Elisabetta di York. L’ultima rosa bianca.” ?
Devo ammettere che dopo aver letto tutti i suoi libri, non ho trovato in Elisabetta di York la perfezione che mi avrebbe portata verso una valutazione a pieni voti.
Le descrizioni in questo caso sono state, a mio modesto parere, leggermente soverchianti, rispetto alla narrazione principale dei fatti e dei protagonisti.
L’ho percepita come un piccolo disequilibrio che comunque ha intaccato poco la grandezza dell’opera che rimane comunque poderosa.
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