Negli ultimi anni molti libri diventano famosi sui social network prima ancora che nelle librerie. Di solito non mi incuriosiscono perché ho una sorta di spirito da bastian contrario ma una copertina mi ha incuriosita: Anime di pietra di Lloyd Devereux Richards edito per Piemme che ringrazio per la copia.
La copertina è bellissima, mi ricorda un disegno fatto con il gesso su lastre di ardesia.
Inoltre, come spesso accade, il mio cervello l’ha associata ad un altro libro che ho amato (fidatevi, lo ha fatto senza un vero motivo apparente visto che le due hanno in comune solo l’immagine di un albero) quindi ho deciso che dovevo leggerlo.
Anime di Pietra è un Thriller.
La protagonista Christine Prusik è un’antropologa forense e si trova ad essere assegnata, con un ruolo di comando, ad un’indagine che mostra da subito qualche cosa di strano: qualche elemento dei delitti risuona come un’eco di un evento passato.
L’antropologia è una scienza affascinante e negli ultimi anni le serie tv hanno offerto numerosi esempi su cosa un antropologo esperto possa arrivare a comprendere dal solo concatenarsi di alcuni comportamenti.
Sappiamo, ormai tutti credo, dalla cronaca e dalle sempre presenti serie tv, che i serial killer spesso hanno comportamenti, ripetitivi al limite della compulsione, che poi definiscono quella che viene chiamata: Firma.
La firma dell’assassino di Anime di pietra consiste nell’inserire piccoli animali di pietra all’interno dell’esofago delle sue vittime.
Questo particolare modus operandi ricorda molto una pratica messa in atto da una popolazione indigena della Nuova Guinea.
Quando l’agente Prusik se ne rende conto Anime di pietra inizia a sembrare l’opera di un serial killer piuttosto efferato.
Quello che Christine non sa è come le due cose si colleghino e perché tutto questo viene ad incidere sul suo passato.
All’indagine su questi strani ed efferati omicidi si associa anche un’indagine psicologica su una tematica che al pubblico piace sempre moltissimo ma che non vi rivelo per non rovinarvi il libro.
Chi mi conosce sa che con i Thriller io ho un rapporto scostante.
Di solito non è un genere che apprezzo. Alcuni mi sorprendono, però.
Anime di pietra lo ha fatto? Nel complesso è stato molto interessante e piacevole ma qualcosa non mi ha proprio convinta, anche se mi rendo conto che quello che non ha fatto impazzire me deve, per forza di cose perché io non sono il giudizio del mondo, essere molto piaciuto ad altri.
Anime di pietra è un buon thriller, ne ha tutti gli elementi e la lettura è scorrevole.
La storia narrata tiene in tensione il lettore anche se non posso dire che la trama sia la più originale che abbia mai visto, però ci sono spunti piuttosto interessanti che stimolano il lettore a volerne sapere di più, o almeno lo hanno fatto con me.
Cosa invece non mi ha convinto?
Ormai siamo abituati ad una sorta di necessità nell’avere un protagonista femminile e non c’è nulla di male in questo, ognuno sceglie il protagonista che desidera.
Se la storia regge lo fa anche se il protagonista è una capra ma è davvero sempre necessario inserire la romance tra i protagonisti? Un’agente donna non può essere brava, professionale e risolvere i crimini senza per forza dover avere problematiche di cuore?
In fondo la nostra Christine di problemi ne ha più che a sufficienza senza per forza dover annettere anche il teorema della donna in carriera che però ha bisogno di essere “salvata”, no?
Questo particolare elemento è stato l’unico che ha stonato nella mia percezione del romanzo. Perché il libro, come vi ho detto è piacevole, ben scritto e offre dei bellissimi spunti di approfondimento culturale per chi fosse interessato.
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“Dopo aver mangiato gli organi interni delle persone assassinate, il feroce clan degli altipiani della Nuova Guinea depositava i talismani di pietra nei corpi delle vittime.”
Mi sono imbattuta, forse a causa del caldo torrido in una copertina che narra di un incendio. Forse, uno degli incendi più famosi al mondo: Roma brucia, Nerone e l’incendio che mise fine ad una dinastia è un saggio di Anthony A. Barrett ed è edito per Einaudi.
Non potete negarlo: se anche solo si accenna a Nerone la prima cosa che viene in mente a tutti è che diede fuoco a Roma; se invece nomino l’incendio di Roma la prima parola che viene in mente a tutti è? Nerone, ovviamente.
Olim erat… (C’era una volta…) qualcuno che disse di aver visto l’imperatore, sulla torre di Mecenate, cantare mentre le fiamme bruciavano Roma; qualcuno disse di averlo visto aggirarsi nelle vie della città intonando la storia della caduta di Troia; qualcun altro disse ancora che, per meglio rendere l’idea delle ultime ore della grande Ilio, Nerone avesse egli stesso acceso la città.
Qualcuno lo disse, altri lo scrissero e tutti ci credettero. Anche a distanza di secoli.
Ogni imperatore ha la sua croce da portare a spasso nei secoli, il suo cliché storico da cui non riesce a liberarsi nemmeno da morto.
Roma brucia è la condanna di Nerone.
Gli unici fatti certi sono che fece uccidere sua madre, molti altri membri della sua famiglia ma diede fuoco a Roma?
Roma bruciò nel 64 d.C. sotto il regno di Nerone.
Il 29 luglio del 64 d.C. per essere precisi.
La prima scintilla prese vita in una delle botteghe che affiancavano, o soffocavano, le vicinando del Circo Massimo e da lì iniziò la sua marcia inesorabile verso la gloria della fama storica.
Le fiamme si alzarono e fagocitarono tutto quello che era sulla loro strada.
Chiudete gli occhi, quello che sentite non è il crepitio del fuoco nel camino ma il ruggito di mille leoni.
Immaginate di essere in strada, di non poter scappare in nessuna direzione perché la strada che prima si apriva, davanti a voi, è appena stata travolta da altre fiamme che non sapete da dove possano essere apparse.
Lo sentite sulla vostra pelle: il vento, che quella notte è più simile ad una tormenta alimentata dai mantici di Vulcano, è rovente. La gente urla, cerca di salvare i propri averi e la propria vita, esattamente in questo ordine.
Tra il fumo, le fiamme, le urla, il vento qualcuno vede l’Imperatore muoversi tra le fiamme come se fosse sul suo palco preferito, in realtà sta facendo ben altro, e scorge anche taluni individui della guardia pretoriana o dei vigiles, che si prodigano per buttare a terra gli edifici e magari depredarli.
Sul fuoco vengono gettati secchi di terra e acqua ma, con quel vento, non c’è nulla che sia così veloce da permettere di salvare la città.
Tutto questo non durò una notte soltanto.
Roma, nel 64 d.C., brucia per 6 giorni e quando sembra che tutto si stia spegnando, le fiamme si rialzano ancora fino al nono giorno.
Le perdite in termini di vite umane sono inimmaginabili e i danni sono incalcolabili.
Roma brucia ma è stato Nerone?
Potrei raccontarvi che Nerone non era nemmeno a Roma quando l’incendio divampò. Troverete, però, nelle fonti, tarde, che abbiamo a disposizione: Svetonio, Tacito e Cassio Dione, che quando le fiamme sarebbero arrivate a lambire le sue proprietà si catapultò nell’Urbe per domare l’incendio.
Quali proprietà voleva salvare Nerone? Di sicuro non il Palatino che fu uno dei primi luoghi a subire la furia delle fiamme.
Perché era corso in città? Aveva altro da preservare ma forse, e dico forse, stava facendo quello che la famiglia imperiale aveva già fatto in passato: aiutare a sedare le fiamme.
Roma brucia ma era la prima volta?
Il problema degli incendi era così radicato nella vita della capitale dell’Impero che, fin dall’epoca repubblicana, si cercava di trovare qualcosa che potesse, se non mettere fine, almeno contenere efficacemente i danni e le perdite.
Ci provò anche Augusto. Dopo Nerone tentarono anche i Flavi. Ci riuscirono?
Si raccomandò di usare materiali refrattari al fuoco come le pietre di derivazione vulcanica, legni molto più resistenti, il contenimento delle altezze delle insulae abitative, ulteriori piccoli accorgimenti che potessero offrire al fuoco altro sfogo.
Ma la storia dell’Urbe insegna che l’incendio del 64 d.C. non fu l’ultimo e forse nemmeno il più disastroso.
Fu solo quello di cui tutti scrissero.
È stato quello che ha coinvolto un uomo che è passato alla storia, per lo più ingiustamente come un mostro incendiario.
Se proprio ci fu un colpevole fu il vento come d’altronde afferma anche Barrett. Siamo tutti portati a credere che se le fonti storiche raccontano un determinato fatto allora questo deve essere accaduto.
Ecco, no. Non è una verità inconfutabile.
In questo caso il problema è che l’unica voce coeva è quella di Plinio, Naturalis Historia, che non sembra molto concentrato sul fatto, anzi.
Le altre fonti già citate sono più tarde, frutto di altre opere che per noi sono perdute e derivazione anche di giudizi personali che non sono certo dalla parte del figlio di Agrippina ma, leggendo bene, nemmeno così a sfavore.
Le fonti storiche sono utili ma non definitive in assoluto.
Chi mai leggerebbe i quotidiani senza usare spirito critico e non avvalendosi di altre informazioni per comprendere una notizia?
Scusate, domanda sbagliata.
Roma brucia ma le fonti archeologiche non hanno nulla da dire?
Qualcosa si, ma tenete presente che la città non è rimasta ferma dopo l’incendio del 64 d.C. molto si è costruito e molto si è distrutto.
La stratigrafia è complessa e non basta identificare uno strato di annerimento per dire che corrisponde allo specifico evento in questione.
Insomma, non si può pensare che una volta arrivata a quello che pensiamo sia stato il suo massimo splendore, nessuno l’abbia più toccata per paura di cambiare qualcosa.
Esempio pratico: il luogo dove sorge casa mia, ai tempi dei romani, era quasi mare aperto.
Esempio più vicino all’incendio?
Al posto del tempio di Venere e Roma di età Adrianea, sorgeva il vestibolo della Domus Aurea e nel luogo in cui si erge il Colosseo (nome che deriva da una colossale statua di Nerone, innalzata per altro dopo la sua morte) si trovava un piccolo lago appartenente proprio al progetto edilizio della su citata domus.
Roma brucia e cosa accadde dopo l’incendio?
Nerone fece portare via i detriti a sue spese, alcuni vennero utilizzati per ricostruire.
Fu costretto a tassare la popolazione, non il popolo ma i grandi possidenti di Roma, per recuperare il denaro per ricostruire la città e, nessuno lo nega, finanziare anche il suo progetto della Domus Aurea.
Questo non aiutò la popolarità dell’ultimo dei Giulio Claudi presso il senato.
L’incendio e la successiva crisi monetaria portarono anche ad una forte svalutazione della monetazione argentea e nemmeno questo portò felicità a coloro che i soldi li avevano e nemmeno alla classe media se vogliamo proprio essere pignoli.
Perché le disgrazie non arrivano mai sole, ci fu una non ben identificata pestilenza che portò altre morti e altro malcontento.
C’è stata anche la questione della pretestuosa accusa di aver perseguitato i cristiani accusandoli delle fiamme.
È vero che vennero accusati dei cristiani e le fonti raccontano, le solite di prima, che la rappresaglia di Nerone fu crudele e ingiusta ma non totalmente indiscriminata.
“Tacito non vuole illuminare il lettore, bensì confonderlo ancor di più, dando un pezzettino di colpa a Nerone e un altro ai cristiani, ch’egli entrambi odiava” Yavetz, Z.
Su una cosa però siamo d’accordo: fu la prima volta in cui i cristiani subirono punizioni dal potere centrale e non per motivi religiosi.
Le fonti sono, come ho già detto lacunose, ma sarebbe stato interesse degli autori cristiani aumentare il carico delle accuse su Nerone ma, nella realtà, si potrebbe dire che quasi non tocchino l’argomento.
È difficile comprendere lo sviluppo pedissequo di avvenimenti che si sono rimescolati nel tempo, narrati solo a molti anni di distanza. Molte vicissitudini hanno portato alla perdita delle fonti coeve.
Fanno parte delle vicissitudini anche gli incendi.
Nerone, inoltre, dopo la furia delle fiamme, a seguito delle accuse che gli piovvero addosso, diventò paranoico e niente affatto incline alla pazienza. Questo portò al crollo totale della fiducia presso il senato e quella fu fine.
Quindi, in conclusione, Nerone fu la causa dell’incendio di Roma? O ne diventò uno dei capri espiatori?
Dovete leggere il saggio di Anthony A. Barrett per saperlo, continuare a porvi domande e leggere altro ancora.
L’autore vi pone i fatti così come appaiono, ponendo in contrapposizione le discrepanze di tutto quello che è stato trovato fino ad ora. Domande e ancora domande ma nessuna Storia è mai scritta del tutto.
Nerone ha ancora molto altro da raccontare: avete scorto cosa è apparso di recente al di sotto di Palazzo della Rovere a Roma?
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“Svetonio riportava un detto popolare secondo cui Roma si stava tramutando in una sola casa e i Romani avrebbero fatto meglio a emigrare a Veio, sempre che la casa di Nerone non avesse inghiottito anche quella cittadina”
Quando ho saputo che sarebbe uscito un altro romanzo sulla regina Clitemnestra di Micene, lo devo ammettere, la mia prima reazione è stata: ancora?
In un mercato piuttosto saturo di retelling di ogni genere, non è la prima volta che la regina di Micene fa capolino sugli scaffali delle librerie.
Ma, come capita, mi sono dovuta ricredere. Il retelling mitologico che prende il nome dalla famosa moglie del re Agamennone è, con ogni probabilità, la storia di Clitemnestra che stavamo aspettando.
Firmato da Costanza Casati, texana di nascita ma dal cuore italiano, ed edito per Sperling & Kupfer, Clitemnestra è un successo.
La narrazione narra della vita di Clitemnestra dalla sua infanzia al momento in cui, feroce come un’erinni, uccise suo marito con una scure.
È incredibile che le persone ricordino solo la furia con cui il re Agamennone, re dei popoli greci o almeno così gli piaceva farsi chiamare, è stato abbattuto come un albero secco.
Povero eroe, ucciso dalla moglie fedifraga proprio il giorno in cui tornava a casa dopo dieci anni di guerra e mentre si vantava di aver preso come concubina la sacerdotessa di Apollo più famosa della storia greca: Cassandra.
Ma cosa aveva scatenato quella furia?
No, Egisto non è colpevole di istigazione.
Clitemnestra non è donna che si faccia influenzare fino a quel punto dal belloccio di turno.
In comune avevano la sete di vendetta.
Per un uomo, si sa, la voglia di rivalsa è una questione di onore soprattutto se si parla di poemi epici.
Per una donna, non una qualunque in questo caso, è questione di giustizia.
Clitemnestra è una principessa spartana, è la sorella dei Dioscuri e anche di Elena moglie di Menelao e, a detta di molti, l’unica causa di tutta la distruzione che si abbattè sulle porte Scee che custodivano lo scrigno di Troia.
Anche se, ci tengo a dirvelo, non so davvero perché Menelao, che governava Sparta, si stupì così tanto di essere stato abbandonato dalla moglie.
Certo, Paride non ha onorato le leggi dell’ospitalità greca ma l’Atride minore avrebbe dovuto sapere che a Sparta una donna è legittimata ad abbandonare un marito se il nuovo pretendente è potenzialmente un arricchimento ai suoi possedimenti.
Troia era ben più ricca di Sparta e, senza Elena, Menelao teoricamente sarebbe stato il possessore di nulla.
Mi rendo conto che spiegato così è un po’ semplicistico, anche poco preciso e avrebbe bisogno di un approfondimento ma sono stanca di sentire: Elena è il problema.
Secondo voi, uno tsunami di 10000 navi greche sono arrivate ad abbattersi su Ilio solo perché la famigerata figlia di Leda e Zeus potesse tornare ad essere la mogliettina trofeo di Menelao?
Suvvia!
Torniamo a Clitemnestra.
Fu cresciuta per essere regina, fu istruita anche per essere una spartana ed era una guerriera di non poco talento.
Fiera, caparbia e intelligente non aveva nulla da invidiare a sua sorella.
Quando Agamennone decise che sarebbe stata la sua consorte, Clitemnestra era già sposata e aveva un figlio.
Beh, inutile dire che il figlio maggiore di Atreo non lo ha affatto considerato un problema insormontabile, li uccise e si prese la sua principessa.
L’autrice ci racconta del rapporto matrimoniale tra i due: lui non smetteva di cercare di sottometterla mentre lei scelse di aspettare il momento propizio per dargli quello che meritava.
L’episodio scatenante della furia incontenibile fu il “sacrificio” di Ifigenia.
Questa scena in particolare nel libro della Casati è l’essenza della tragedia greca epica. Tutti si muovono ma sono tutti fermi congelati nell’istante di un omicidio crudele di cui nemmeno Achille riesce a darsi spiegazione.
A Clitemnestra era stato portato via un figlio e l’amore una volta di troppo.
Questo è l’inizio della fine per il re che disse di aver abbattuto Troia ma che uccise se stesso.
L’autrice non ha cambiato molto della storia originale narrata dai grandi nomi del teatro greco. Anzi, gli aggiustamenti apportati sono funzionali alla storia e alla comprensione del punto di vista della protagonista.
Potete essere o meno d’accordo con la protagonista, non sta a voi giudicarla.
A lei non interessa affatto il vostro parere.
Chiamatela mostro se così vi piace, ma voi cosa avreste fatto se foste stati al suo posto?
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Clitemnestra aveva infranto la sua coppa contro il muro. Era rimasta immobile mentre uno schiavo era accorso ad asciugare il vino sparso per terra. gli ospiti l’avevano fissata, ammutoliti.
Lei aveva guardato suo padre negli occhi: “Prima o poi morirai. E io non ti piangerò. Guarderò le fiamme consumare il tuo corpo ed esulterò”.
Nella vita dei burattini è l’ultimo romanzo di TJ Klune edito per Oscar Vault e, questa volta, al contrario dei primi due che ho amato, non sono sicura se queste pagine mi siano piaciute.
La casa sul mare celeste è una perla rara, Sotto la porta dei sussurri è davvero bello, Nella vita dei burattini…
Zoppica.
La qualità migliore della scrittura di TJ Klune è quella di trattare argomenti di attualità dandogli quello che meritano: la naturale normalità.
Storie di crescita, di affermazione e di amore non diverse ma ambientate in contesti fantastici; forse per alcuni sono aliene ma non sono diverse da quelle che tutti nella vita viviamo, a dispetto del mondo che a volte si finge incredulo senza nessuna ragione apparente.
Ecco, questo elemento in Nella vita dei burattini un po’ è andata persa.
Dalle prime pagine, in cui il lettore si trova ad aver a che fare con un ritmo di narrazione piuttosto lento, questo volume ha proceduto a carponi e poi ha iniziato a zoppicare.
Perché?
La storia alle prime battute ha qualcosa che rimanda alla favola.
Questo è un po’ il contrario di quello che accade nelle altre due opere di questo autore: si inizia con una favola tenera per poi addentrarsi nella parte cruda della storia.
O almeno, immagino fosse quella l’intenzione dell’autore ma questa è una mia speculazione. Posso solo dire che nei ringraziamenti Klune fa accenno al fatto che il libro pubblicato è una sorta di addolcimento di quello che in realtà Klune voleva scrivere:
“Avrei voluto che questa fosse la storia di cui avevamo parlato, ma a quanto pare il mondo non è ancora pronto.”
Mio Carissimo TJ, se questa è la rielaborazione di qualcosa che non hai potuto scrivere, ti prego di avere fiducia nel mondo e scrivila perché questa che ho davanti è carina (che in Italia sta per passabile) ma non ti rende giustizia.
Ad un certo punto, una favola che racchiude in sé le storie più famose della letteratura: da Pinocchio a Il mago di Oz, da Moby Dick a Ma gliAndroidi sognano pecore elettriche? (titolo originale di Blade Runner), ha iniziato a prendere il carattere di tutta quella carta stampata che PER FORZA deve essere zuccherosa; PER FORZA deve narrare la questione sociale più “di moda” del momento.
E quale carattere può mai avere una storia così? Lo stesso di un filetto di platessa bollito.
La questione sociale tanto cara all’autore è importante.
La parità di diritti e la libertà di poter essere tutto quello che si vuole e per questo non essere discriminati è fondamentale.
La necessità di mostrare che esiste una scala di grigi e questa non toglie niente alla normalità imperfetta dell’universo. E se questo non scalfisce la dignità il mondo figuriamoci quelle di coloro che si affermano oltraggiate.
Questa è una necessità vitale per l’esistenza di tutti.
Ma questo libro non è all’altezza né dello scopo né di chi lo ha scritto.
Le Grandi Storie a cui prima accennavo, e da cui l’autore ha attinto per le sue fantastiche citazioni, hanno lati fortemente tragici. Sono ricche di hybris e miseria umana, hanno un forte impatto sull’immaginazione del lettore e lo spingono in direzioni in cui il lettore spesso non vuole andare.
Costringono a farsi domande di cui non si conosceva l’esistenza e lo fanno in maniera brutale, in alcuni casi al limite del vessatorio.
Nella vita dei burattini il Pathos lo ha perso il giorno del risveglio di Hap sul tavolo di Victor.
Il fulcro della narrazione dovrebbe essere chiaro e lo si intravede, è lì a portata di mano dietro alle cortine di panno leggero del dietro le quinte ma, ad un certo punto, capire non è più fondamentale perché la storia d’amore è molto più importante.
E ciao ciao alla forza della storia.
Salutiamola tutti dall’alto di uno dei monologhi più famosi della storia del cinema:
«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.» (Blade Runner, Roy Batty)
Mi è piaciuta, come al solito, la penna dell’autore.
Nella vita dei burattini è una storia che fa amare i suoi personaggi minori e il mondo in cui è ambientata ha un mondo di potenzialità che sono lì e pronte da scoprire, ma mi servirebbero un po’ di sale e di pepe in più.
E con pepe non intendo aggiungere dettagli rosa, ne abbiamo già più che in abbondanza.
Apprezzo, e lo farò sempre, la poesia di linguaggio dell’autore.
Dove altri per incidere sul lettore userebbero avverbi inutili e disturbanti, Klune e le due abili traduttrici adoperano un linguaggio ricco e pulito.
Mi sono chiesta se il mio punto di vista sia influenzato dalla mia età. Forse sono troppo adulta per il target a cui questa opera può essere dedicata.
Ma non sono estranea agli argomenti trattati, toccano tutti a prescindere dall’età, quindi non posso che pensare che non sia questa la ragione per cui non amo questo libro.
È carino, dolce, quasi melassoso e non è quello che mi aspettavo da questa storia.
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Questa è una storia antica, viene dal vento gelido degli Urali ma nel suo risospingersi tra le montagne dell’est Europa ha più volte preso sfumature diverse. Racconta di un tempo antico, di un misticismo che è andato perduto. Le pagine raccontano de L’immortale e l’autrice che ha deciso di farcela conoscere è Catherynne M. Valente, sotto l’egida, per l’Italia, di Fazi editore.
Questa è una fiaba antica come antichi sono gli incantesimi che raccontano storie e, come ogni incantesimo che si voglia funzioni, la sua formula comporta una componente aspra e dura da digerire.
L’autrice de L’immortale ha fatto tesoro delle storie che il marito e la sua famiglia le hanno raccontato e ne ha tratto la sua versione della storia di Koščej l’Immortale e Marija Morevna.
L’Immortale è una storia diversa anche se è sempre la stessa.
Una storia che si ripete nonostante tutto, a dispetto della volontà dei suoi attori.
In fondo, chi mai è riuscito a sfuggire al destino?
Né la vita né la morte ci possono riuscire, voi?
“Le cause della grande guerra furono diverse. In primo luogo, lo studente appassionato deve essere consapevole che il mondo conosceva solo sette cose quando era giovane: l’acqua, la vita e la morte, il sale, la notte, gli uccelli e la durata di un’ora. Ognuna di queste cose aveva zar e zarine, e i principali tra questi erano lo zar della Morte e lo zar della Vita.”
Questa narrazione è un incantesimo, ritmato da un antico carillon russo e dai fucili di due conflitti mondiali e di una rivoluzione civile, dalla deposizione di un regime e dalla perdita di un mondo fatato che è diventato talmente patriota da essersi sfilacciato e poi soffiato via dal vento.
Ma nonostante questo, anche se non si può parlare di quello che è stato e di come era prima, la storia è destinata a ripetersi.
L’immortale è la storia di uno scrigno senza coperchio, né chiave ma al suo interno cela una fiaba e una verità intera.
L’immortale è una storia d’amore ma è anche una storia di paura e terrore.
Dentro ad ogni scrigno c’è una realtà e dentro ad ogni realtà ce n’è un’altra.
È così che funziona la vita ed è così che funziona la morte dalla stella argentata.
Tutto inizia a San Pietroburgo, quando ancora la città non si chiamava così e nel mentre che la città cambiò nome alcune volte.
“Una tessera annonaria dice: – la vita che ti abbiamo assegnato è tanta che possiamo tenere una certa quantità di morte lontana dalla tua porta. Ma non di più -. Dice: – A Leningrado c’è solo tanta vita da distribuire-. Dice: – L’unica cosa a non essere razionata a Leningrado e la morte –”
Una ragazza di nome Marija Morevna guardava fuori dalla finestra e tra le pieghe di un mondo in mutamento e, un giorno, il mondo in cui ella guardava le rispose e la trascinò via.
L’immortale è una fiaba di segreti e rivelarli potrebbe essere la rovina del mondo.
“Custodiscimi e obbediscimi, le disse il segreto, perché io sono tuo marito e posso distruggerti.”
La storia originale è raccontata nei Racconti popolari russi di Alexander Afanassiev e diversi autori ne hanno percepito la magia tramandandola, ognuno con un qualcosa di diverso ma uguale.
In fondo, chi può affermare con certezza se è nato prima l’uovo o l’uccello?
Se siete interessati vi lascio un paio di link da seguire:
Ammetto che quando ho scoperto questo titolo ero curiosa ma non ero preparata a questo gioiello tagliente come cristallo e magico come un canto suonato con la balalaika.
L’immortale porta in occidente una storia che è vera in ogni nazione e che rischiava di non essere conosciuta ma non solo DEVE esserlo ma le auguro di venire cantata per ancora molti secoli a venire.
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“Accadono perché la Vita consuma tutto e la Morte non dorme mai, e tra loro si muove il mondo. L’inverno diventa primavera. E ogni tanto recitano una strana, triste pantomima, solo per vedere se qualcuno ha già vinto. Se il mondo si muove ancora come una volta”
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