È giunto il momento per me di tirare giù dalla pila dei libri che ancora non ho letto un volume ho desiderato leggere fin dal primo momento che no ho visto la copertina. Il Premio Strega Ragazzi 2022 nella categoria 11+: Giuditta e l’orecchio del Diavolo opera di Francesco D’Adamo.
Una copertina e un titolo che ti ammaliano sono solo i primi passi verso una storia che ti stritola nel freddo dell’autunno del 1944.
In una vallata adagiata tra le Alpi, un giorno del nostro tempo, arriva uno scrittore che inciampa in una storia raccontata da un anziano del piccolo paese di Acquadolce.
È una storia che ha dell’incredibile e Tonino, l’anziano di cui vi ho parlato sopra, è sicuro che lo scrittore non crederà nemmeno ad una parola.
Giuditta e l’orecchio del diavolo è uno di quei racconti che si deve fare nel luogo in cui si originano.
Forse è per questo che Tonino porta il suo interlocutore in un luogo che di per sé è un mistero e una meraviglia: l’orecchio del diavolo, un muro brunito dalla forma concava da cui, dicono, si possono sentire le voci degli spiriti e dei morti.
È un luogo che attira la fantasia di popolani e grandi pensatori.
Nei secoli addietro persino un Tiranno greco fece scavare un luogo simile da cui poter sentire tutti i sussurri dei suoi prigionieri, lo possiamo ammirare a Siracusa ed è noto come L’orecchio di Dioniso.
Questo genere di muri veniva costruito durante la prima guerra mondiale per poter avvertire l’arrivo dei nemici e poter correre ai ripari.
Tonino inizia il suo racconto e da subito si avverte il freddo, l’urgenza, la paura e al contempo la costrizione che l’Italia tutta viveva nel 1944.
Il padre di Tonino era il capo di un gruppo partigiano. Un uomo enorme che nell’immaginario dei suoi due figli era un eroe di Salgari e per questo lo avevano soprannominato Sandokan.
Sandokan e i suoi vivevano lontani dalle loro famiglie, in quei luoghi dove nemmeno gli spiriti oserebbero andare se solo provassero freddo e paura.
Le famiglie vivevano in maniera semplice e i bambini vivevano di storie di avventure, racconti partigiani e lavori dei campi o nelle stalle con le bestie.
In paese non vivono solo le famiglie di coloro che lottano per la libertà ma, come c’è da aspettarsi, anche quelli che si sono conformati ai dettami del regime nazifascista ma, da “Bravi” quali sono, non osano denunciare i loro concittadini partigiani perché troppo impauriti dalla fama di Sandokan e da quello che farebbero loro le famiglie dei partigiani, parroco compreso.
Giuditta e l’orecchio del diavolo è una storia partigiana.
Una storia corale che esprime tutto il suo coraggio a partire da una ragazzina arrivata in una notte buia in casa di Tonino e suo fratello Giulio.
Giuditta è ebrea e i suoi genitori sono stati portati via dai “Todeschi”, soccorsa da amici della resistenza viene portata ad Acquadolce perché sia al sicuro.
Caterina, la madre dei due ragazzi, aveva dovuto decidere in fretta e senza il consiglio di suo marito: prendere o non prendere in casa una bambina bisognosa, cieca ed ebrea.
Delle volte il coraggio si nasconde nei gesti d’impulso.
Giuditta è una ragazzina strana, tutti credono che sia una strega e tutti la conoscono come Maria figlia della zia di Tonino e Giulio.
Giuditta è forte, indipendente e illuminata da un fuoco che può ardere solo in chi conosce nel profondo il terrore ma sa piegarlo a proprio favore.
È solo una bambina direte voi.
È più coraggiosa di molti di noi vi dico io.
Vede molto meglio di tutti noi, anche senza poter usare i suoi occhi che sono specchi verso il profondo dell’animo umano.
In compagnia di cane Giuseppe, ogni giorno siede al trono dell’orecchio del Diavolo e ascolta…
Si dice anche che la bambina parli con gli animali.
Non so dirvi se questo sia vero ma cane Giuseppe, che non aveva mai ubbidito prima, ora è la sua spalla fidata e verrà insignito della bandana partigiana.
Cane Giuseppe è finalmente la vendetta di Useppe e Bella de La Storia della Morante e si prenderà quello che è suo: la giustizia per la sua sorte e nessuno si dimenticherà più di cosa veniva fatto ai bambini del suo tempo.
Questa è una mia suggestione ma i libri servono anche a questo.
Giuditta e l’orecchio del diavolo non è una storia facile anche se è scritta per ragazzi.
Con un registro di facile comprensione Francesca D’Adamo sferza ventate di gelo a chi ancora non ha compreso che fare la cosa giusta non è affare ad appannaggio esclusivo degli eroi.
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Fare le scelte giuste non è difficile come sostiene qualcuno. È facile, perbacco, l’hanno capito anche i lupi!
Nel 2021 ho letto e recensito la monografia RiLL di Valentino Poppi e me ne ero innamorata, il caso o la fortuna ha voluto che nel 2023 io e il pluripremiato vincitore del Trofeo RiLL ci rincontrassimo per il suo nuovo libro: Fuga da Amaltea, edito per Tabula Fati.
Valentino è un ingegnere elettronico e vive a Bologna, la sua specialità è la fantascienza e la sua penna è affilata quanto un rasoio.
La sua scrittura è precisa, lo vedrete anche voi quando leggerete il suo libro, ogni immagine che trasferisce sul foglio diventa realtà.
Insomma, non potete sfuggirgli!
Fuga da Amaltea è un’avventura rocambolesca dove i “buoni” sono delle figure che tendono più al grigio che al bianco nella scala ideologica dell’umanità.
Se avete amato i libri di Philip K. Dick, l’autore del libro che ha inspirato Blade Runner e la serie L’uomo nell’alto castello, sappiate che con Valentino Poppi siete in buone mani.
Torniamo a Fuga da Amaltea.
In un futuro, davvero non molto lontano, in cui il pianeta Terra è diventato depositario di una conoscenza tecnologica che ora possiamo sfiorare con l’estremità delle nostre dita, un uomo che risponde al nome di Alex Saw viene imprigionato in una struttura detentiva per aver assassinato, non in maniera del tutto volontaria, il sindaco di una città.
Fino a qui, voi amanti dei polizieschi in genere direste: nulla di nuovo sotto al sole e vi vedo che state annuendo con le vostre belle testoline.
Anche io avevo sbagliato strada.
Dovete uscire dalla modalità (quanto è bello non usare il corrispettivo in inglese) in cui dovete risolvere il caso Saw, non è questo che dovete fare.
Alex Saw sa badare benissimo a se stesso, non temete.
La situazione è molto più ingarbugliata.
Sto pensando, mentre scrivo, a come avvolgervi e intrappolarvi tra i cunicoli di questa storia senza dirvi troppo perché qualche piccolo indizio l’ho già disseminato nelle righe precedenti.
Vediamo…
Gli “eroi” di questa storia devono, come dice il titolo, attuare la loro Fuga da Amaltea ma dove si trova questo luogo?
Amaltea è uno dei satelliti naturali del pianeta Giove e potrebbe (forse in futuro) ospitare un luogo in cui i detenuti vengono inviati a fare quello che oggi chiamiamo “lavori socialmente utili”.
Questo sito però, informazione data dai computer, risulta dismesso per un incidente ma vi vengono lo stesso inviati carichi di prigionieri.
Qui inizia il mistero e la fuga.
Saw e i suoi compagni hanno a disposizione un’intelligenza artificiale piuttosto recalcitrante, dei dispositivi olografici e delle tute molecolari, una nave con un computer di bordo dalle direttive molto precise e, come sempre accade, l’attrezzo più utile di tutti in questo frangente: il cervello.
Non c’è una regola che non possa essere aggirata in una qualche maniera ma avete davvero poco tempo per pensarci e non sarà affatto facile elaborare piani sotto pressione costante, questo non è un film con Tom Cruise e non ha la psicologia romantica di Blade Runner.
Avete un solo compito: la Fuga da Amaltea!
Veloci.
Rapidi.
Ah dimenticavo: Non dovete farvi uccidere.
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Siamo a Creta, nel palazzo di Cnosso, alla corte di Minosse e Pasifae. Vi hanno raccontato tante versioni di questo mito. Lo hanno fatto i soliti ignoti: Euripide, in due versioni perché dovette correggere la prima dell’Ippolito velato; Seneca nella sua Phaedra; Sofocle nella sua opera perduta e volle cimentarsi anche il grande cantore degli amori Ovidio nelle Eroidi con una lettera di Fedra a Ippolito. Al giorno d’oggi, Laura Shepperson scrive una nuova versione di questa storia: L’urlo di Fedra.
Partiamo dal principio della storia: Chi è Fedra?
La principessa è figlia del re di CretaMinosse e della regina Pasifae e sorella di Arianna. La sua infanzia è piena di “incidenti mitologici” per dirla in maniera sottile.
Il mito racconta molte cose incredibili sulla famiglia della principessa.
Sua madre, la regina Pasifae, mise al mondo il Minotauro dopo essersi accoppiata con uno dei tori sacri. Il re Minosse fece costruire da Dedalo, il grande ingegnere del mondo antico, il famoso labirinto per rinchiuderlo e per sacrificare le vite degli ateniesi mandati come “indennizzo” a Creta per la morte del primo figlio del re.
Sua sorella Arianna, dopo aver aiutato Teseo (che nella mitologia è una sorta di prezzemolo adatto ad ogni storia, un po’ come Agamennone e Ercole) ad uccidere il mostro nel labirinto, fugge con il principe ateniese che dopo poco l’abbandona.
Arianna diventerà la sposa di Dioniso, ma la nostra autrice ha altri piani per la sua tragedia.
Che Teseo non sia l’eroe che tutti hanno sempre creduto non è cosa nuova, quindi aggiungere un omicidio non farebbe nessun danno alla sua reputazione.
Il destino di Fedra, dopo che Arianna è fuori dai giochi matrimoniali di Minossse, è segnato: convolerà a nozze con il principe ateniese.
Quello che arrivò a Creta come principe, tornerà ad Atene come re. Non ha dovuto nemmeno sporcarsi le mani, gli è bastato dimenticare di far cambiare le vele alla sua nave.
Considerato tutto si potrebbe dire che il Fato stava architettando per lui la giusta compensazione per i suoi misfatti.
Certo, ma quelli come Teseo cadono in piedi e continuano a brillare di luce propria.
Se tutto questo fosse una favola moderna, con un’aggiustatina dal punto di vista del politicamente corretto, si potrebbe dire: Fedra sposa il principe, diventa regina e tutti vissero felici e contenti.
Peccato che il mito non esiste per arci sentire a posto con la coscienza.
Sulla copertina del libro campeggia il titolo: L’urlo di Fedra.
Cosa accade ad Atene? Nel mito i due sposi mettono al mondo la loro prole e, mentre Teseo se ne va a passeggio per le sue imprese eroiche, Fedra si innamora di Ippolito (figlio del precedente rapporto di Teseo con un’Amazzone).
Ippolito non può accettare questo amore e rifiuta Fedra. La regina furiosa e amareggiata racconta, al ritorno del marito, di essere stata violentata da Ippolito che viene accusato ingiustamente mentre la regina si suicida.
La corte ateniese de L’urlo di Fedra è ben diversa.
Arianna è morta annaspando tra le mani di Teseo che stringeva via via sempre più forte mentre Fedra sta per cadere in una trappola che, per una volta, Teseo non aveva immaginato nemmeno di poter progettare.
Ippolito è un giovane viziato e insofferente attorniato da una cerchia di giovani che potrebbero essere assimilati ai Proci che assediavano la corte di Ulisse al suo ritorno ad Itaca.
Il re ateniese, com’è ovvio, non si può esimere dal partire. A Fedra non è interessato e per lui è poco più che un ostaggio sottratto a Minosse per non invocare una nuova cernita di giovani ateniesi.
La regina vive segregata e lasciata a se stessa in un’ala del palazzo che, per farvi capire, è come se fosse la torre degli ospiti indesiderabili de La spada nella roccia.
Il rapporto con Ippolito è tempestoso, lei cerca di avvicinarsi la figlio di Teseo per fare in modo che loro rapporti siano civili o amichevoli, mentre il ragazzo la respinge e i suoi amici mettono in giro strane voci sul fatto che la regina, di fatto ma non in pratica, stia tentando di sedurre il loro principe.
Una notte Ippolito, sedicente adepto senza macchia di Artemide, stupra senza pieta Fedra lasciandola più morta che viva tra il fango e le sterpaglie.
La sua motivazione? È stata lei a farglielo fare.
Come? Nella solita maniera in cui uomini di una certa caratura morale accusano donne di averli fatti deviare dal loro cammino fatto di rettitudine e santità.
Fedra decide che Ippolito deve pagare. L’urlo di Fedra è l’urlo di tutte le donne di Atene.
Incinta e derisa dalla città, invece di scappare, decide di affrontare Teseo e obbligarlo ad emettere un giudizio equo nei confronti di Ippolito.
Teseo non può fare a meno di essere l’eroe di se stesso, non può permettere che il suo unico figlio paghi e cerca di comprare il silenzio della sua regina.
No, lei non può accettare.
Quindi, il processo ha luogo e il principe viene ritenuto…
Da qui dovete procedere da soli. Perché L’urlo di Fedra riecheggia in tutto il finale che ha comunque il sapore della tragedia che poteva essere evitata.
Laura Shepperson si prende diverse licenze dal mito, è lei stessa a dirvelo ma nel mito non è reato se lo di fa con lo scopo di denunciare le ingiustizie.
Lo ha fatto Euripide, lo ha fatto Seneca e lo hanno fatto tutti gli altri: denunce sociali in un tessuto culturale che sembra vedere ma non muoversi altrettanto velocemente, quindi perché questa Tragedia dovrebbe essere impostata diversamente?
La narrazione è impostata a più voci come richiedono la Tragedia e il teatro greco.
All’inizio della lettura pensavo che questo modo di narrare, ormai presente in ogni retelling dei classici mitologici, sarebbe stato penalizzante per la narrazione.
Perché? Voi non vi infastidite se tutti i libri sembrano uguali?
Invece l’Urlo di Fedra deve essere una Tragedia Corale, non può essere altrimenti. Se una sola Persona urla mentre le altre tacciono non si andrà mai troppo lontano.
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Ogni uomo può lanciare parole in aria, e che sono le donne a dover pagare, quando le parole arrivano a terra.
Nel 409 a.C. Sofocle mise in scena la storia di una delle figlie di Micene. Suo padre era il grande Agamennone, il re che (si dice) portò i greci alla vittoria su Troia; sua madre era Clitennestra, la sorella di Elena che fu colei per cui (si dice) sia scoppiata la guerra di Troia. Lei, la nostra protagonista, era sorella di Ifigenia, di Crisotemi e Oreste: il suo nome è Elettra.
Sofocle non fu l’unico a scrivere una tragedia sulla principessa ma nelle altre opere, per esempio quella di Euripide, non troviamo l’Elettra che Jennifer Saint ha voluto che conoscessimo.
Come nello stile delle tragedie del teatro greco la Saint scrive usando più voci, quella di Clitennestra e quella di Cassandra, che al lettore possono sembrare troppo preponderanti al confronto di quelle della principessa.
È vero, Clitennestra e Cassandra hanno fin troppa voce in questo libro e potrebbe capitare di chiedersi che fine abbia fatto la donna da cui il romanzo prende il nome.
In fondo, Sofocle affida tutta l’azione ad Oreste.
Ma dovete mettere tutto in prospettiva. Questa non è la mera storia della principessa micenea ma anche una sorta di omaggio al tragediografo che di Elettra ci restituisce il furore.
Elettra non è colei che attua le azioni più importanti della vicenda ma ne è il motore e il carburante.
La regina Clitennestra e la principessa Cassandra sono coloro che conoscono tutto ciò che c’è da conoscere sul padre che Elettra tanto ama.
Come Oreste è la mano che gli dei mandano alla vendetta, Clitennestra e Cassandra sono le custodì della verità che Elettra si rifiuta di vedere.
Faremo un processo ad Agamennone? Credo che la sua storia e il suo destino abbiano già fatto abbastanza per questo tracotante personaggio che non conosceva limiti.
In questo Elettra è davvero sua figlia: la mancanza di percezione di tutte le realtà davanti ai suoi occhi è sbalorditiva.
Anche questo elemento della personalità di Elettra è ben reso dalla disposizione dei capitoli dell’opera della Saint: Elettra è talmente distante dalla vista del lettore che ogni volta che appare la percezione che si ha di lei è così fuori fuoco dalla realtà da renderla poco più che la bambina inerme delle Coefore di Eschilo o della donna rosa dai sensi di colpa di Euripide.
Ho dovuto riprendere in mano appunti di scuola e le fonti per rendermi conto dell’enorme lavoro di progettazione di questa storia, a prima vista non lo avevo notato e mi sono sentita piuttosto sciocca.
Ma, a questo punto, mi devo chiedere: i giovani che di Elettra conoscono solo l’appartenenza alla mitologia, capiranno questo gioco di sguardi tra la storia del teatro greco, la protagonista e il retelling mitologico?
Il linguaggio è quello giusto, forse manca una piccola spinta verso la giusta direzione e spero di essere stata di un qualche contributo in merito.
Elettra è un personaggio dalle molte facce ma il sentimento che la tiene in piedi è l’Ira che come avrete modo di vedere non è mero appannaggio di Achille.
Tutti ricordano la spiaggia di Troia ma non che sia stata la vita della mite Ifigenia a permettere che le navi partissero dalla Focide; la storia da la colpa alla fedifraga Elena e alla pazza Clitennestra della sorta del più grande dei greci ma mai ricordano che pur di avere lo scettro Agamennone ha mandato a morte la sua stessa progenie ingannandola nella più vile delle maniere.
Per la gloria e l’onore direbbero i grandi condottieri ma per è per la follia, la cupidigia e il possesso che tutto si è messo in moto.
Elettra è il secondo libro del progetto editoriale di Jennifer Saint sulle donne del mito. Il primo, sempre edito per Sonzogno, è Arianna mentre il prossimo sarà su Atalanta.
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Bramavo di prendere il posto di una schiava che non aveva nulla, eccetto la cosa che io volevo di più al mondo: l’abbraccio di mio padre.
Non molto spesso mi capita di leggere opere in versi, la ragione è nel ricercarsi nel fatto che la poesia non mi parla o forse io non ho orecchie per ascoltarla. Ma, in qualche caso, credo per merito del poeta e di congiunzioni astrali che mi sorprendono sulla via di Damasco, qualcuno riesce a fare breccia nel mio cuore e parlarmi come delle volte fa il vento: sussurrando e portando echi lontani. È il caso di Un altro presente, la silloge poetica di Paola Caramadre.
Un altro presente è una realtà ctonia.
Una silloge che non posso descrivervi in un altro modo. È viscerale, è tradizione ed è futuro.
La prima volta che ho letto le poesie che vi sono contenute mi sono concentrata sulle cinque parti in cui i componimenti sono stati suddivisi: Parole, Radicamenti, Percorsi, Salvacondotti e Giuramenti.
Queste sezioni sono Passi. Non diretti in un’altra realtà ma ben radicati nella terra da cui nascono.
La seconda volta che ho letto Un altro presente ho dovuto dare spazio alle mie emozioni.
La sensazione è la stessa del ritorno a Casa.
Siete fatti del luogo o dei luoghi in cui siete vissuti, non potete sfuggire a questo e nemmeno volete.
Mi è venuta in mente, durante la lettura, una canzone che, immagino, conosciate tutti.
Il testo parla dell’Inevitabile: qualsiasi percorso si sceglie per evitare il destino è destinato a portarti verso di esso.
Vita e Morte.
Vita e Vissuto.
Sapere esattamente chi si è, nel luogo e nel tempo in cui si vive.
So bene che questo genere di consapevolezza non è una scienza esatta. Siamo tutti convinti di essere chi dobbiamo essere solo ad un temine di una vita ma non è quello che ho imparato io.
Chi di voi può ammettere sinceramente di essere stato una sola persona in tutta la sua vita?
Suvvia, non sto parlando di discipline esoteriche.
Le parole sono un legame vitale, le radici sono la nostra esistenza più profonda, i percorsi ci sono necessari per crescere siano essi fisici o umani, i salvacondotti sono i patti che stipuliamo per raggiungere le nostre consapevolezze più intime e i giuramenti sono… lo sapete bene cosa sono.
Un altro presente è ogni presente in cui siamo consapevolezza di essere noi che viviamo, che amiamo e che decidiamo ma soprattutto Siamo.
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Per esempio, noi dovremmo sceglierci
una lingua sconosciuta,
percorrerla come una terra inesplorata
e adattarla alle sfumature di noi due.
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