Il 2023 è il primo anno in cui parlo delle favolose antologia RiLL per Libri in Viaggio e mi sembra, finalmente di aver trovato il giusto salotto in cui far accomodare queste raccolte che io amo tantissimo e ogni anno aspetto con molta impazienza. Questa ultima in particolare tratta un tema che mi è da sempre molto caro: esatto, questo è il momento in cui scoprite che sono sempre stata una bambina piuttosto strana. Il titolo del volume nato dai racconti vincitori del Trofeo RiLL è: Quel signore in salotto.
Conoscete il Trofeo RiLL per i racconti di fantascienza, fantasy o qualsiasi sia fuori dal reale?
Se ne volete conoscere ogni meandro vi lascio qui il filo di Arianna che vi condurrà nella tana del drago, dovete solo schiacciare la parola LINK.
Oltre ad essere ogni anno premiato al Lucca comics & games, questo concorso ospita tra le sue schiere penne pluripremiate e che non potrete non amare.
E se volete partecipare avete ancora tempo: le iscrizioni al 29 Trofeo RiLL scadono il 20 aprile.
Ora parliamo di Quel signore in salotto.
A casa mia non c’era un Signore ma un soldato della Prima Guerra Mondiale, non era nemmeno gentile come Quel signore ma sembrava essersi perso e costringevo mia nonna a preparare da mangiare anche per lui.
È una storia piuttosto lunga e veramente molto creepy e non ha molto a che fare con il tipo di inquilino che Nicola Catellani descrive nel suo racconto.
Quel signore in salotto è gentile, premuroso e si occupa di rendere la vita serena ad una signora che ha bisogno di compagnia.
Il tema dell’antologia è La morte e tutto quello che ne consegue.
Ma non parleremo della nera signora, del tristo mietitore o del protagonista di una favola di Beda e il Bardo, stiamo parlando della porta con su scritta la parola Morte e di tutto quello che si torva al di là della soglia della realtà.
Facile no?
Al di là di quella soglia nebulosa da cui normalmente nessuno farebbe mai ritorno, se non per un buon motivo, ci sono cose buone e cose cattive.
Quindi alla fine chiunque la varchi si trova ad affrontare pressappoco le stesse facezie che tanto angustiano le persone anche nel mondo dei vivi.
A volte, i peggiori scenari che sono narrati nella letteratura si verificano. Altrimenti chi li avrebbe scritti se non qualcuno che lo sa?
Ci avete mai pensato?
Ogni anno, l’antologia prende il nome del vincitore del concorso e nel 2022 il vincitore è Quel signore in salotto di Nicola Catellani ma, come vi dicevo, Quel Signore è lì per addolcirvi la pillola e aprire la porta che dovete varcare per conoscere gli altri racconti.
Vi troverete i racconti dei primi cinque classificati e in aggiunta i racconti vincitori dei concorsi europei e mondiali gemellati con il Trofeo RiLL.
Ho un racconto preferito e non me ne vogliano gli altri autori ma amo le storie ricche di tragedia, disperazione e vendetta; nemmeno Quel signore in salotto è riuscito a rabbonirmi, Il non morto ha provato a darmi quello che cercavo e ci è quasi riuscito ma è ritrovarmi ne Il frutteto che mi ha dato il mio brivido.
Il racconto di Giorgio Smojver ha qualche nota già suonata in altre tragiche sonate d’amore ma dovete fidarmi di me e lasciarvi prendere tra le radici della storia, ci sono cose che dovete sapere.
Ci tengo a dire che tutte le storie narrate sono degne di nota e c’è pane per ogni gusto.
Non vedo l’ora di sapere chi vincerà quest’anno e scoprire quale genere di Altrove scopriremo.
Volete sapere dove trovare Quel Signore in salotto e altri racconti dal Trofeo RiLL e dintorni? Schiaccia LINK
“Nostro padre ci aveva avvisati: non spargete mai sangue sulle radici, nè l’uno di voi rechi male agli altri. Nostra è la colpa, e l’accetto.”
Dendera è un nome che evoca antiche rovine, antiche dee e templi ricchi di reperti di rara bellezza. Ma non siamo in Egitto.
Siamo in un luogo dove la neve diventa piuma di corvo, dove il silenzio inghiotte ogni cosa e porta via gli inuditi ultimi lamenti di chi viene lasciato sulla montagna.
Yūya Satō ci trasporta in un luogo indefinito del suo Giappone, dove pennella un’atmosfera di ovattata realtà tra le nevi ma non ha paura di sporcare l’immobilità con il rosso della furiosa paura.
Una volta, tanto tempo fa, esisteva tra le popolazioni più antiche un’usanza.
Questa tradizione, ai nostri occhi potrebbe sembrare piuttosto barbara e impensabile da applicare al giorno d’oggi. Ma non esisteva una società come la nostra in quei lontani momenti di storia e per legge chi era troppo vecchio per contribuire alla società veniva…allontanato.
Il Villaggio imponeva uno stile di vita immacolato. Gli anziani, dopo aver compiuto settant’anni, dovevano compiere l’ascensione per raggiungere il paradiso.
Coloro che ascendevano indossavano uno Yukata bianco, venivano accompagnati sulla montagna dai loro familiari e poi lasciati lì.
La neve, il freddo, i corvi facevano compagnia a coloro che si mettevano in cammino per il paradiso.
Un passo alla volta.
Fino a che i piedi non erano troppo gelati. Fino a quando il corpo non si sentiva troppo intorpidito dal freddo. Fino al momento in cui ci si addormentava sognando la luce e tutti coloro che aspettavo dall’altra parte del cancello per vivere, finalmente senza più affanni, insieme per l’eternità.
Come vi sembra? È una fine poetica se solo vi sforzate di vederla sotto una determinata luce.
Dendera è un mondo tangibile e riconoscibile ma vi inonderà di sussurri e non potrete scappare.
Kayu ha accettato il suo destino, è pronta ad abbracciare la morte come una vecchia amica.
Ma…mentre la neve le sta preparando il suo ultimo giaciglio, i corvi le cantano il loro ultimo commiato e il gelo le accarezza i capelli come fosse ancora una bambina, accade qualcosa.
Quando Kayu si risveglia non è più nel bosco ma in un piccolo insediamento: Dendera.
Solo donne, tutte sopravvissute alla montagna, una piccola comunità di anziane che ha scelto di continuare a vivere a dispetto di coloro che per loro avevano deciso Morte.
Kayu voleva morire, non vivere. Questo era contravvenire alle leggi della vita e significava anche che non avrebbe più potuto ascendere al paradiso perché aveva osato rubare un esistenza che non le era più dovuta.
La comunità di Dendera è povera, le donne si adoperano senza sosta conducendo una vita funestata da una caccia scarsa, la mancanza di utensili e di raccolto ma vivono ancora.
Alcune vivono per dimenticare di essere state abbandonate e creare un luogo da poter chiamare casa; altre vivono per distruggere coloro che le volevano sole in vita e sole nella morte.
Kayu scopre presto che, nonostante quanto le altre donne si ostinino a professare una vita serena, gli equilibri all’interno di Dendera sono fragili.
Le due fazioni sono coinvolte in una lotta silenziosa.
A Dendera, ricordate, le donne sono tutte anziane e alcune di loro si apprestano ai 100 anni.
Sono poche e la possibilità di attaccare una comunità giovane, senza l’aiuto di armi, è piuttosto un suicidio che una missione.
Dendera è un microcosmo che vive nella neve immacolata.
La carestia di cibo non riguarda solo loro ma anche l’orsa che vive sulla montagna.
L’orsa e Dendera ingaggiano una battaglia che causerà una spirale di sangue, dolore e morte.
La fame, la paura, la guerra e la pestilenza sono pessime consigliere e quando la lotta inizia non c’è modo di fermarla se non pagando un tributo di morte.
Ma l’orsa non è l’unico araldo di distruzione che funesta Dendera e questa minaccia non ha un nome, non ha una forma ma uccide.
Yūya Satō è un maestro del “realismo magico”.
Dendera si compone di pagine ammantate di silenzio e urla, dove il silenzio è palpabile come la paura.
L’inquietudine ti si posa addosso come una magia, come una coperta calda a cui non riesci ad opporre resistenza e, quando il sonno sopraggiunge, non si può far altro che arrendersi.
Dendera è un romanzo di sensazioni, concetti e riflessioni vere ed è questo che lo rende speciale.
Volete conoscere la trama di Dendera? Allora cliccate sulla parola Link!
“difficilmente mi farò ammazzare senza opporre resistenza…“. Si rese conto di come quella fosse la comune convinzione di tutte le donne che erano sfuggite all’ascesa rituale alla montagna per poi vivere a Dendera.
Questa è una storia dalle molte facce. È più antica delle storie che vengono narrate da uomini nei testi sacri alla nostra civiltà. È una storia che è stata un’eco ma anche la tragedia più cruenta. Un mito cantato da Aedi, uno su tutti: Omero, il cantore dalle molteplici voci. Le parole dell’Iliade soffiano vento sull’ira di Achille ma non è la trame del Pelide ad aver portato tutti lì. Tutti sono davanti alle porte oblique e sinistre di Troia per La trama di Elena.
Elena, elénaus, elandros, eléptolis.
La distruttrice di navi, di uomini e di città.
Francesca Sensini è la portavoce de La trama di Elena.
Mi piace definirla così perché il libro reca il suo nome come l’Iliade reca quello di Omero nel posto che si consegna agli autori ma è Elena a parlare.
Ho letto molto sulla guerra di Troia e ogni testo mi ha sorpreso, conquistato o delusa.
Ci sono dei personaggi, specialmente quelli femminili, soprattutto negli ultimi anni, su cui sono molto prevenuta.
Perché?
È facile chiamare in causa nomi come Briseide, Cassandra e Elena ma non è intenzione di tutti dare un corpo e uno spessore al personaggio in questione.
Non tutti sono disposti a onorare il mito e gli aedi, anzi in molti l’unico desiderio è dare voce all’ego dello scrittore ammantandosi di vaticini improbabili, trame ordite a metà e prigionie che ricordano le favole Disney.
Ho letto un saggio, qualche tempo fa, che mi ha regalato una Elena reale e immaginata ma non mi aspettato che sarebbe arrivata un’autrice a dare ulteriore spessore alla donna che diede fuoco ad Ilio.
La trama di Elena discolpa la donna più bella e odiata al mondo.
Non è un libro che vuole renderla più simpatica a chi ha scelto di odiarla e l’ha additata come l’artefice di tutte le sventure di cui le donne, da lei in poi, vengono additate e per questo condannate.
Anzi, Elena è pronta a prendersi ogni colpa.
Ogni ingiuria.
Ogni epiteto.
È pronta ad immolarsi se questo è utile e necessario.
Ma non lo farà in silenzio.
Sa benissimo che starete a sentire le sue parole, la sua voce arriva dalle profondità del tempo ed era lì ben prima di Lilith, ben prima di ogni altra donna e di tutte lei è anima e corpo, una parte del suo eco vive in tutte noi.
Se è bastato il suo nome ad imbonire un esercito di diecimila navi e la sua voce a farsi amare da una città assediata, chi siete voi per resisterle?
Quasi sembra strano che Ulisse abbia avuto bisogno di essere legato e privato dell’udito per non cadere vittima delle sirene, aveva ascoltato la voce di dee prima di loro e ne era stato ammaliato come tutti.
La trama di Elena è un arazzo tessuto tra i secoli.
La figlia di Zeus, di Leda e di Nèmesi è davanti a voi, fila un arazzo di immagini contemporanee alla sua vita ma anche scene che la catturano nei secoli a lei posteriori.
Vi è mai capitato di osservare un quadro e sentire le voci e i rumori della narrazione?
Questo è La trama di Elena: l’incantesimo della donna più bella e odiata del mondo.
Un coro di voci di cui solo lei è in grado di riprodurre il suono e non potrete fare a meno di starla a sentire.
Non ci riuscì Euripide, non ci riuscì Filostrato e nemmeno le popolazioni indigene delle Hawaii, voi comuni mortali sarete in grado di resisterle?
Io non credo.
La narrazione della Sensini è poetica come un canto di gioia e dolore ed è perentoria come un invito alla guerra.
Coercitiva come la discordia ed ineluttabile come la giustizia.
Ci sono tanti passaggi che vorrei lasciare a piè di pagina per voi lettori ma non mi è possibile metterle tutte. Farei un torto ad Elena se scegliessi qualcosa e pretendessi che questo con influenzi anche voi.
Mi limito a credere che quella che scriverò sia più adatta a quello che l’autrice ed Elena hanno cercato di nascondere tra le righe come monito a voi che leggete le sue parole.
Elena è la fiaccola che diede fuoco al cancello protetto dal baluardo che nessuno ascoltava.
Un incendio di fuoco greco che rischiara le epoche e che nessuno ha ancora compreso come spegnere.
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Adottano così liberamente la menzogna, ne hanno bisogno, come l’architrave la colonna, per non frantumarsi su se stessi.
Di recente avrete visto in libreria un libro dalla copertina spettacolare e vi sto per raccontare che la meraviglia non si ferma all’abito. Raybearer di Jordan Ifueko è un libro da leggere. Edito da Fazi, nella collana Lainya nel gennaio 2023 si prepara a diventare una storia iconica.
Negli ultimi anni mi sono trovata ad ammettere che molti libri pubblicati per quella fascia di lettori chiamata Young Adult mi disturbano.
Non so più se sono io che non mi rispecchio più nella mia vita da giovane adulta o davvero la letteratura per ragazzi è cambiata talmente tanto da darmi il mal di testa.
MA… MA tra milioni di titoli ci sono delle PERLE che ti fanno dire: “allora non è tutto perduto!”
Raybearer è letteralmente il portatore di raggio che stavamo aspettando.
Tarisai vive in un bellissimo castello ma nessuno vuole toccarla. Tutti si occupano di lei perché è figlia di Lady ma sono molto ben attenti a non farsi avvicinare più del dovuto.
Sua madre è una donna potente, rispettata ma, sopra ogni altra cosa, Lady è temuta.
Tarisai la ama con lo stesso ardore di una fiamma che bisogna dell’aria, con la stessa fame che la terra arida ha della pioggia ma Lady non c’è MAI se non rare volte in cui si informa dei progressi negli studi.
Rari segni di affetto e nessun incoraggiamento.
Passa la sua infanzia sottoponendosi a studi intensivi su qualsiasi materia, sulle culture dei popoli del regno e sui loro idiomi ma per sua madre non è mai abbastanza.
«Non meritiamo il fardello che i nostri genitori ci hanno imposto. Però non possiamo sconfiggere mostri che non affrontiamo»
Un giorno, due tutori sconosciuti vengono scelti per accompagnare Tarisai in capitale.
La bambina non capisce, non è mai uscita da casa sua. Lady le mostra un ritratto e le chiede se vorrebbe conoscere il bambino di cui la tela reca l’immagine e la piccola acconsente, potrebbe essere il suo primo amico e il Narrastoria sa che Tarisai anela l’affetto di qualcuno più del respiro.
Raybearer è un romanzo intricato. Quando pensi di capire, un’altra scatola si apre e ne fuoriescono magia e molto altro.
È la storia di una ragazzina che è stata allevata per uno scopo che non comprende, è stata concepita con l’inganno e mandata al macello costretta da un desiderio che non le appartiene.
Tarisai tenterà di ribellarsi e prendere le distanze dalla voce che le impone costantemente il suo compito ma non è facile.
Come si può scrollarsi di dosso l’unica persona che è sempre stata CASA e di cui hai sempre voluto l’amore e l’affetto?
Raybearer è anche la storia dei difficili rapporti che i giovani hanno con i loro genitori.
Ad un certo punto, volenti o meno, il distacco deve avvenire. Deve essere così: i figli non sono una proprietà e non sono uno strumento.
Raybearer è una storia di amicizia e di fiducia, di manipolazioni e antichi rancori.
È una storia ma anche una metafora ed è così che un fantasy deve essere.
Narrare i problemi del mondo trasportandoli in una storia appassionante che elabori realtà altrimenti difficili da assimilare nella vita quotidiana è un compito arduo e Raybearer compie l’atto di prendere il testimone di un retaggio che non sempre viene compreso.
Il fantasy non è una bella storia. Non è inserire creature immortali e soprannaturali. Non è creare un mondo che non è il nostro ma creato ad arte per impressionare il lettore.
Il Fantasy è la massima espressione della metafora ma non della strumentalizzazione.
Celare tra le righe qualcosa che è come un tesoro è un’arte raffinata. Una volta trovato, quel tesoro nascosto, nessuno può portartelo via: Nessuno.
Ho trovato Raybearer affascinante. Un libro ben scritto e mai una volta in queste pagine ho pensato che l’autrice stesse strumentalizzando la sua storia.
La narrazione è ponderata, carica di significati, mai volgare. Tra le pagine regna una poesia difficile da trovare e la puntualità di chi non è abituato a girare attorno ai nomi delle cose.
Questo è il primo volume di una dilogia che si preannuncia spettacolare.
Netflix ha già annunciato la produzione di una serie ispirata a queste pagine e la attendiamo tutti con ardore.
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“Non ho mai capito perché i mortali rendano sempre tutto così complicato. La storia di Am per uomini e donne è sempre stata semplice: siete eguali, creati per lavorare a fianco a fianco. Ma ogni volta che si tratta di potere, i mortali detestano la semplicità”
Quando ho letto il titolo di questo libro, nella mia mente si sono create immagini che rievocano scenari ancestrali. Naomi Mitchinson, nel 1931 circa, scrive Il Re del Grano e la Regina di Primavera, edito nella nuova traduzione per Fazi nel 2022 e inserito nella collana Lainya.
Questo libro è considerato uno dei capolavori del fantasy e, anche se con qualche riserva, si può dire che la fama sia meritata.
Ma Il Re del Grano e la Regina di Primavera è molto più di questo.
Cosa non sapete de Il Re del Grano e della Regina di Primavera?
Normalmente non leggo le altre recensioni scritte in merito a libri che sto analizzando per non essere, in qualche modo influenzata dai giudizi altrui ma, questa volta l’ho fatto.
Potete leggere che questa è la storia di Erif Der (la Regina di Primavera) e di Tarrik (il Re del Grano), di come l prima cercò, per ordine di suo padre e suo fratello, di ammaliare con la magia Tarrik per poter poi ottenere il potere sulla comunità di Marob.
Il che non stava a significare avere solo il potere politico ma anche quello religioso.
Scoprirete che Marob non è una città esistita ma immaginaria all’interno del territorio degli Sciti e che in questa popolazioni le donne sono detentrici di poteri magici.
Vi diranno che Erif Der e Fililla (uno degli altri personaggi femminili) sono l’emblema di donna che lotta contro una società patriarcale e che, attraverso la forza di volontà e un carattere incandescente, ottiene un’emancipazione dai costumi sociali della sua epoca.
Tutto questo è vero, ma c’è molto di più. Altrimenti nelle 790 pagine di questo libro vi perdereste senza trovarne il capo e la coda.
Cosa, quindi, c’è da scoprire ne Il Re del grano e la Regina di Primavera?
Siamo pressappoco in età ellenistica, Alessandro è già passato a miglior vita (cosa che davvero gli auguro) e i diadochi hanno messo a ferro e fuoco il suo impero riducendolo in frantumi.
La narrazione inizia in Scizia, territorio più o meno compreso tra il Volga e il Dnestr (per aiutarvi è, grosso modo, il luogo in cui oggi si combatte una guerra), e tocca molti altri territori famosi: Sparta, Megalopoli e Alessandria.
Alcuni dei personaggi sono realmente esistiti, come potete constatare dalla casa regnante di Sparta che dei fasti dell’antica città guerriera ha ormai solo il nome.
Ma fino a qui non vi ho ancora detto cosa non avete ancora scoperto di questo corposo ma bel libro.
Non fatevi fuorviare dalla ricerca della bellezza di Berris, dalla fame di toccare l’intangibile di Tarrik e dalla lotta all’emancipazione di Erif e Fililla.
Il Re del grano e la Regina di Primavera nasconde il suo vero significato in un capitolo che potrebbe passare inosservato.
Sto parlando della cerimonia del raccolto. Tutte le culture toccate da Naomi Mitchinson hanno in comune la celebrazione del raccolto, è un rito di passaggio ed è qualcosa di ancestrale per ogni popolazione a prescindere dai riti religiosi che questa pratichi.
Sapete cosa hanno in comune tutte queste popolazioni nel libro?
Tutte sono in un momento di mutamento in cui l’ordine è sul punto di spezzarsi, sono tutte in un inverno in cui solo un apparente distruzione invernale può portare alla rinascita primaverile.
Affrontare un “male” necessario per consentire alla terra di rinascere, questo avviene in natura e nelle civiltà, anche se gli esseri umani spesso hanno modi davvero discutibili di mettere in pratica questo meccanismo di rifioritura.
La Mitchinson crea una storia che solo in apparenza è una storia tra ragione e sentimento, tra filosofia e magia, in questo il suo amico Tolkien le ha ben insegnato.
Nascondere tra le trame la struttura di segreti che, forse, non hanno bisogno di essere spiegati a chi vuol intendere.
C’è ancora molto altro da scoprire e non sempre i protagonisti ve lo renderanno facile!
Vi auguro una buona lettura e fatemi sapere cosa ne pensate.
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Ari il campo, ma non è tuo. Perchè il campo dovrebbe ascoltarti? La terra chiusa non vuole l’aratro, e fredda e dura sarà per il seme. Perchè dovrebbe venire la primavera?
Se vi portassi a fare un viaggio a poche miglia dalla costa ligure? Andiamo a Zoagli, una piccola isola in cui non va mai nessuno e che è apparsa nelle tele di Arnold Böcklin. La chiamano L’isola dei morti, anche se il pittore la dipinse chiamandola “un luogo tranquillo”. Io l’ho scoperta quando Fabrizio Valenza mi ha donato una copia del suo libro: L’isola dei morti.
Ora che vi ho affascinato con questa tela dal fascino mistico e che siete volontariamente con me su questa barchetta in mezzo al mare, ora che non potete tornare indietro se non a nuoto, vi informo che è il 1885 e che non esistono il GPS e il cellulare e sull’isola non c’è che UN telefono ma l’unico numero che potete comporre è quello per richiamare il vostro Caronte.
Non preoccupatevi, né Dante né Virgilio verranno a salvarvi e, in fondo, non ce n’è bisogno. Andiamo in un posto tranquillo.
Di recente hanno tutti una passione morbosa per Mercoledì di Tim Burton ma io la amavo quando ancora il pubblico internazionale la riteneva la degna figlia di una coppia fuori testa, quando se ti chiamavano Mercoledì o Morticia era per insultarti e non per farti un complimento.
E questo cosa centra con L’isola dei morti?
Niente ma volevo dirvi che quando si parla di comportamenti riguardo alla morte io ci sono.
Un archeologo che non osa andare dove va un antropologo culturale sarebbe lo zimbello di tutti.
Potete accorgervene già dal dipinto, chi non ha pensato ai Re stregoni di Angmar guardando quelle sponde, evidentemente non ha una passione per Tolkien e forse nemmeno per Tim Burton, ma di fronte a voi ci sono grotte che sembrano tombe.
Andrea Nascimbeni è un antropologo e decide di voler indagare sul luogo, sulle tradizioni del luogo in merito alle inumazioni e come queste siano rimaste intatte nonostante il cattolicesimo.
Ve l’ho già detto che L’isola dei morti non è una meta turistica?
Il nostro studioso si accorge presto che c’è qualcosa di molto più che misterioso in questa isola. Sì, perché nessuno ne vuole parlare e chiunque fa di tutto per distoglierlo dalla sua intenzione.
Vi svelo in segreto: nessuno può dire a uno studioso dove non può andare a ficcare il naso. Se conoscete Indiana Jones o Lara Croft lo sapete bene.
Se avete sentito qualche diceria sulla spedizione che scoprì la tomba di Tutankhamon, ecco ora sapete anche che può non andare come speravate. Ma la storia sulla maledizione non è vera, non credete a tutto diamine.
Andrea, che forse ha più spirito di sopravvivenza di quanto lui stesso crede, si presenta a Rosina (che è la proprietaria dell’unico posto che potete chiamare locanda) con un nome diverso.
Forse perché qualcosa, oltre alle rimostranze di tutti riguardo al viaggio, non lo convince.
Nemmeno la locandiera lo vuole lì. Andrea insiste a chiamare il luogo L’isola dei morti, Rosina dice che per gli abitanti quel luogo non ha nome.
La locanda si chiama L’ultimo posto, vi è chiaro?
In effetti l’antropologia del luogo è singolare e il Nascimbeni se ne accorge prestissimo.
Benedetto ragazzo, una delle prime raccomandazioni che gli è stata fatta è quella di non farsi vedere dagli abitanti; la seconda è di andarsene prima del 32 di ottobre.
No, non mi sono sbagliata.
Durante il vagabondare del nostro personaggio, si è profilata davanti ai suoi occhi una pletora di individui che potrebbero farvi giungere ad una conclusione sbagliata, è successo anche a me.
Ma, come vi dicevo prima, non bisogna credere a tutto.
L’isola dei morti non si chiama così per il motivo che credete voi.
Alti cipressi adombrano il teatro di camere funebri che Andrea non tarda a trovare a caro prezzo.
Tra tutte le ipotesi che potrebbero giustificare una tale consuetudine funeraria, non sono sicura che il sesto senso di Andrea abbia subodorato quello esatto.
Io lo avevo immaginato? Sapete, quando noi studiosi siamo abituati a conoscere le abitudini di popoli molto antichi, anche quando questi popoli delle loro abitudini non ci hanno lasciato nulla se non i luoghi, ci capita spesso di fare la cosa più semplice: ovvero metterli in correlazione.
L’Isola dei morti non ha abitudini diverse da altre culture, solo che, per il nostro cervello, la possibilità che queste si verifichino in una società occidentale e sotto al sole della cattolicissima chiesa di Roma, rende la supposizione improbabile.
Quindi se una cosa sembra improbabile, viene scartata e capita di fare la figura degli sciocchi. Può capitare che alla fine tocchi riscrivere la storia delle scoperte sull’Umanità, non è una tragedia.
L’isola dei morti è antica e vive nel mondo al tempo presente.
Insomma, se nessuno vuole che gli esterni si facciano gli affari loro una ragione ci deve essere, giusto?
Quando la scopriremo sappiate che qualcuno deve chiamare Caronte, che si chiama Andrea anche lui, e deve farlo anche in fretta prima che succeda l’irreparabile.
Vi avevo avvertito che qui urlare AIUTO non sarebbe servito, vero?
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Mi auguro che ciò che leggerete nelle seguenti pagine, a voi solo dirette e non per gli occhi della Scienza, non vi induca a giudicarmi, ma che, anzi, possano muovervi a pietà della mia vita e della disperazione che la corrode.
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