Tutti abbiamo avuto un primo amore che non era esattamente reale. Non so, magari un attore o un’attrice, il personaggio di un libro, il protagonista di un cartone animato e potrei continuare tutto il giorno. Dedalo & Dharma di Manlio Castagna inizia proprio così, con quella che i ragazzi chiamerebbero “crush” per la protagonista di un film. Ora, però, sono curiosa, chi è stato il vostro primo amore?
Io ne ho avuti 3. Il primo è stato Benjamin Price (Holly e Benji), poi è arrivato Pegasus de I Cavalieri dello Zodiaco (effettivamente potevo scegliere meglio) e per ultimo, visto che sentivo il bisogno di un amore serio, mi sono presa una sbandata (mai finita) per Ottaviano Augusto che è stato reale ma deceduto da qualche secolo.
Torniamo al libro di Manlio Castagna.
Dedalo & Dharma è una storia di giovani ragazzi e la celebrazione di un amore sconfinato per il cinema.
Lo potete appurare dall’impaginazione del libro e dalle sue splendide illustrazioni, opere di Kalina Muhova.
Chi conosce l’autore sa che l’amore per il cinema trapela da ogni suo scritto e ogni sua opera è un set cinematografico aperto su mondi incantati anche quando sono reali ma qui è diverso.
Dedalo & Dharma è qualcosa di personale.
Il fiorire nella coscienza di un adolescente della sua vera vocazione e passione e, perché no, raccontare che il vero amore può uscire da uno schermo e rapire il tuo cuore.
Dedalo, avrete notato che ha lo stesso nome del costruttore del labirinto di Cnosso, è un costruttore involontario di connessioni e di strade che portano in ogni dove.
È il centro del crocevia della vita dei suoi amici, della sua famiglia e dell’avventura che lo porterà a scoprire che l’amore muove il sole e le altre stelle ma è anche in grado di intrecciare la vita di un singolo a tutto ciò che lo circonda.
Ho trovato in Dedalo e Dharma scene che sono diventate iconiche del cinema. Alcune, forse, non sono altro che frutto della mia immaginazione.
Castagna ama Tarantino e questo è chiaro fin dall’inizio ma anche Fellini, Il cinema muto, il western e il cinema di animazione.
Tutto finisce nella sua penna e nella sua narrazione e i suoi protagonisti si trovano a varcare mondi di cellulosa trovando anche la forza di apprendere che, a volte, amare vuol dire lasciar andare.
In fondo, nella vita non si sa mai, nulla va mai perso realmente e quello che poteva non sembrare tangibile ha comunque ripercussioni sulla vita di tutti i giorni.
La M.J. di Spiderman non ricorda chi sia Peter alla fine di No way Home ma non vuol dire che sarà così per sempre, certi sentimenti non possono non avere un’eco attraverso lo spazio e il tempo, giusto?
Dedalo e Dharma è un libro che parla di percorsi, di scelte e di amore che poi, alla fine, sono la stessa cosa.
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Quando ho saputo che sarebbe uscito un altro romanzo sulla regina Clitemnestra di Micene, lo devo ammettere, la mia prima reazione è stata: ancora?
In un mercato piuttosto saturo di retelling di ogni genere, non è la prima volta che la regina di Micene fa capolino sugli scaffali delle librerie.
Ma, come capita, mi sono dovuta ricredere. Il retelling mitologico che prende il nome dalla famosa moglie del re Agamennone è, con ogni probabilità, la storia di Clitemnestra che stavamo aspettando.
Firmato da Costanza Casati, texana di nascita ma dal cuore italiano, ed edito per Sperling & Kupfer, Clitemnestra è un successo.
La narrazione narra della vita di Clitemnestra dalla sua infanzia al momento in cui, feroce come un’erinni, uccise suo marito con una scure.
È incredibile che le persone ricordino solo la furia con cui il re Agamennone, re dei popoli greci o almeno così gli piaceva farsi chiamare, è stato abbattuto come un albero secco.
Povero eroe, ucciso dalla moglie fedifraga proprio il giorno in cui tornava a casa dopo dieci anni di guerra e mentre si vantava di aver preso come concubina la sacerdotessa di Apollo più famosa della storia greca: Cassandra.
Ma cosa aveva scatenato quella furia?
No, Egisto non è colpevole di istigazione.
Clitemnestra non è donna che si faccia influenzare fino a quel punto dal belloccio di turno.
In comune avevano la sete di vendetta.
Per un uomo, si sa, la voglia di rivalsa è una questione di onore soprattutto se si parla di poemi epici.
Per una donna, non una qualunque in questo caso, è questione di giustizia.
Clitemnestra è una principessa spartana, è la sorella dei Dioscuri e anche di Elena moglie di Menelao e, a detta di molti, l’unica causa di tutta la distruzione che si abbattè sulle porte Scee che custodivano lo scrigno di Troia.
Anche se, ci tengo a dirvelo, non so davvero perché Menelao, che governava Sparta, si stupì così tanto di essere stato abbandonato dalla moglie.
Certo, Paride non ha onorato le leggi dell’ospitalità greca ma l’Atride minore avrebbe dovuto sapere che a Sparta una donna è legittimata ad abbandonare un marito se il nuovo pretendente è potenzialmente un arricchimento ai suoi possedimenti.
Troia era ben più ricca di Sparta e, senza Elena, Menelao teoricamente sarebbe stato il possessore di nulla.
Mi rendo conto che spiegato così è un po’ semplicistico, anche poco preciso e avrebbe bisogno di un approfondimento ma sono stanca di sentire: Elena è il problema.
Secondo voi, uno tsunami di 10000 navi greche sono arrivate ad abbattersi su Ilio solo perché la famigerata figlia di Leda e Zeus potesse tornare ad essere la mogliettina trofeo di Menelao?
Suvvia!
Torniamo a Clitemnestra.
Fu cresciuta per essere regina, fu istruita anche per essere una spartana ed era una guerriera di non poco talento.
Fiera, caparbia e intelligente non aveva nulla da invidiare a sua sorella.
Quando Agamennone decise che sarebbe stata la sua consorte, Clitemnestra era già sposata e aveva un figlio.
Beh, inutile dire che il figlio maggiore di Atreo non lo ha affatto considerato un problema insormontabile, li uccise e si prese la sua principessa.
L’autrice ci racconta del rapporto matrimoniale tra i due: lui non smetteva di cercare di sottometterla mentre lei scelse di aspettare il momento propizio per dargli quello che meritava.
L’episodio scatenante della furia incontenibile fu il “sacrificio” di Ifigenia.
Questa scena in particolare nel libro della Casati è l’essenza della tragedia greca epica. Tutti si muovono ma sono tutti fermi congelati nell’istante di un omicidio crudele di cui nemmeno Achille riesce a darsi spiegazione.
A Clitemnestra era stato portato via un figlio e l’amore una volta di troppo.
Questo è l’inizio della fine per il re che disse di aver abbattuto Troia ma che uccise se stesso.
L’autrice non ha cambiato molto della storia originale narrata dai grandi nomi del teatro greco. Anzi, gli aggiustamenti apportati sono funzionali alla storia e alla comprensione del punto di vista della protagonista.
Potete essere o meno d’accordo con la protagonista, non sta a voi giudicarla.
A lei non interessa affatto il vostro parere.
Chiamatela mostro se così vi piace, ma voi cosa avreste fatto se foste stati al suo posto?
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Clitemnestra aveva infranto la sua coppa contro il muro. Era rimasta immobile mentre uno schiavo era accorso ad asciugare il vino sparso per terra. gli ospiti l’avevano fissata, ammutoliti.
Lei aveva guardato suo padre negli occhi: “Prima o poi morirai. E io non ti piangerò. Guarderò le fiamme consumare il tuo corpo ed esulterò”.
Questa è una storia antica, viene dal vento gelido degli Urali ma nel suo risospingersi tra le montagne dell’est Europa ha più volte preso sfumature diverse. Racconta di un tempo antico, di un misticismo che è andato perduto. Le pagine raccontano de L’immortale e l’autrice che ha deciso di farcela conoscere è Catherynne M. Valente, sotto l’egida, per l’Italia, di Fazi editore.
Questa è una fiaba antica come antichi sono gli incantesimi che raccontano storie e, come ogni incantesimo che si voglia funzioni, la sua formula comporta una componente aspra e dura da digerire.
L’autrice de L’immortale ha fatto tesoro delle storie che il marito e la sua famiglia le hanno raccontato e ne ha tratto la sua versione della storia di Koščej l’Immortale e Marija Morevna.
L’Immortale è una storia diversa anche se è sempre la stessa.
Una storia che si ripete nonostante tutto, a dispetto della volontà dei suoi attori.
In fondo, chi mai è riuscito a sfuggire al destino?
Né la vita né la morte ci possono riuscire, voi?
“Le cause della grande guerra furono diverse. In primo luogo, lo studente appassionato deve essere consapevole che il mondo conosceva solo sette cose quando era giovane: l’acqua, la vita e la morte, il sale, la notte, gli uccelli e la durata di un’ora. Ognuna di queste cose aveva zar e zarine, e i principali tra questi erano lo zar della Morte e lo zar della Vita.”
Questa narrazione è un incantesimo, ritmato da un antico carillon russo e dai fucili di due conflitti mondiali e di una rivoluzione civile, dalla deposizione di un regime e dalla perdita di un mondo fatato che è diventato talmente patriota da essersi sfilacciato e poi soffiato via dal vento.
Ma nonostante questo, anche se non si può parlare di quello che è stato e di come era prima, la storia è destinata a ripetersi.
L’immortale è la storia di uno scrigno senza coperchio, né chiave ma al suo interno cela una fiaba e una verità intera.
L’immortale è una storia d’amore ma è anche una storia di paura e terrore.
Dentro ad ogni scrigno c’è una realtà e dentro ad ogni realtà ce n’è un’altra.
È così che funziona la vita ed è così che funziona la morte dalla stella argentata.
Tutto inizia a San Pietroburgo, quando ancora la città non si chiamava così e nel mentre che la città cambiò nome alcune volte.
“Una tessera annonaria dice: – la vita che ti abbiamo assegnato è tanta che possiamo tenere una certa quantità di morte lontana dalla tua porta. Ma non di più -. Dice: – A Leningrado c’è solo tanta vita da distribuire-. Dice: – L’unica cosa a non essere razionata a Leningrado e la morte –”
Una ragazza di nome Marija Morevna guardava fuori dalla finestra e tra le pieghe di un mondo in mutamento e, un giorno, il mondo in cui ella guardava le rispose e la trascinò via.
L’immortale è una fiaba di segreti e rivelarli potrebbe essere la rovina del mondo.
“Custodiscimi e obbediscimi, le disse il segreto, perché io sono tuo marito e posso distruggerti.”
La storia originale è raccontata nei Racconti popolari russi di Alexander Afanassiev e diversi autori ne hanno percepito la magia tramandandola, ognuno con un qualcosa di diverso ma uguale.
In fondo, chi può affermare con certezza se è nato prima l’uovo o l’uccello?
Se siete interessati vi lascio un paio di link da seguire:
Ammetto che quando ho scoperto questo titolo ero curiosa ma non ero preparata a questo gioiello tagliente come cristallo e magico come un canto suonato con la balalaika.
L’immortale porta in occidente una storia che è vera in ogni nazione e che rischiava di non essere conosciuta ma non solo DEVE esserlo ma le auguro di venire cantata per ancora molti secoli a venire.
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“Accadono perché la Vita consuma tutto e la Morte non dorme mai, e tra loro si muove il mondo. L’inverno diventa primavera. E ogni tanto recitano una strana, triste pantomima, solo per vedere se qualcuno ha già vinto. Se il mondo si muove ancora come una volta”
Maggio e anche giugno sembrano i mesi in cui io sia destinata a trovare molliche del mio passato. Questa volta a ricordarmi di una ragazzina idealista che voleva fare la curatrice del British Museum è Andrea Marcolongo con Spostare la luna dall’orbita, edito per Einaudi.
Frequentavo il quinto anno delle superiori quando, durante la mia prima visita al British Museum, vidi i marmi del Partenone. Quella folgorazione si trasformò nella mia tesina di diploma di maturità sul sistema museale che fu la scusa per parlare “dell’impresa” di Elgin.
A mia difesa posso ricordare che ero giovane, acerba, innamorata di mondi perduti e anche un tantino arrogante nella mia supponenza?
Parte della frase è ancora vera ma questa è una storia per un’altra volta.
A quel tempo trovai negli archivi on line del museo il firman in lingua italiana che permetteva ad Elgin di portare via da Atene i marmi del fregio più famoso del mondo e che lasciava pensare che, in un qualche modo, ci fosse stata una compravendita.
Lo ammetto anche con una certa riluttanza: che i marmi fossero a Londra, in seguito a quel documento, mi sembrava se non giusto quanto meno regolare.
Ora ve lo dico: non sapevo niente!
Ma il mio professore di inglese era ed è un suddito leale e integerrimo della corona inglese e mai si sarebbe sognato di contraddire qualcuno che data, seppur implicitamente, ragione a coloro che espropriarono legalmente a Lord Elgin i marmi che non del tutto legalmente lui trafugò dall’Acropoli.
La Grecia, al tempo dell’operato di Elgin per conto del governo inglese, era sottoposta al governo turco.
L’Acropoli era poco più che un deposito e una polveriera.
Diciamocelo, alla Turchia non interessavano i monumenti in maniera particolare ma, finché le lusinghe e una vittoria su Napoleone non si misero di mezzo, non avevano mai permesso a nessuno di portar via alcunché dal suolo sacro dietro ai possenti propilei dell’acropoli.
Lord Elgin portò via i marmi ed ebbe a che pentirsene amaramente, anche se a quel tempo lui non lo sapeva ancora.
Quando, negli stessi anni del mio diploma, Atene si preparava ad accogliere le Olimpiadi, il governo greco chiese la possibilità di ospitare i marmi ad Atene, perché la richiesta di potersene riappropriare era stata, di nuovo, respinta poco tempo prima, Londra rispose: ci sono i calchi di Basilea, potete prendere quelli.
Non credo fossero la frase letterale ma di sicuro il senso era quello.
Ricordo che rimasi stupita dalla violenza della risposta.
Potevo capire la riluttanza e l’attaccamento ad un cavillo legale, che ora so essere labile, ma non il necessario sberleffo nei confronti della Grecia mettendo in mezzo una terza città che non aveva nemmeno preso parte alla disputa.
Di solito chi si accanisce e alza la voce ha, quasi sempre, torto o la coscienza non esattamente nel punto di bolla.
In Romagna si direbbe che i Greci rimasero “sbattezzati” sia dal coraggio di Elgin nel portare via le opere che dal fermo e categorico rifiuto di rivedere la posizione in merito alla restituzione delle teorie di metope e dei fregi ateniesi.
L’espressione “sbattezzati” sta a significare: come a Spostare la luna dall’orbita.
La frase dell’archeologo Edward Daniel Clarke fu pronunciata nel descrivere lo sgomento greco di fronte agli operari che lavoravano al trafugamento.
In epoca moderna esiste una legge secondo cui le proprietà artistiche detenute legalmente dai grandi musei europei sono inalienabili ma, prima che il governo inglese acquistasse il patrimonio artistico proveniente dal tempio di Athena Parthenos in maniera inalienabile e incontestabile, lord Elgin aveva avuto lo stesso diritto legale sulla proprietà incontestabile, culturale e artistica, di un paese che non era libero di disporre nemmeno della libertà di definirsi un paese?
Quindi mi sono chiesta più volte, anche mentre leggevo Spostare la luna dall’orbita: fermo restando che il Partenone è una delle architetture più stupefacenti che hanno riempito i miei occhi, come sarebbe stato se lo avessi potuto ammirare con il suo corredo scultoreo ancora al suo posto?
Non posso nemmeno invidiare il lord inglese che si presentò al cospetto del periptero d’Athena solo dopo che il saccheggio era avvenuto.
Avrei quasi potuto capirlo di più se avesse deciso cosa portare via dopo averlo potuto vedere nella sua interezza.
Forse avrei potuto.
A dire il vero, a questo punto, proprio non lo so.
Avrà pensato, per un secondo, al fatto che non poter portare via anche il tempio fosse, se non per pietà verso la Grecia o paura dell’Ira della dea glaucopide, un buon motivo per lasciare le statue dov’erano?
Se fossero rimaste lì sarebbero sopravvissute? Anche questa è una suggestione che mi sono concessa di rimirare e che mi ha convinta a non approfondire quando volevo solo essere l’unica a proporre una questione attuale al mio esame di maturità.
Lord Elgin, il governo inglese, tutti i posteri si sono sollazzati nel poter pensare di aver salvato le opere come d’altronde ho fatto io.
Ma se si tratto un salvataggio, vuol dire che poi, il salvato potrà tornare a casa e al calore della sua casa.
Spostare la luna dall’orbita è esattamente lo sgomento dello sbattezzato che non riesce proprio a comprendere il perché la risposta ad una domanda legittima, con argomentazioni e precedenti più che legittime, sia sempre un No.
Non vi saprei dire se sono suggestionata dalle parole di Andrea Marcolongo sulla questione annosa della storia dei marmi di Atene ma, privata della mia puerile certezza della giusta proprietà di Elgin nei confronti del corredo statuario del Partenone, mi sento di unirmi a coloro che, vedendo quello che era Uno diviso due luoghi distinti, hanno sentito la forza dello strappo del tempio dall’opera di Fidia.
L’ho realizzato proprio ora, mentre a 18 anni capivo solo che la sala del museo era adeguata come misure ma non alla luce da cui dovrebbero essere baciate.
Ero io quella ad essere abbacinata dall’essere in uno dei musei più grandi al mondo e alla presenza del corredo statuario più magnificente che io avessi mai visto.
In quel momento, la mia vita era riuscita a Spostare la luna dall’orbita e forse l’ho messa ancora più lontana da dove l’aveva posata Lord Elgin.
Davanti a me la dea Athena tentava di nascere dalla testa di Zeus provocandogli un poderoso mal di testa che il sovrano degli dei avrebbe dovuto prendere ad esempio della furia di sua figlia, nel lato a me opposto si svolgeva la lotta tra la dea e Poseidone per il dominio sulla città di Atene.
Conoscendo la storia di questi marmi, priva di troppi particolari, dei marmi avrei dovuto, però, percepire che Atena più che con suo zio era adirata con chiunque non la stesse riportando alla sua legittima casa.
Spostare la luna dell’Orbita è, in parte, la storia di Lord Elgin e del trafugamento delle opere dell’acropoli ateniese; ma è anche la notte più sconcertante che l’autrice abbia passato: una notte all’interno del Museo dell’Acropoli, completamente sola ma in compagnia di ciò che resta dell’apparato iconografico rimasto in sede.
Questo museo è giovane, concepito attorno ai vuoti della cultura greca e non attraverso i suoi pieni.
Il senso della tragedia lo pervade e lo anima.
Passare una notte così è un onore e un onere per chi ama la cultura greca.
Il libro è anche questo ma, come spesso accade con questa autrice che io adoro, le pagine traboccano anche di molto altro.
E di colpo siete ad Atene, a Londra, su navi stipate di carico che naufragano, nella vita di un’autrice onesta nei confronti della sua vita e della sua opera e di fronte ad una delle opere più grandiose mai costruite.
Potete, forse, se le avete visto sia i marmi che il tempio, riuscire ad immaginarvi il Partenone ancora unito e ancora sfolgorante di colori abbacinati dai riflessi del marmo che lo componevano.
Chissà, forse Carlo III potrebbe prendere in considerazione di esercitare una migliore influenza culturale a livello mondiale e arrivare ad un accordo per le opere di Fidia.
Sarebbe un sogno.
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Lo aspettavo da molto tempo e finalmente oggi: 16 maggio 2023, il secondo libro di Elodie Harper è in tutte le librerie. Seguito de Le lupe di Pompei, sugli scaffali di tutte le librerie e, finalmente, tra le mie mani, arriva La casa dalla porta dorata.
Ricordate le ragazze del lupanare di Felicio?
Amara ormai liberata dal generale della flotta romana Plinio e sotto il patrocinio di Rufo è fuori dalle follie rabbiose del feroce lenone.
Didone, la migliore amica di Amara, è stata trafitta da un pugnale che l’ha uccisa al posto di Felicio.
Ed ora eccoci qui, tra le mura de La casa dalla porta dorata.
Qui vive Amara, ormai liberta, come concubina di Rufo a cui la ragazza piace fragile come un uccellino in gabbia e come tale vuole vederla cantare e suonare.
Quello che il patrizio non sa è che Amara potrà anche essere l’oggetto dei suoi desideri ma non è fragile.
La realtà, che la spaventa, è che la sua sete di libertà e indipendenza la fa somigliare all’uomo che fino a poco tempo prima era il suo padrone.
Amara, non Timarete (il suo vero nome, quello che le ha donato suo padre alla nascita), è costretta ad essere quello che la vita le ha insegnato.
Più che un nome il suo è, ormai, un titolo conquistato a fatica.
Purtroppo oltre ad essere spregiudicata e dotata di un forte senso di sopravvivenza, Amara è la trasfigurazione della vendetta della dea Diana.
La dea che ne La casa dalla porta dorata ha il volto di Didone è la mandante di una furia chiamata Vendetta.
Quest’ultima si è impossessata di Amara e l’acceca con il dolore per la perdita della sua amica.
È per perseguire la tempesta della vendetta che si ritrova ad avere a che fare con Felicio, di nuovo.
Amara costringe l’uomo a liberare Vittoria e venderle Britanna; così facendo si indebita e si ritrova in una spirale discendente in cui trascinerà tutto quello che ha di più caro.
Forse, in fin dei conti, Gaia Plinia Amara non è così spregiudicata come crede di essere.
Questa, come il precedente libro, non è una storia di salvezza.
La casa dalla porta dorata non è la libertà.
Quattro mura costituiscono l’illusione di avere qualcosa che le appartenga ma sono solo una gabbia più grande con un guinzaglio più lungo di qualche metro.
Il precipizio è ancora lì: più lontano forse ma più profondo di qualche decina di metri.
Amara non sta giocando con il fuoco ma con l’intero cratere che sovrasta Pompei e, ormai, non è più il suo solo destino ad essere appeso ad un filo sottilissimo.
La scelta è chiara: sopravvivere ancora a dispetto di tutti e tutto o sfidare la sorte con le carte più orribili che il destino può servire?
L’esistenza di Amara è un gioco sulla lama di un rasoio; ogni respiro è una lotta per la sua anima in cui il suo antagonista peggiore è il riflesso che vede nello specchio della sua toeletta.
La casa dalla porta dorata è un altro successo di Elodie Harper.
La condizione della donna della seconda metà del I secolo d.C. non è il solo scoglio che viene affrontato e su cui il lettore viene spinto fino a frantumarsi ed escoriarsi la pelle, ma è l’intero substrato sociale che muove l’impero ad essere sviscerato ed esposto come un corpo lasciato a marcire nella discarica fuori le mura di Pompei.
Della fiorente città campana noi ricordiamo le favolose rovine, i meravigliosi doni che ancora ci restituisce, i magnificenti dipinti e i ridanciani motti di spirito sui muri ma… tra quelle vie e quelle mura vivevano migliaia di persone di cui la storia ha dimenticato di prendere nota.
Ora ce li ricorderemo tutti, grazie a questa saga, possiamo dar loro un nome da iscrivere sulle steli.
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Chiude gli occhi, immaginandosi di essere a casa, al sicuro nel suo studio privato, non seduta qui, sulla pubblica piazza, a sorridere nonostante la paura.
Ho conosciuto Annalena Benini in una serata d’estate, all’interno di uno degli eventi dello ScrittuRa (Festival di letteratura organizzato a Ravenna-Lugo). In quella serata veniva presentato I racconti delle donne, edito per Einaudi, e mi ha folgorata. Torno oggi alla penna della Benini per leggere Annalena, il suo ultimo libro, sempre per Einaudi.
L’antologia con i racconti delle donne, che sono artiste e scrittrici conosciute e molto amate, mi aveva folgorata: sulla via di Damasco ho avuto la certezza che non sarò mai in grado di scrivere in nessuno di quei modi incisivi e mi sono sentita piccola di fronte alla grandezza della letteratura.
Annalena, invece, mi ha strappato il cuore.
Non sarò mai la Didion o la Yourcenar, ma la mia indole umana non sarà mai nemmeno vicina a quella di Annalena Tonelli, cugina di terzo grado della Benini.
Annalena è un libro biografico, almeno in parte, perché della sua vita di cui la Tonelli non voleva si parlasse è solo parte dell’immensità della vita che questa donna e minuta è riuscita a salvare, coinvolgere e toccare con la sua sola esistenza.
Anche la vita della Benini ne è stata toccata, non solo per la parentela che le lega, ma anche perché quando insegui la vita di qualcuno finisci per capitolarci dentro.
Puoi quasi toccare la pelle del tuo soggetto, entra a far parte di te. Lontane ma vicinissime, solo ad un sussurro.
La prima parte del racconto di questo libro mi ha fatta sorridere più di una volta.
Io e la Benini non ci conosciamo personalmente, ma la sua esperienza con la vita quotidiana mi ha permesso di credere che forse abbiamo qualche piccola cosa in comune.
Se non per altro almeno per una certa questione su di un naso che potrebbe essere, o non essere, ereditario.
Annalena Tonelli è stata uccisa nel 2003, in Somalia, con un colpo di fucile.
Aveva sessant’anni e il motivo della sua uccisione è stato una cosa (ben più di una in realtà) piccola, banale, e buia: l’ignoranza, la paura, Il Male.
Questa piccola donna avrebbe potuto scegliere di vivere negli agi di una vita borghese, facendo beneficienza a Forlì. Invece, ha scelto di partire per ovunque ci fosse bisogno di lei.
Il Kenya, la Somalia e molti altri.
Ha scelto una vita mortale. Ha preso la sua intera esistenza e l’ha donata a coloro che desiderava.
Ovvero tutti coloro che sono gli ultimi, gli abbandonati, i dimenticati.
Perdonatemi la parafrasi di una famosa frase de Il Signore degli Anelli, nella trasposizione cinematografica di Peter Jackson, ma non avrei saputo descrivere meglio di così quello che la Tonelli ha compiuto della sua vita.
La “Santa Annalena Tonelli” è l’epiteto con cui Il Corriere della Sera ha dato notizia della sua morte.
Epiteto che non sarebbe stato affatto amato dalla stessa poiché credeva che non servisse a nulla parlare di coloro che soffrono, occorreva fare qualcosa di concreto.
Immergersi nella sofferenza, donare ogni briciolo della propria vita, dare fino a svuotarsi e amare fino al limite delle proprie forze.
È una cosa bellissima da dire ed è fortissimo lo slancio che tutti sentiamo di fronte a questo appello, ma quanti di noi lo farebbero realmente?
Ne avremo la forza?
Ad un certo punto, io come la Benini, come tutti, ci troviamo a dover rispondere all’annosa questione: quando smetteremo di cercare di essere altri che non siamo noi stessi?
Non possiamo essere tutti grandi. Non saremo mai tutti dei giganti ma siamo forze, magari meno brillanti o meno forti rispetto ad altri.
Il nostro compito è vivere al massimo delle nostre possibilità, Vivere essendo coscienti di farlo, accettare quello che non possiamo cambiare per non disperdere le energie che ci consentono di compiere le grandi opere che sono destinate a noi e non ad altri.
Annalena Benini intreccia la sua vita a quella di un’anima inarrivabile, ce la restituisce attraverso i libri che la Tonelli amava e che le davano forza quando si sentiva sola e non compresa.
Ha esaltato la vita di colei che avrebbe detestato i nomi con cui la stampa e il piccolo mondo la identificava.
L’ha resa immensa facendoci vedere anche quelle che sono i lati umani che noi tutti nascondiamo per non sentirci molto più vulnerabili.
L’autrice ha “infranto il dogma” secondo cui non si sarebbe dovuto scrivere della Tonelli e, anche se in piccolo, l’ho fatto anche io per rendere omaggio al suo ritratto così abilmente delineato.
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Lei voleva essere nessuno, ma la vita è anche mancare qualcosa, non riuscire in qualcosa, non colmare la misura fino all’orlo. Lei che è stata la dismisura in tutto, non è riuscita a colmarela misura dell’essere nessuno.
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