Nella mia carriera da lettrice raramente mi capita di leggere libri da annoverare nella categoria thriller. Perché? La risposta mi è sempre sembrata semplice: non mi entusiasmano, anzi tutto il contrario. La realtà è un’altra: sono semplicemente attratta da storie che non si fermino al puro meccanismo tipico del thriller, anzi ci deve essere molto di più. Ovviamente sono un’estimatrice del Re King ma…il mio sesto senso per la tragedia e la miseria del genere umano mi ha portata nel Vermont con Il senso dell’alligatore di Guido Sgardoli.
Fin dalle prime pagine mi sono subito sentita a mio agio tra le pagine di questo libro.
Ho pensato: Il senso dell’alligatore parla di casa mia, come è possibile?
Sono nata in un piccolo paesino in cui è davvero difficile che uno straniero riesca a fare breccia nelle dinamiche sociali del luogo; la mia famiglia è un incrocio di varie culture importate da periodi di prigionie e lotte nelle trincee.
Non è importante che io non sia nata in Vermont ma che ho sentito Wytaco come fosse davanti a me, pregi e svantaggi inclusi.
Dove tutti sono una famiglia ed è quasi un miraggio pensare che qualcosa non sia affare di tutti ma altrettanto vero conoscere i pozzi in cui i tuoi concittadini nascondono le loro personalità più sopite.
L’approccio a questo libro mi è sembrato quasi naturale, come vi dicevo, mi sono immersa nelle dinamiche della cittadina e nello stonato arrivo di Larry Novak in una comunità così raccolta su sé stessa da arrivare ad essere considerata, agli occhi di un estraneo, poco più che un covo di zotici.
Larry è un forestiero, the new kid in the town, quello che tutti pensano di sottovalutare perché non conosce come funziona il mondo di Wytaco.
È un veterinario e ha acquistato la casa che precedentemente apparteneva ad un collega più anziano, Elmer Elroy, che desiderava trasferirsi in uno stato più caldo e come dargli torto!
Ma Larry non è solo questo.
Il senso dell’alligatore parla di una vita spezzata, di pezzi di vetro dai bordi taglienti.
Una volta la vita di Larry era diversa e, di colpo, un camion l’aveva mandata in frantumi.
Il suo lavoro, la sua fidanzata, suo padre…tutto perduto e i sette anni di coma lo avevano derubricato nella sala d’aspetto infinita in cui finiscono coloro che sono sospesi dalla vita.
Doveva essere stato un miracolo a svegliarlo. Di conseguenza, ora, doveva trovare un luogo in cui vivere questa nuova esistenza.
Possibilmente una cittadina raccolta, dove non essere colui che si era risvegliato dopo sette anni di coma.
Chi, dopo un trauma, non ha desiderato vivere in un luogo dove poter far finta che tutto quello che era successo nella vita precedente non fosse mai accaduto?
Volere una Casa in cui ricucire se stessi senza doversi giustificare è La Necessità in molti casi.
“Sperava di tornare a casa. Ci sperava, sebbene non ci credesse, così come non credeva a Babbo Natale o alla formica dei denti o agli alieni gentili come E.T., ma gli piaceva pensarci perché, finché non sai davvero se una cosa è vera o no, hai ancora la possibilità che lo sia.”
Per un attimo, qualche pagina e qualche capitolo Il senso dell’alligatore ricorda un romanzo di formazione o, per meglio dire un romanzo di ri-formazione.
Il racconto di una crisalide che tenta di passare al prossimo stato evolutivo.
Il mondo di Wytaco gira attorno agli affanni di Larry lasciandolo quasi “innocente” come un bambino nei confronti della tempesta che prima o poi arriverà.
Ognuno nel suo bozzolo è solo e rimettere insieme i pezzi non è operazione che possa essere imposta da altri ne tanto meno qualcuno possa obbligarti a ricucirli in una maniera che non sia tua.
Il dottor Novak crede di star facendo questo: affrontare i problemi come lui crede sia giusto per lui.
Per questo non si accorge dei lampi di luce.
Guido Sgardoli è un equilibrista che con perizia riesce a tenere Larry dentro la storia ma in una situazione sospesa nei confronti della cittadina.
Gli elementi che stanno addensando le nubi della storia sui tetti di Wytaco sono tutti davanti a voi.
Ed ecco che Il senso dell’alligatore, da narratore di crogiuoli di umanità sbeccate come la porcellana delle nonne che rimpinguano di torte di mele i loro nipoti, si appresta a divenire un palcoscenico di sospetti e manifestazione delle più oscure manifestazioni dell’animo umano.
A Wytaco, ogni tanto, un lupo sbrana una giovane vita e credere che si tratti di una triste serie di incidenti è sempre più difficile.
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“Ma, purtroppo per lui, l’ultima lezione che il piccolo Stevie imparò nella sua vita terrena fu che non basta evitare di pensare a una cosa perchè quella cessi semplicemente di esistere.
È giunto il momento per me di tirare giù dalla pila dei libri che ancora non ho letto un volume ho desiderato leggere fin dal primo momento che no ho visto la copertina. Il Premio Strega Ragazzi 2022 nella categoria 11+: Giuditta e l’orecchio del Diavolo opera di Francesco D’Adamo.
Una copertina e un titolo che ti ammaliano sono solo i primi passi verso una storia che ti stritola nel freddo dell’autunno del 1944.
In una vallata adagiata tra le Alpi, un giorno del nostro tempo, arriva uno scrittore che inciampa in una storia raccontata da un anziano del piccolo paese di Acquadolce.
È una storia che ha dell’incredibile e Tonino, l’anziano di cui vi ho parlato sopra, è sicuro che lo scrittore non crederà nemmeno ad una parola.
Giuditta e l’orecchio del diavolo è uno di quei racconti che si deve fare nel luogo in cui si originano.
Forse è per questo che Tonino porta il suo interlocutore in un luogo che di per sé è un mistero e una meraviglia: l’orecchio del diavolo, un muro brunito dalla forma concava da cui, dicono, si possono sentire le voci degli spiriti e dei morti.
È un luogo che attira la fantasia di popolani e grandi pensatori.
Nei secoli addietro persino un Tiranno greco fece scavare un luogo simile da cui poter sentire tutti i sussurri dei suoi prigionieri, lo possiamo ammirare a Siracusa ed è noto come L’orecchio di Dioniso.
Questo genere di muri veniva costruito durante la prima guerra mondiale per poter avvertire l’arrivo dei nemici e poter correre ai ripari.
Tonino inizia il suo racconto e da subito si avverte il freddo, l’urgenza, la paura e al contempo la costrizione che l’Italia tutta viveva nel 1944.
Il padre di Tonino era il capo di un gruppo partigiano. Un uomo enorme che nell’immaginario dei suoi due figli era un eroe di Salgari e per questo lo avevano soprannominato Sandokan.
Sandokan e i suoi vivevano lontani dalle loro famiglie, in quei luoghi dove nemmeno gli spiriti oserebbero andare se solo provassero freddo e paura.
Le famiglie vivevano in maniera semplice e i bambini vivevano di storie di avventure, racconti partigiani e lavori dei campi o nelle stalle con le bestie.
In paese non vivono solo le famiglie di coloro che lottano per la libertà ma, come c’è da aspettarsi, anche quelli che si sono conformati ai dettami del regime nazifascista ma, da “Bravi” quali sono, non osano denunciare i loro concittadini partigiani perché troppo impauriti dalla fama di Sandokan e da quello che farebbero loro le famiglie dei partigiani, parroco compreso.
Giuditta e l’orecchio del diavolo è una storia partigiana.
Una storia corale che esprime tutto il suo coraggio a partire da una ragazzina arrivata in una notte buia in casa di Tonino e suo fratello Giulio.
Giuditta è ebrea e i suoi genitori sono stati portati via dai “Todeschi”, soccorsa da amici della resistenza viene portata ad Acquadolce perché sia al sicuro.
Caterina, la madre dei due ragazzi, aveva dovuto decidere in fretta e senza il consiglio di suo marito: prendere o non prendere in casa una bambina bisognosa, cieca ed ebrea.
Delle volte il coraggio si nasconde nei gesti d’impulso.
Giuditta è una ragazzina strana, tutti credono che sia una strega e tutti la conoscono come Maria figlia della zia di Tonino e Giulio.
Giuditta è forte, indipendente e illuminata da un fuoco che può ardere solo in chi conosce nel profondo il terrore ma sa piegarlo a proprio favore.
È solo una bambina direte voi.
È più coraggiosa di molti di noi vi dico io.
Vede molto meglio di tutti noi, anche senza poter usare i suoi occhi che sono specchi verso il profondo dell’animo umano.
In compagnia di cane Giuseppe, ogni giorno siede al trono dell’orecchio del Diavolo e ascolta…
Si dice anche che la bambina parli con gli animali.
Non so dirvi se questo sia vero ma cane Giuseppe, che non aveva mai ubbidito prima, ora è la sua spalla fidata e verrà insignito della bandana partigiana.
Cane Giuseppe è finalmente la vendetta di Useppe e Bella de La Storia della Morante e si prenderà quello che è suo: la giustizia per la sua sorte e nessuno si dimenticherà più di cosa veniva fatto ai bambini del suo tempo.
Questa è una mia suggestione ma i libri servono anche a questo.
Giuditta e l’orecchio del diavolo non è una storia facile anche se è scritta per ragazzi.
Con un registro di facile comprensione Francesca D’Adamo sferza ventate di gelo a chi ancora non ha compreso che fare la cosa giusta non è affare ad appannaggio esclusivo degli eroi.
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Fare le scelte giuste non è difficile come sostiene qualcuno. È facile, perbacco, l’hanno capito anche i lupi!
Nel 409 a.C. Sofocle mise in scena la storia di una delle figlie di Micene. Suo padre era il grande Agamennone, il re che (si dice) portò i greci alla vittoria su Troia; sua madre era Clitennestra, la sorella di Elena che fu colei per cui (si dice) sia scoppiata la guerra di Troia. Lei, la nostra protagonista, era sorella di Ifigenia, di Crisotemi e Oreste: il suo nome è Elettra.
Sofocle non fu l’unico a scrivere una tragedia sulla principessa ma nelle altre opere, per esempio quella di Euripide, non troviamo l’Elettra che Jennifer Saint ha voluto che conoscessimo.
Come nello stile delle tragedie del teatro greco la Saint scrive usando più voci, quella di Clitennestra e quella di Cassandra, che al lettore possono sembrare troppo preponderanti al confronto di quelle della principessa.
È vero, Clitennestra e Cassandra hanno fin troppa voce in questo libro e potrebbe capitare di chiedersi che fine abbia fatto la donna da cui il romanzo prende il nome.
In fondo, Sofocle affida tutta l’azione ad Oreste.
Ma dovete mettere tutto in prospettiva. Questa non è la mera storia della principessa micenea ma anche una sorta di omaggio al tragediografo che di Elettra ci restituisce il furore.
Elettra non è colei che attua le azioni più importanti della vicenda ma ne è il motore e il carburante.
La regina Clitennestra e la principessa Cassandra sono coloro che conoscono tutto ciò che c’è da conoscere sul padre che Elettra tanto ama.
Come Oreste è la mano che gli dei mandano alla vendetta, Clitennestra e Cassandra sono le custodì della verità che Elettra si rifiuta di vedere.
Faremo un processo ad Agamennone? Credo che la sua storia e il suo destino abbiano già fatto abbastanza per questo tracotante personaggio che non conosceva limiti.
In questo Elettra è davvero sua figlia: la mancanza di percezione di tutte le realtà davanti ai suoi occhi è sbalorditiva.
Anche questo elemento della personalità di Elettra è ben reso dalla disposizione dei capitoli dell’opera della Saint: Elettra è talmente distante dalla vista del lettore che ogni volta che appare la percezione che si ha di lei è così fuori fuoco dalla realtà da renderla poco più che la bambina inerme delle Coefore di Eschilo o della donna rosa dai sensi di colpa di Euripide.
Ho dovuto riprendere in mano appunti di scuola e le fonti per rendermi conto dell’enorme lavoro di progettazione di questa storia, a prima vista non lo avevo notato e mi sono sentita piuttosto sciocca.
Ma, a questo punto, mi devo chiedere: i giovani che di Elettra conoscono solo l’appartenenza alla mitologia, capiranno questo gioco di sguardi tra la storia del teatro greco, la protagonista e il retelling mitologico?
Il linguaggio è quello giusto, forse manca una piccola spinta verso la giusta direzione e spero di essere stata di un qualche contributo in merito.
Elettra è un personaggio dalle molte facce ma il sentimento che la tiene in piedi è l’Ira che come avrete modo di vedere non è mero appannaggio di Achille.
Tutti ricordano la spiaggia di Troia ma non che sia stata la vita della mite Ifigenia a permettere che le navi partissero dalla Focide; la storia da la colpa alla fedifraga Elena e alla pazza Clitennestra della sorta del più grande dei greci ma mai ricordano che pur di avere lo scettro Agamennone ha mandato a morte la sua stessa progenie ingannandola nella più vile delle maniere.
Per la gloria e l’onore direbbero i grandi condottieri ma per è per la follia, la cupidigia e il possesso che tutto si è messo in moto.
Elettra è il secondo libro del progetto editoriale di Jennifer Saint sulle donne del mito. Il primo, sempre edito per Sonzogno, è Arianna mentre il prossimo sarà su Atalanta.
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Bramavo di prendere il posto di una schiava che non aveva nulla, eccetto la cosa che io volevo di più al mondo: l’abbraccio di mio padre.
Dendera è un nome che evoca antiche rovine, antiche dee e templi ricchi di reperti di rara bellezza. Ma non siamo in Egitto.
Siamo in un luogo dove la neve diventa piuma di corvo, dove il silenzio inghiotte ogni cosa e porta via gli inuditi ultimi lamenti di chi viene lasciato sulla montagna.
Yūya Satō ci trasporta in un luogo indefinito del suo Giappone, dove pennella un’atmosfera di ovattata realtà tra le nevi ma non ha paura di sporcare l’immobilità con il rosso della furiosa paura.
Una volta, tanto tempo fa, esisteva tra le popolazioni più antiche un’usanza.
Questa tradizione, ai nostri occhi potrebbe sembrare piuttosto barbara e impensabile da applicare al giorno d’oggi. Ma non esisteva una società come la nostra in quei lontani momenti di storia e per legge chi era troppo vecchio per contribuire alla società veniva…allontanato.
Il Villaggio imponeva uno stile di vita immacolato. Gli anziani, dopo aver compiuto settant’anni, dovevano compiere l’ascensione per raggiungere il paradiso.
Coloro che ascendevano indossavano uno Yukata bianco, venivano accompagnati sulla montagna dai loro familiari e poi lasciati lì.
La neve, il freddo, i corvi facevano compagnia a coloro che si mettevano in cammino per il paradiso.
Un passo alla volta.
Fino a che i piedi non erano troppo gelati. Fino a quando il corpo non si sentiva troppo intorpidito dal freddo. Fino al momento in cui ci si addormentava sognando la luce e tutti coloro che aspettavo dall’altra parte del cancello per vivere, finalmente senza più affanni, insieme per l’eternità.
Come vi sembra? È una fine poetica se solo vi sforzate di vederla sotto una determinata luce.
Dendera è un mondo tangibile e riconoscibile ma vi inonderà di sussurri e non potrete scappare.
Kayu ha accettato il suo destino, è pronta ad abbracciare la morte come una vecchia amica.
Ma…mentre la neve le sta preparando il suo ultimo giaciglio, i corvi le cantano il loro ultimo commiato e il gelo le accarezza i capelli come fosse ancora una bambina, accade qualcosa.
Quando Kayu si risveglia non è più nel bosco ma in un piccolo insediamento: Dendera.
Solo donne, tutte sopravvissute alla montagna, una piccola comunità di anziane che ha scelto di continuare a vivere a dispetto di coloro che per loro avevano deciso Morte.
Kayu voleva morire, non vivere. Questo era contravvenire alle leggi della vita e significava anche che non avrebbe più potuto ascendere al paradiso perché aveva osato rubare un esistenza che non le era più dovuta.
La comunità di Dendera è povera, le donne si adoperano senza sosta conducendo una vita funestata da una caccia scarsa, la mancanza di utensili e di raccolto ma vivono ancora.
Alcune vivono per dimenticare di essere state abbandonate e creare un luogo da poter chiamare casa; altre vivono per distruggere coloro che le volevano sole in vita e sole nella morte.
Kayu scopre presto che, nonostante quanto le altre donne si ostinino a professare una vita serena, gli equilibri all’interno di Dendera sono fragili.
Le due fazioni sono coinvolte in una lotta silenziosa.
A Dendera, ricordate, le donne sono tutte anziane e alcune di loro si apprestano ai 100 anni.
Sono poche e la possibilità di attaccare una comunità giovane, senza l’aiuto di armi, è piuttosto un suicidio che una missione.
Dendera è un microcosmo che vive nella neve immacolata.
La carestia di cibo non riguarda solo loro ma anche l’orsa che vive sulla montagna.
L’orsa e Dendera ingaggiano una battaglia che causerà una spirale di sangue, dolore e morte.
La fame, la paura, la guerra e la pestilenza sono pessime consigliere e quando la lotta inizia non c’è modo di fermarla se non pagando un tributo di morte.
Ma l’orsa non è l’unico araldo di distruzione che funesta Dendera e questa minaccia non ha un nome, non ha una forma ma uccide.
Yūya Satō è un maestro del “realismo magico”.
Dendera si compone di pagine ammantate di silenzio e urla, dove il silenzio è palpabile come la paura.
L’inquietudine ti si posa addosso come una magia, come una coperta calda a cui non riesci ad opporre resistenza e, quando il sonno sopraggiunge, non si può far altro che arrendersi.
Dendera è un romanzo di sensazioni, concetti e riflessioni vere ed è questo che lo rende speciale.
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“difficilmente mi farò ammazzare senza opporre resistenza…“. Si rese conto di come quella fosse la comune convinzione di tutte le donne che erano sfuggite all’ascesa rituale alla montagna per poi vivere a Dendera.
Questa è una storia dalle molte facce. È più antica delle storie che vengono narrate da uomini nei testi sacri alla nostra civiltà. È una storia che è stata un’eco ma anche la tragedia più cruenta. Un mito cantato da Aedi, uno su tutti: Omero, il cantore dalle molteplici voci. Le parole dell’Iliade soffiano vento sull’ira di Achille ma non è la trame del Pelide ad aver portato tutti lì. Tutti sono davanti alle porte oblique e sinistre di Troia per La trama di Elena.
Elena, elénaus, elandros, eléptolis.
La distruttrice di navi, di uomini e di città.
Francesca Sensini è la portavoce de La trama di Elena.
Mi piace definirla così perché il libro reca il suo nome come l’Iliade reca quello di Omero nel posto che si consegna agli autori ma è Elena a parlare.
Ho letto molto sulla guerra di Troia e ogni testo mi ha sorpreso, conquistato o delusa.
Ci sono dei personaggi, specialmente quelli femminili, soprattutto negli ultimi anni, su cui sono molto prevenuta.
Perché?
È facile chiamare in causa nomi come Briseide, Cassandra e Elena ma non è intenzione di tutti dare un corpo e uno spessore al personaggio in questione.
Non tutti sono disposti a onorare il mito e gli aedi, anzi in molti l’unico desiderio è dare voce all’ego dello scrittore ammantandosi di vaticini improbabili, trame ordite a metà e prigionie che ricordano le favole Disney.
Ho letto un saggio, qualche tempo fa, che mi ha regalato una Elena reale e immaginata ma non mi aspettato che sarebbe arrivata un’autrice a dare ulteriore spessore alla donna che diede fuoco ad Ilio.
La trama di Elena discolpa la donna più bella e odiata al mondo.
Non è un libro che vuole renderla più simpatica a chi ha scelto di odiarla e l’ha additata come l’artefice di tutte le sventure di cui le donne, da lei in poi, vengono additate e per questo condannate.
Anzi, Elena è pronta a prendersi ogni colpa.
Ogni ingiuria.
Ogni epiteto.
È pronta ad immolarsi se questo è utile e necessario.
Ma non lo farà in silenzio.
Sa benissimo che starete a sentire le sue parole, la sua voce arriva dalle profondità del tempo ed era lì ben prima di Lilith, ben prima di ogni altra donna e di tutte lei è anima e corpo, una parte del suo eco vive in tutte noi.
Se è bastato il suo nome ad imbonire un esercito di diecimila navi e la sua voce a farsi amare da una città assediata, chi siete voi per resisterle?
Quasi sembra strano che Ulisse abbia avuto bisogno di essere legato e privato dell’udito per non cadere vittima delle sirene, aveva ascoltato la voce di dee prima di loro e ne era stato ammaliato come tutti.
La trama di Elena è un arazzo tessuto tra i secoli.
La figlia di Zeus, di Leda e di Nèmesi è davanti a voi, fila un arazzo di immagini contemporanee alla sua vita ma anche scene che la catturano nei secoli a lei posteriori.
Vi è mai capitato di osservare un quadro e sentire le voci e i rumori della narrazione?
Questo è La trama di Elena: l’incantesimo della donna più bella e odiata del mondo.
Un coro di voci di cui solo lei è in grado di riprodurre il suono e non potrete fare a meno di starla a sentire.
Non ci riuscì Euripide, non ci riuscì Filostrato e nemmeno le popolazioni indigene delle Hawaii, voi comuni mortali sarete in grado di resisterle?
Io non credo.
La narrazione della Sensini è poetica come un canto di gioia e dolore ed è perentoria come un invito alla guerra.
Coercitiva come la discordia ed ineluttabile come la giustizia.
Ci sono tanti passaggi che vorrei lasciare a piè di pagina per voi lettori ma non mi è possibile metterle tutte. Farei un torto ad Elena se scegliessi qualcosa e pretendessi che questo con influenzi anche voi.
Mi limito a credere che quella che scriverò sia più adatta a quello che l’autrice ed Elena hanno cercato di nascondere tra le righe come monito a voi che leggete le sue parole.
Elena è la fiaccola che diede fuoco al cancello protetto dal baluardo che nessuno ascoltava.
Un incendio di fuoco greco che rischiara le epoche e che nessuno ha ancora compreso come spegnere.
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Adottano così liberamente la menzogna, ne hanno bisogno, come l’architrave la colonna, per non frantumarsi su se stessi.
Di recente avrete visto in libreria un libro dalla copertina spettacolare e vi sto per raccontare che la meraviglia non si ferma all’abito. Raybearer di Jordan Ifueko è un libro da leggere. Edito da Fazi, nella collana Lainya nel gennaio 2023 si prepara a diventare una storia iconica.
Negli ultimi anni mi sono trovata ad ammettere che molti libri pubblicati per quella fascia di lettori chiamata Young Adult mi disturbano.
Non so più se sono io che non mi rispecchio più nella mia vita da giovane adulta o davvero la letteratura per ragazzi è cambiata talmente tanto da darmi il mal di testa.
MA… MA tra milioni di titoli ci sono delle PERLE che ti fanno dire: “allora non è tutto perduto!”
Raybearer è letteralmente il portatore di raggio che stavamo aspettando.
Tarisai vive in un bellissimo castello ma nessuno vuole toccarla. Tutti si occupano di lei perché è figlia di Lady ma sono molto ben attenti a non farsi avvicinare più del dovuto.
Sua madre è una donna potente, rispettata ma, sopra ogni altra cosa, Lady è temuta.
Tarisai la ama con lo stesso ardore di una fiamma che bisogna dell’aria, con la stessa fame che la terra arida ha della pioggia ma Lady non c’è MAI se non rare volte in cui si informa dei progressi negli studi.
Rari segni di affetto e nessun incoraggiamento.
Passa la sua infanzia sottoponendosi a studi intensivi su qualsiasi materia, sulle culture dei popoli del regno e sui loro idiomi ma per sua madre non è mai abbastanza.
«Non meritiamo il fardello che i nostri genitori ci hanno imposto. Però non possiamo sconfiggere mostri che non affrontiamo»
Un giorno, due tutori sconosciuti vengono scelti per accompagnare Tarisai in capitale.
La bambina non capisce, non è mai uscita da casa sua. Lady le mostra un ritratto e le chiede se vorrebbe conoscere il bambino di cui la tela reca l’immagine e la piccola acconsente, potrebbe essere il suo primo amico e il Narrastoria sa che Tarisai anela l’affetto di qualcuno più del respiro.
Raybearer è un romanzo intricato. Quando pensi di capire, un’altra scatola si apre e ne fuoriescono magia e molto altro.
È la storia di una ragazzina che è stata allevata per uno scopo che non comprende, è stata concepita con l’inganno e mandata al macello costretta da un desiderio che non le appartiene.
Tarisai tenterà di ribellarsi e prendere le distanze dalla voce che le impone costantemente il suo compito ma non è facile.
Come si può scrollarsi di dosso l’unica persona che è sempre stata CASA e di cui hai sempre voluto l’amore e l’affetto?
Raybearer è anche la storia dei difficili rapporti che i giovani hanno con i loro genitori.
Ad un certo punto, volenti o meno, il distacco deve avvenire. Deve essere così: i figli non sono una proprietà e non sono uno strumento.
Raybearer è una storia di amicizia e di fiducia, di manipolazioni e antichi rancori.
È una storia ma anche una metafora ed è così che un fantasy deve essere.
Narrare i problemi del mondo trasportandoli in una storia appassionante che elabori realtà altrimenti difficili da assimilare nella vita quotidiana è un compito arduo e Raybearer compie l’atto di prendere il testimone di un retaggio che non sempre viene compreso.
Il fantasy non è una bella storia. Non è inserire creature immortali e soprannaturali. Non è creare un mondo che non è il nostro ma creato ad arte per impressionare il lettore.
Il Fantasy è la massima espressione della metafora ma non della strumentalizzazione.
Celare tra le righe qualcosa che è come un tesoro è un’arte raffinata. Una volta trovato, quel tesoro nascosto, nessuno può portartelo via: Nessuno.
Ho trovato Raybearer affascinante. Un libro ben scritto e mai una volta in queste pagine ho pensato che l’autrice stesse strumentalizzando la sua storia.
La narrazione è ponderata, carica di significati, mai volgare. Tra le pagine regna una poesia difficile da trovare e la puntualità di chi non è abituato a girare attorno ai nomi delle cose.
Questo è il primo volume di una dilogia che si preannuncia spettacolare.
Netflix ha già annunciato la produzione di una serie ispirata a queste pagine e la attendiamo tutti con ardore.
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“Non ho mai capito perché i mortali rendano sempre tutto così complicato. La storia di Am per uomini e donne è sempre stata semplice: siete eguali, creati per lavorare a fianco a fianco. Ma ogni volta che si tratta di potere, i mortali detestano la semplicità”
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