Ci sono elementi apparentemente separati gli uni dagli altri, parlo d prostituzione e maternità surrogata ; sono elementi che hanno in comune non soltanto il corpo della donna, ma il concetto stesso di libertà; di questo ci parla Libertà in vendita scritto da Valentina Pazè.
Viaggiatori, oggi non sono qui per offrire un viaggio fra misteriosi anfratti di mondi appena creati, oggi vi invito a sbattere il muso nella dura realtà, vi porto a spalancare gli occhi e strappare il velo delle verità più profonde che si nascondono nel corpo della donna.
Troppe volte vittima di abuso, troppe volte gestito da altri, il cui uso e sfruttamento continua ad essere motivo di dibattiti mirati più al profitto che alla vera liberalizzazione.
Una premessa importante, Valentina Panzè sottolinea già dalla prima pagina dell’introduzione le motivazioni che l’hanno spinta a scrivere questo libro: lo sconcerto verso tutte le nuove forme di sfruttamento . Non perde tempo in preamboli, ma si concentra immediatamente sulla ricerca della comprensione profonda del concetto di libertà.
E’ libertà scegliere di prostituirsi all’ interno di una struttura protetta, che fornisce sicurezza e possibilità di rifiutare i clienti, quando si è costretti a vivere all’interno di una società che spinge al raggiungimento di standard immediati, ad una competizione serrata e che altrettanto velocemente esclude dal mercato?
Denunciare un abuso o negare un rapporto non gradito all’interno di una struttura che dovrebbe tutelare, significa anche rischiare di perdere clienti, di conseguenza denaro, di conseguenza la possibilità di una vita decente.
Quali sono dunque i limiti della libertà o meglio, è possibile raggiungere “la libertà” ?
Ancora una volta:
Dietro la facciata presentabile di rapporti orizzontali,
tra pari, si nasconde la prevaricazione dei forti sui deboli. Troppo spesso lo sfruttamento viene chiamato
“accordo fra soggetti liberi e consenzienti”
Eppure chi rivendica la libertà a prostituirsi rivendica comunque la propria libertà,
esattamente come chi affitta il proprio utero
Non un libro di retorica, ma di profondo e sentito impegno, da qui il mio imbarazzo nell’essere consapevole di avere pochi strumenti per poter parlare di questo libro .
L’autrice inizia Libertà in vendita con un capitolo che personalmente ho trovato molto interessante, proprio perché necessito di informazioni e strumenti sul concetto di libertà.
Il primo capitolo si apre con un percorso filosofico e storico, con un’analisi del cammino che è stato svolto per comprendere e tutelare la vita, il primo bene.
Da Hobbes a Spinoza, passando attraverso il pensiero freudiano, socratico e aristotelico.
Non è stata una lettura facile , credo che nessun capitolo di questo libro scorrerà facilmente, ma lascerà un segno indelebile.
Due fazioni: le donne costrette a vendere il proprio corpo, in condizioni di bisogno estremo o di sfruttamento e dall’altra le donne che hanno scelto come lavoro quello di procurare piacere in cambio di un vantaggio economico.
In effetti come si fa, a priori, a stabilire che una persona è sfruttata o umiliata, se lei nega di esserlo? (…) Su quali basi è possibile limitare la libertà delle persone di decidere della propria vita,
di disporre di sé e del proprio corpo,
quando ciò avvenga senza comportare una lesione dei diritti altrui?
In Libertà in vendita si fa un’analisi approfondita dei limiti e delle possibilità, degli aspetti più palesi e dei risvolti più in ombra che comportano prostituirsi, nonché del pericolo oggettivo di questo mestiere.
Un libro che tocca argomenti scottanti che hanno come centro il corpo femminile e l’essenza stessa della libertà della donna, passando attraverso il tema intricato dei limiti dei diritti dell’autonomia del singolo.
27 gennaio, il giorno in cui si prendono le vanghe e si riesuma il ricordo delle trincee, delle fosse comuni, dei corpi lacerati, affamati, abusati; ma IlSecondo piano di un monastero conserva ancora la luce della speranza.
Un giorno che non può, non deve essere solo un giorno, ma si sa, per convenzione e comodità occorre attribuirgli una data.
Proprio il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’armata rossa arrivarono nella città polacca di Oświęcim, per primi a liberare i pochi superstiti.
In tedesco Oświęcim si chiama Auschwitz, loro furono i primi a venire a conoscenza dell’orrore del genocidio nazista.
Tra le vie del ghetto di questi fatti non si aveva la certezza, ma durante l’ultimo shabbat prima dello sgombero le famiglie avevano un freddo più intenso, misto a paura di qualcosa che non conoscevano completamente.
–Dicono che stanno arrivando-
E sono arrivati con tutta la loro devastazione.
Alcuni sono stati informati prima e si sono nascosti nelle campagne, gli altri sono stati spinti a forza dentro le camionette. Urla, percosse, terrore nella notte. Smarrimento.
Il secondo piano è quello di un monastero di suore francescane votate alla carità.
Le finestre del secondo piano sono chiuse,
-C’è disordine dicono- , ma anche quando il sole splende arrogante fra le bombe, non riesce ad entrare nel Secondo piano.
Le sorelle fanno la carità in ogni modo possibile, in tempo di guerra, con le strade vuote e soltanto persone nascoste negli angoli più bui, loro affrontano le guardie tedesche.
Dentro il monastero di via Poggio Moiano le notizie arrivano filtrate dal parroco della chiesa accanto e le preghiere alla Vergine si innalzano sempre più accorate affinché possano arrivare i giorni di pace.
Non ci sono solo preghiere nel monastero dove Madre Ignazia è la Badessa.
Il pane basta appena, viene diviso in pezzi piccoli, sempre più piccoli, a volte viene cosparso da un velo di marmellata, quella che doveva essere barattata con le uova, per rendere felice chi, a mala pena, riesce a stare in silenzio.
C’è solo una scala a separarli dalla guerra, dei gradini che sono garanzia di sopravvivenza a costo di sacrifici.
In situazioni di emergenza ci sono scelte importanti da fare, di comune accordo le regole si possono trasgredire in virtù dell’umanità e del sostegno reciproco.
I ritmi della vita del monastero si discostano minimamente da quelli usuali: preghiera, lavoro, cura dell’orto e del giardino, ancora preghiera,cura dell’altare, ricamo;
e poi ci sono le scale del secondo piano che vengono calpestate spesso, ma senza dare nell’occhio.
I romanzi che parlano di questo periodo storico sono spesso caratterizzati da molta violenza, Ritanna Armeni sceglie di dedicarsi ad un altro aspetto, più nascosto, anzi quasi invisibile: i rapporti umani.
In un periodo in cui non c’era tempo per i sentimentalismi perché bisognava cercare di salvare la pelle, ci sono piccoli mondi, in questo caso al femminile, dove la priorità è quella di sostenersi e sostenere chi è perseguitato.
Un romanzo dai toni delicati, per quanto lo si può essere in tempo di guerra, parole che sembrano entrare in punta di piedi e con discrezione dentro un luogo sacro, che raccontano di scelte di vita, di sacrifici compiuti con gioia, anche a costo della propria vita.
Ritanna Armeni scrive uno splendido romanzo fatto di coraggio e silenzio, fatto di fede vera, quella che vede Dio negli occhi delle persone e non solo nelle statue degli altari.
Cari viaggiatori,dopo aver letto il titolo vi starete domandando se la mia prossima proposta sarà quella di un viaggio fra abiti da sera, autoreggenti e vecchie canotte di lana del nonno; niente di tutto ciò, Il Guardaroba è un duro viaggio dentro il corpo di una donna.
Un bisturi in mano, affilatissimo e una donna che ha deciso di farsi a pezzi in una cruda e poco asettica analisi delle proprie parti.
Dentro pezzi di carne si nascondo traumi che solo il corpo sa celare.
Nuda, fin dentro le budella. E ancora Nuda, oltre la visione mercificatrice del corpo femminile. Nuda da fare ribrezzo, in vetrina come in una macelleria.
Ecco Il Guardaroba che dovete aspettarvi.
Un’autopsia dell’intimo più profondo, delle emozioni più forti, dei dolori più laceranti.
Ogni libro inizia dalla copertina e già qui la Houdart non ci risparmia: in mezzo ad uno sfondo bon-ton troneggia la testa di una signora truccata grossolanamente il cui collo si trasforma nella parte inferiore di un appendiabiti.
Non vi svelo ciò che è appeso, ma già l’idea che al posto del gancio ci sia la testa, suscita in me una serie di pensieri sulla sopportazione di carichi emotivi e psicologici che il corpo di una donna deve affrontare.
Appesi a quella testa/appendiabiti potrebbero esserci delle mammelle con figli aggrappati, camice stropicciate con ferro da stiro annesso, ma anche etichette di conserve fatte in casa e di comportamenti adatti per le serate in società.
La mia testa viaggia lontano dentro questa immagine e mi rendo conto di non aver ancora aperto il libro illustrato.
Non credo ad una vita ultraterrena; comunque porto sempre con me la biancheria di ricambio Woody Allen
Inizia tutto con il compimento dei quarant’anni, come un passaggio rituale la Houdart decide che è giunto il momento di guardarsi veramente dentro per conoscersi meglio.
Partorisce dunque Il Guardaroba per mettere in mostra ciò che ha scoperto nelle sue interiora e nei suoi organi.
Le pagine contengono immagini molto forti, di una bellezza macabra, immagini crude a cui è stata strappata via la maschera del perbenismo .
Gli occhi si aprono forzatamente dentro Il Guardaroba, tra disgusto e morbosa curiosità incontriamo amanti fra i graffi intorno ai capezzoli, cuori strappati ed ingabbiati, bambini mai partoriti in una nera foresta.
Il dolore diventa veste, il trauma un accessorio da indossare.
Difficile da digerire, eppure meraviglioso.
Un libro illustrato che non lascerà indifferente chi ama viaggiare dentro le immagini cogliendo, nelle parole che l’autrice ci suggerisce, solo lo spunto per partire.
Poi c’è solo il viaggio, intimo, dentro ognuna di noi, dentro il proprio vissuto.
Un viaggio che parla della crudeltà a cui troppo spesso viene sottoposto il corpo femminile,e di umiliazioni che si depositano nelle ovaie e fanno crescere embrioni di risentimento.
Il Guardaroba ha aperto una breccia nel mio cuore con un bisturi e mi sono innamorata follemente di Emmanuelle Houdart e delle sue opere.
Liste infinite, desideri, programmi, poi l’anno arriva al termine, l’unico desiderio che ho è porre la mia attenzione su un libro che mi faccia galleggiare, sostenendomi in un liquido amniotico di cui non vorrei perdere nemmeno una goccia: Nuoto libero.
Così mi ha colta impreparata, senza le infradito per la piscina e infreddolita per lo sbalzo termico.
Il mio Nuoto libero nel mare di libri che avevo scelto ha subito una brusca frenata dentro una piscina.
L’esigenza di vedere il fondo quando mi accingo a nuotare in mare aperto è fondamentale per me, un’atavica paura dell’oscurità manifesta che niente ha a che vedere con quelle ombre quotidiane che spesso fanno molta più paura.
A volte il fondo non si vede lo stesso, anche se è a pochi metri di distanza, dentro una piscina sotterranea.
Capita però che dentro quel liquido ci siano molto più che corpi galleggianti, e che, giorno dopo giorno, la piscina stessa diventi un microcosmo perfetto nel quale sprofondare.
Quando le orecchie si tappano per evitare che l’acqua vi penetri all’interno, tutto appare protetto da una bolla : i rumori ovattati producono il giusto distacco dagli altri natanti, la diversa gravità che concede ai corpi movimenti inusuali rispetto alla terraferma ci illude che forse, potremmo anche azzardarci a desiderare un paio di ali, o forse che camminare e lavorare non è l’unico destino per certi esseri umani.
Nuoto libero e pensieri costretti dentro le cuffie da bagno o compressi in costumi a righe, pensieri ordinati in corsie per i più veloci, per gli ex olimpionici o per chi macina vasche per non macinare risentimenti.
Tutto perfettamente ordinato e, se qualcosa dovesse sostare oltre l’orario prestabilito, il bagnino provvederà immediatamente a ripescarlo col retino per farlo sparire prima dell’arrivo dei prossimi bagnanti.
Abbonamento annuale per dare ossigeno ad una vita impossibile da vivere solo in superficie.
E poi la crepa, ci puoi nuotare intorno o fare finta di non vederla, ma tu a lei non puoi sfuggire.
Il Nuoto libero non conforta più, è l’inizio di un cambiamento inaspettato, di un gorgo che minaccia di ingoiarci tutti.
E ogni volta che ci nuoti sopra, o che ne senti parlare da qualcun altro, la crepa si incide più in profondità nei circuiti neurali del tuo cervello. E da quel momento non riesci più a togliertela di dosso.
Julie Otsuka, autrice di Nuoto Libero, dirige meravigliosamente la prima parte di questo libro, descrivendo minuziosamente aspetti, ritualità e abitudini degli “abitanti” di una piscina sotterranea , metafora della ricerca di svago dalla vita quotidiana e non solo.
Nuoto libero non è solo questo, la Otsuka ci catapulta in una seconda parte ancora più ipnotica, dove lo stretto legame fra madre e figlia diventa osservazione diretta e costante del decadimento della mente e di chi le sta intorno.
La malattia, raccontata secondo una strategia narrativa che si lega indissolubilmente allo svanire dei ricordi e, parola dopo parola, trascina nell’oblio della parola stessa.
Un capolavoro narrativo, un salto dimensionale fra la quotidianità e i pensieri, perché i salti non sono solo quelli olimpionici, ma anche quelli fra le strisce pedonali o fra le corsie del supermercato, fra la preparazione della cena e lo scordare di chiudere il gas.
Non ricordo quando ho iniziato a dimenticare, ma nella casa di cura Bellavista lo posso fare perché qui pensano loro per me.
Ricorda il suo nome. Ricorda il nome del presidente. Ricorda il nome del cane del presidente. Ricorda in quale città vive. E in quale via. E in quale casa. Quella con il grande ulivo dove la strada fa una curva. Ricorda che un tempo eri sposata, ma si rifiuta di ricordare il nome del tuo ex marito.
Essenziale ma mai freddo e impersonale, immediato e devastante, un libro che lascia filtrare le emozioni attraverso una crepa, per evitare che il dolore ci uccida.
E’ terminato l’anno ma non il ricordo dell’acqua clorata sulla pelle, ormai la piscina è chiusa e i ricordi sono sempre più lontani, ma questo libro ha aperto la porta a nuove forme di racconto di cui non voglio più fare a meno.
Se sei interessato a leggere altre recensioni improntate su rapporti familiari, specialmente quelli tra madre e figli, ti invito a leggere anche Baci all’inferno.
Ostinati viaggiatori invernali, indomiti pionieri determinati a scoprire mondi anche nel periodo più rigido dell’anno, oggi vi accompagno nella Londra del 1843, dentro un racconto che parla del grande racconto di Natale : Il canto di mr. Dickens.
Non è facile entrare nel clima delle feste, almeno per me, occorre sempre un grande sforzo fisico e mentale.
Le luci mi abbagliano, così come l’eccessiva opulenza e il bisogno di trasformare un sentimento in un oggetto da donare. Tutto questo mi trascina dentro un vortice di disgusto dal quale sopravvivo solo grazie ad un sano distacco.
Allora mi trasformo nel vuoto, mentre tutto attorno a me si sforza di essere bello, luccicante e stucchevole.
Avevo bisogno di questo libro, di una lacrima sincera sotto le coperte, di un pensiero che mi accompagna fino al sonno e anche oltre.
Ho ritrovato un senso da dare a questo vortice confusionario grazie a Dickens e a Samantha Silva.
Ti sei rammollita Fra, mi sono detta più volte, ma la verità è che le atmosfere uggiose unite alle carrozze che sfrecciano nelle strade, il profumo del pane fresco e i bimbi che cercano di rubarne un pezzo, mi appartengono.
Ovviamente non ho duecento anni, ma il soffio di quei racconti eterni ed indimenticabili sono ricamati nel mio cuore di bambina e ancora oggi riescono a condizionare la mia visione del Natale.
Avevo tanti dubbi sulla scelta di questo libro e molta paura che la pretesa di voler raccontare la nascita di un capolavoro come A Christmas Carol fosse un’impresa troppo grande.
Invece Il canto di mr. Dickens mi ha saziato completamente ed immerso nell’unica atmosfera in cui avevo voglia di stare : la Londra umida e fangosa, quella dell’alta borghesia fatta di belletti e vizi, e quella di chi guarda da dietro le vetrine, sperando di riempire la pancia solo con sguardo, dei poveri signor nessuno affamati e senza voce.
Incontriamo un Dickens infelice e irrequieto, per niente pronto ad affrontare i bagordi natalizi.
Tante cose non vanno bene nella sua vita ed una sorta di inquietudine gli scorre sottopelle impedendogli di apprezzare le gioie che ha intorno. I preparativi a Devonshire Terrace fervono, i suoi figli hanno lunghe liste di regali, i parenti bussano alla sua porta in continuazione con richieste o proposte che lui non “dovrebbe proprio farsi scappare”.
Ogni anno la stessa messa in scena che si ripete, ma questa volta qualcosa non va, The Life and Adventures of Martin Chuzzlewit non sta vendendo bene; forse un racconto di Natale potrebbe risollevare le sorti e riportare Dickens alla gloria che ora pare perduta, almeno così suggeriscono i suoi affamati editori.
Per un animo irrequieto come lui però, non è possibile affrontare un nuovo racconto senza prima scavare dentro la sua vita e ritornare nuovamente a credere.
Dickens conosceva benissimo quel trucco , ma sorrise ugualmente,
e non perché fosse eseguito con particolare maestria
– anzi, vi aveva colto una certa goffaggine-
ma per la verità di fondo di ogni spettacolo di magia, di ogni storia inventata, di ogni bugia:
il nostro grande bisogno di credere.
Per poter ritornare a credere in se stesso egli dovrà ripercorrere alcune tappe fondamentali della sua vita per risanarne le ferite e cercare di conservarne il più prezioso dei ricordi.
Eleanor Lovejoy, col suo mantello viola e il viso bianco e luminoso , lo accompagnerà nel suo cammino, con parole delicate ma mai illusorie gli donerà un nuovo sguardo su quel mondo che ora gli appare tanto superficiale.
Lovejoy, un cognome emblematico quanto tutti i personaggi di Dickens, Eleanor silenziosa come i primi fiocchi di neve gli farà aprire gli occhi verso il suo passato e lo preparerà al Natale presente.
“Che male potrà mai fare un fantasma?”
aveva chiesto lei, proprio in quella stanza.
Ma non si trattava affatto di una domanda.
Quella era la risposta.
I fantasmi ne Il canto di mr. Dickens hanno molti volti, si celano nelle sofferenze dell’infanzia, nella continua paura che le persone abbiano verso di lui sempre lo stesso scopo, si nascondono nei suoi stessi limiti e saranno proprio loro a suggerirgli il racconto .
“Alla fine credo davvero che il Natale inizi nel cuore”
La riscoperta del vero senso del Natale potrebbe apparire qualcosa di scontato, ma a me è sembrata una nuova scoperta, una rilettura con nuovi occhi :
Il grande dono del Natale è l’amore, ma per poterlo ricevere occorre saperlo donare.
Voglio ricordare un’ultima volta gli occhi del piccolo Timoty e la sua manina tesa per prendere quella di Dickens e continuare a credere nelle possibilità della vita, un’immagine che conserverò illibata dalla frenesia dei giorni che stanno per arrivare, in quell’angolo di cuore che desidera solo ispirazione e silenzio. Buon Natale, qualunque cosa significhi per voi.
Oggi cari viaggiatori siamo diretti in un ridente paesino fra le montagne : Acquasplendente, ci aspettano Gli strani gatti di Brunilde Saltamerenda.
Niente può essere paragonabile agli amici, loro ci sono sempre e sotto tante forme, ci aiutano a comprendere e superare situazioni difficili e ad affrontare paure che spesso sembrano insormontabili.
Come fanno? Semplicemente restando se stessi!
A volte, come è capitato nel mondo di Brunilde, gli amici assumono forme inaspettate e mutevoli, spronandoci al cambiamento per cercare di uscire da schemi troppo rigidi.
Così accade a Brunilde, una cascata di riccioli e tante paure nascoste nel suo cuoricino, paure che cerca di esorcizzare mettendo in atto tutta una serie di piccoli rituali : una lampada sempre accesa, canticchiare quando è sola; ma Brunilde Saltamerenda non è mai sola!
Tre amici pelosi e dagli occhi molto furbi sono sempre con lei e la accompagneranno a superare una situazione che la spronerà a tirare fuori tutto il suo coraggio e anche tutta la sua pazienza, perché gli amici a volte ne combinano di tutti i colori!
Tutto improvvisamente si rompe attorno a Brunilde, anche le sue certezze si incrinano perché papà e mamma sono lontani, ed è proprio la grande rottura che fa fuoriuscire la magia!
Chi non ha mai sognato di trasformare il proprio amico peloso in uno umano per vedere un po’ cosa succede?
Io e Jana abbiamo discusso e sognato tanto su questa possibilità, i pomeriggi fra le pagine di Gli strani gatti di Brunilde Saltamerenda, sono trascorsi attribuendo voce e carattere ai nostri due amati cani: Nilo e Brigida.
Ed ecco che improvvisamente Nilo si trasforma nel grande e saggio eroe dalla voce roca e Brigida nella scapestrata avventuriera dalle orecchie a sventola!
Un racconto che ci ha tenute incollate alle pagine proprio perché tutti abbiamo delle paure, grandi e piccini e tutti abbiamo bisogno di avventure che ci aiutano ad elaborarle e superarle.
Brunilde non si fa più fermare né dall’età né dal terrore che spesso blocca , è determinata ad aiutare i suoi amici, tutti gli abitanti di Acquasplendente e a rimettere al suo posto “il grande vecchio”.
Ed è proprio grazie a tutte le peripezie che Brunilde si trova ad affrontare, che la bambina sviluppa il suo carattere e prende decisioni dettate dalla sua intelligenza e guidata dal suo intuito.
Un libro ricco di piccole perle da scoprire e che Jana ha ascoltato con grande interesse.
Anche Tommaso aveva compiuto quel terribile gesto? Non direttamente, ma questo faceva capire a Brunilde che i cattivi sono tali anche quando non compiono azioni malvagie, basta solo che lascino fare agli altri senza prendere posizione. Il silenzio di chi non combatte per la giustizia aiuta i cattivi e non li ferma.
Temi importanti per le nostre ragazze e i nostri ragazzi in crescita, uno stimolo in più per maturare senso critico e portare avanti le idee in cui si crede.
Casa non è dove sei ma con chi sei
Le deliziose illustrazioni che ci accompagnano nel racconto de Gli strani gatti di Brunilde Saltamerenda sono di Paola Siano.
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