Ho letto Povere Creature! di Alasdair Gray e, ad un certo punto, la povera creatura ero io.
Fin da subito ho capito che la lettura sarebbe stata una piacevole scoperta e che il libro mi sarebbe piaciuto.
Una scrittura ironica, guizzante, mai noiosa.
Mi è capitato di leggere le pagine di Povere Creature! anche in momenti in cui ero sfinita e la carica narrativa di questo libro mi ha resa felice di aver sottratto qualche minuto al sonno incipiente.
Povere Creature! è un capolavoro.
Ho sbagliato, all’inizio della lettura, a credere che fosse un romanzo gotico.
Ho sbagliato a credere di leggere la versione di Gray del romanzo di Mary Shelley.
La vera questione che riguarda Povere Creature!, se proprio dobbiamo trovare un punto di partenza nella letteratura passata , è da ricercare in Pirandello: Così è se vi pare.
A dispetto della realtà e dell’oggettività, a dispetto di ciò che è normale, c’è una storia e dire chi sta fornendo una versione errata è davvero difficile.
Ma, in fondo, chi può dire di conoscere la verità assoluta quando si sta affrontando un gioco di specchi?
Ho iniziato Povere Creature! e ho pensato di essere coinvolta in un’atmosfera fantozziana.
Sì, sembra tutto così fuori dai binari che suscita l’ilarità del lettore.
È tutto così ilare che si perde il punto del discorso: non c’è proprio nulla da ridere.
Bella è ingenua e totalmente libera di essere chi vuole essere.
Ma è davvero così? Dipende a quale versione della storia decidete di dare credito.
Non posso dare troppe informazioni, anche se immagino che tra i lettori ci sia chi ha già visto il film al cinema.
Io non l’ho visto e non chiedo di sapere come il regista ha deciso di raccontarmi la sua versione, quindi non vi dirò cose che dovrete scoprire leggendo questo libro.
Diversi sono i temi che si nascondono tra un cenno a Frankenstein e uno al Grand Tour vittoriano (anche se è davvero fuori dai canoni ed è una donna libera ad effettuarlo).
Le situazioni spesso sono talmente assurde che si perde sempre il fuoco del discorso: non c’è nulla da ridere, non importa quale sia la versione della verità che scegliete.
Questa storia parla di Povere Creature! ma non si sta parlando di denaro.
Anche quando tutto sfolgora è nella crepa di un sorriso che si cela la povertà, è nella fama di un regno che si scopre cosa non funziona, è nella osannata società di una Gran Bretagna all’apice del suo fulgore che non si può voltarsi a guardare altrove.
Anche se tutto è al massimo dello splendore bisogna ricordarsi che si è tutti uguali nel privato della propria esistenza.
Anche coloro che sono pronti a scagliare pietre, anche coloro che vengono lapidati.
La povera creatura sono io che credevo di poter ingabbiare questo libro in una categoria.
La povera creatura sono sempre io che sono caduta nel tranello dell’autore e mi stavo facendo trascinare da esperienze letterarie e sociali pregresse.
La povera creatura sono io che non ho ancora avuto tempo di ammirare la pellicola di cui Emma Stone è riconosciuta come indiscussa stella.
Normalmente rifuggo dai testi di cui troppo si parla ma se Yorgos Lanthimos non avesse proposto la sua visione e questa non avesse vinto numerosi premi, probabilmente, non avrei mai colto la possibilità di avventurarmi in questo libro.
Così è, se vi pare. intitolava l’opera teatrale.
Ci sarà anche la verità sullo svolgimento di questa intricata vicenda ma il punto è che la sterilità di una versione unanime non importa.
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“Gesù era sconvolto dall’universale crudeltà e indifferenza quanto me. Anche lui dev’essere rimasto inorridito scoprendo che doveva migliorare le persone contando solo sulle proprie forze”
Ho iniziato il 2024 con un personaggio silenzioso, di cui quasi nessuno ricorda il nome. Ma, se Virgilio non l’avesse inserita tra i personaggi della sua opera, forse, il progetto augusteo dell’Impero Romano non sarebbe stato lo stesso. Enea senza Lavinia non avrebbe potuto dare vita alla grande città di Roma.
Lavinia è vissuta in poche righe, uno stralcio della letteratura in cui le viene assegnato un compito che ha svolto in quasi religioso silenzio.
Ci è stata trasmessa solo una piccola immagine di quella che era la donna che il destino aveva promesso ad Enea.
Un grembo da affidare all’eroe fuggito da Troia, affinché la sua stirpe creasse un impero che i secoli a venire avrebbero visto nascere e soccombere ma la cui memoria è eterna.
Lavina è una principessa italica, dai biondi riccioli e disperata per la morte di sua madre.
Lavinia è un vago respiro tra le righe di una storia che Virgilio voleva fosse bruciata e Augusto voleva per celebrare la sua gens e la sua autorità.
Lavinia non ha mai goduto di una vita definita da gesta eroiche e immortali.
Virgilio non le ha mai dato il respiro vitale che di Didone e, anche se piuttosto breve, di Creusa.
“Ma non morirò. Non posso. Non scenderò mai tra le ombre sotto Albunea per vedere Enea alto tra i guerrieri, scintillante di bronzo. Non parlerò a Creusa di Troia, come un tempo pensavo che avrei fatto, né a Didone di Cartagine, fiera e silenziosa, che nel petto ha ancora lo squarcio della spada. Hanno vissuto e sono morte come ogni donna, e il poeta le ha cantate. Ma lui non ha cantato in me abbastanza vita perché io possa morire. Mi ha dato solo l’immortalità”
Lavinia è un contorno, il piatto che è stato servito ad Enea perché Roma avesse la possibilità di nascere.
Lavinia è un rimpianto per l’autore di un’opera immortale che, se avesse potuto, avrebbe gettato il suo libro tra le fiamme della città da cui Enea era partito.
Ma come conquistare una parentesi di esistenza?
Ursula K. Le Guin ha fuso insieme il mito e la storia. La vita di una principessa senza voce e quella della guida dantesca negli Inferi.
Lei, giovane sacerdotessa, sulla soglia del suo futuro e lui, anziano e ormai morente, con un piede nell’Ade.
Quasi uno scambio di respiri per lasciar che la principessa parlasse senza che lui le abbia mai permesso di farlo.
I due, tre le ombre della divinità, intavolano un dialogo che si perde nel tempo e nello spazio e diventa una profezia.
Il libro di Ursula K. Le Guin diventa quasi un finale all’Eneide e al tempo stesso la pace per una coscienza tormentata.
E se non ci fosse stata la guerra tre Enea e Turno?
Se Virgilio avesse bruciato la sua opera?
Cosa ci sarebbe stato poi di male?
“Oh, Lavinia, che domanda da donna!”
Resta una domanda al termine di Lavinia: se un’opera non è finita, cosa l’autore deve sacrificare per far vivere la sua storia?
Virgilio sacrificò l’esistenza di una donna e la rese immortale perché se la storia non è terminata l’unico finale possibile è l’eternità.
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“Ero stata la colomba legata al palo, che sbatte le sue sciocche ali come se potesse volare, mentre sotto di lei i ragazzi urlano, la indicano e le scoccano frecce fino a quando una non va a segno”
Maggio e anche giugno sembrano i mesi in cui io sia destinata a trovare molliche del mio passato. Questa volta a ricordarmi di una ragazzina idealista che voleva fare la curatrice del British Museum è Andrea Marcolongo con Spostare la luna dall’orbita, edito per Einaudi.
Frequentavo il quinto anno delle superiori quando, durante la mia prima visita al British Museum, vidi i marmi del Partenone. Quella folgorazione si trasformò nella mia tesina di diploma di maturità sul sistema museale che fu la scusa per parlare “dell’impresa” di Elgin.
A mia difesa posso ricordare che ero giovane, acerba, innamorata di mondi perduti e anche un tantino arrogante nella mia supponenza?
Parte della frase è ancora vera ma questa è una storia per un’altra volta.
A quel tempo trovai negli archivi on line del museo il firman in lingua italiana che permetteva ad Elgin di portare via da Atene i marmi del fregio più famoso del mondo e che lasciava pensare che, in un qualche modo, ci fosse stata una compravendita.
Lo ammetto anche con una certa riluttanza: che i marmi fossero a Londra, in seguito a quel documento, mi sembrava se non giusto quanto meno regolare.
Ora ve lo dico: non sapevo niente!
Ma il mio professore di inglese era ed è un suddito leale e integerrimo della corona inglese e mai si sarebbe sognato di contraddire qualcuno che data, seppur implicitamente, ragione a coloro che espropriarono legalmente a Lord Elgin i marmi che non del tutto legalmente lui trafugò dall’Acropoli.
La Grecia, al tempo dell’operato di Elgin per conto del governo inglese, era sottoposta al governo turco.
L’Acropoli era poco più che un deposito e una polveriera.
Diciamocelo, alla Turchia non interessavano i monumenti in maniera particolare ma, finché le lusinghe e una vittoria su Napoleone non si misero di mezzo, non avevano mai permesso a nessuno di portar via alcunché dal suolo sacro dietro ai possenti propilei dell’acropoli.
Lord Elgin portò via i marmi ed ebbe a che pentirsene amaramente, anche se a quel tempo lui non lo sapeva ancora.
Quando, negli stessi anni del mio diploma, Atene si preparava ad accogliere le Olimpiadi, il governo greco chiese la possibilità di ospitare i marmi ad Atene, perché la richiesta di potersene riappropriare era stata, di nuovo, respinta poco tempo prima, Londra rispose: ci sono i calchi di Basilea, potete prendere quelli.
Non credo fossero la frase letterale ma di sicuro il senso era quello.
Ricordo che rimasi stupita dalla violenza della risposta.
Potevo capire la riluttanza e l’attaccamento ad un cavillo legale, che ora so essere labile, ma non il necessario sberleffo nei confronti della Grecia mettendo in mezzo una terza città che non aveva nemmeno preso parte alla disputa.
Di solito chi si accanisce e alza la voce ha, quasi sempre, torto o la coscienza non esattamente nel punto di bolla.
In Romagna si direbbe che i Greci rimasero “sbattezzati” sia dal coraggio di Elgin nel portare via le opere che dal fermo e categorico rifiuto di rivedere la posizione in merito alla restituzione delle teorie di metope e dei fregi ateniesi.
L’espressione “sbattezzati” sta a significare: come a Spostare la luna dall’orbita.
La frase dell’archeologo Edward Daniel Clarke fu pronunciata nel descrivere lo sgomento greco di fronte agli operari che lavoravano al trafugamento.
In epoca moderna esiste una legge secondo cui le proprietà artistiche detenute legalmente dai grandi musei europei sono inalienabili ma, prima che il governo inglese acquistasse il patrimonio artistico proveniente dal tempio di Athena Parthenos in maniera inalienabile e incontestabile, lord Elgin aveva avuto lo stesso diritto legale sulla proprietà incontestabile, culturale e artistica, di un paese che non era libero di disporre nemmeno della libertà di definirsi un paese?
Quindi mi sono chiesta più volte, anche mentre leggevo Spostare la luna dall’orbita: fermo restando che il Partenone è una delle architetture più stupefacenti che hanno riempito i miei occhi, come sarebbe stato se lo avessi potuto ammirare con il suo corredo scultoreo ancora al suo posto?
Non posso nemmeno invidiare il lord inglese che si presentò al cospetto del periptero d’Athena solo dopo che il saccheggio era avvenuto.
Avrei quasi potuto capirlo di più se avesse deciso cosa portare via dopo averlo potuto vedere nella sua interezza.
Forse avrei potuto.
A dire il vero, a questo punto, proprio non lo so.
Avrà pensato, per un secondo, al fatto che non poter portare via anche il tempio fosse, se non per pietà verso la Grecia o paura dell’Ira della dea glaucopide, un buon motivo per lasciare le statue dov’erano?
Se fossero rimaste lì sarebbero sopravvissute? Anche questa è una suggestione che mi sono concessa di rimirare e che mi ha convinta a non approfondire quando volevo solo essere l’unica a proporre una questione attuale al mio esame di maturità.
Lord Elgin, il governo inglese, tutti i posteri si sono sollazzati nel poter pensare di aver salvato le opere come d’altronde ho fatto io.
Ma se si tratto un salvataggio, vuol dire che poi, il salvato potrà tornare a casa e al calore della sua casa.
Spostare la luna dall’orbita è esattamente lo sgomento dello sbattezzato che non riesce proprio a comprendere il perché la risposta ad una domanda legittima, con argomentazioni e precedenti più che legittime, sia sempre un No.
Non vi saprei dire se sono suggestionata dalle parole di Andrea Marcolongo sulla questione annosa della storia dei marmi di Atene ma, privata della mia puerile certezza della giusta proprietà di Elgin nei confronti del corredo statuario del Partenone, mi sento di unirmi a coloro che, vedendo quello che era Uno diviso due luoghi distinti, hanno sentito la forza dello strappo del tempio dall’opera di Fidia.
L’ho realizzato proprio ora, mentre a 18 anni capivo solo che la sala del museo era adeguata come misure ma non alla luce da cui dovrebbero essere baciate.
Ero io quella ad essere abbacinata dall’essere in uno dei musei più grandi al mondo e alla presenza del corredo statuario più magnificente che io avessi mai visto.
In quel momento, la mia vita era riuscita a Spostare la luna dall’orbita e forse l’ho messa ancora più lontana da dove l’aveva posata Lord Elgin.
Davanti a me la dea Athena tentava di nascere dalla testa di Zeus provocandogli un poderoso mal di testa che il sovrano degli dei avrebbe dovuto prendere ad esempio della furia di sua figlia, nel lato a me opposto si svolgeva la lotta tra la dea e Poseidone per il dominio sulla città di Atene.
Conoscendo la storia di questi marmi, priva di troppi particolari, dei marmi avrei dovuto, però, percepire che Atena più che con suo zio era adirata con chiunque non la stesse riportando alla sua legittima casa.
Spostare la luna dell’Orbita è, in parte, la storia di Lord Elgin e del trafugamento delle opere dell’acropoli ateniese; ma è anche la notte più sconcertante che l’autrice abbia passato: una notte all’interno del Museo dell’Acropoli, completamente sola ma in compagnia di ciò che resta dell’apparato iconografico rimasto in sede.
Questo museo è giovane, concepito attorno ai vuoti della cultura greca e non attraverso i suoi pieni.
Il senso della tragedia lo pervade e lo anima.
Passare una notte così è un onore e un onere per chi ama la cultura greca.
Il libro è anche questo ma, come spesso accade con questa autrice che io adoro, le pagine traboccano anche di molto altro.
E di colpo siete ad Atene, a Londra, su navi stipate di carico che naufragano, nella vita di un’autrice onesta nei confronti della sua vita e della sua opera e di fronte ad una delle opere più grandiose mai costruite.
Potete, forse, se le avete visto sia i marmi che il tempio, riuscire ad immaginarvi il Partenone ancora unito e ancora sfolgorante di colori abbacinati dai riflessi del marmo che lo componevano.
Chissà, forse Carlo III potrebbe prendere in considerazione di esercitare una migliore influenza culturale a livello mondiale e arrivare ad un accordo per le opere di Fidia.
Sarebbe un sogno.
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Questa è una storia dalle molte facce. È più antica delle storie che vengono narrate da uomini nei testi sacri alla nostra civiltà. È una storia che è stata un’eco ma anche la tragedia più cruenta. Un mito cantato da Aedi, uno su tutti: Omero, il cantore dalle molteplici voci. Le parole dell’Iliade soffiano vento sull’ira di Achille ma non è la trame del Pelide ad aver portato tutti lì. Tutti sono davanti alle porte oblique e sinistre di Troia per La trama di Elena.
Elena, elénaus, elandros, eléptolis.
La distruttrice di navi, di uomini e di città.
Francesca Sensini è la portavoce de La trama di Elena.
Mi piace definirla così perché il libro reca il suo nome come l’Iliade reca quello di Omero nel posto che si consegna agli autori ma è Elena a parlare.
Ho letto molto sulla guerra di Troia e ogni testo mi ha sorpreso, conquistato o delusa.
Ci sono dei personaggi, specialmente quelli femminili, soprattutto negli ultimi anni, su cui sono molto prevenuta.
Perché?
È facile chiamare in causa nomi come Briseide, Cassandra e Elena ma non è intenzione di tutti dare un corpo e uno spessore al personaggio in questione.
Non tutti sono disposti a onorare il mito e gli aedi, anzi in molti l’unico desiderio è dare voce all’ego dello scrittore ammantandosi di vaticini improbabili, trame ordite a metà e prigionie che ricordano le favole Disney.
Ho letto un saggio, qualche tempo fa, che mi ha regalato una Elena reale e immaginata ma non mi aspettato che sarebbe arrivata un’autrice a dare ulteriore spessore alla donna che diede fuoco ad Ilio.
La trama di Elena discolpa la donna più bella e odiata al mondo.
Non è un libro che vuole renderla più simpatica a chi ha scelto di odiarla e l’ha additata come l’artefice di tutte le sventure di cui le donne, da lei in poi, vengono additate e per questo condannate.
Anzi, Elena è pronta a prendersi ogni colpa.
Ogni ingiuria.
Ogni epiteto.
È pronta ad immolarsi se questo è utile e necessario.
Ma non lo farà in silenzio.
Sa benissimo che starete a sentire le sue parole, la sua voce arriva dalle profondità del tempo ed era lì ben prima di Lilith, ben prima di ogni altra donna e di tutte lei è anima e corpo, una parte del suo eco vive in tutte noi.
Se è bastato il suo nome ad imbonire un esercito di diecimila navi e la sua voce a farsi amare da una città assediata, chi siete voi per resisterle?
Quasi sembra strano che Ulisse abbia avuto bisogno di essere legato e privato dell’udito per non cadere vittima delle sirene, aveva ascoltato la voce di dee prima di loro e ne era stato ammaliato come tutti.
La trama di Elena è un arazzo tessuto tra i secoli.
La figlia di Zeus, di Leda e di Nèmesi è davanti a voi, fila un arazzo di immagini contemporanee alla sua vita ma anche scene che la catturano nei secoli a lei posteriori.
Vi è mai capitato di osservare un quadro e sentire le voci e i rumori della narrazione?
Questo è La trama di Elena: l’incantesimo della donna più bella e odiata del mondo.
Un coro di voci di cui solo lei è in grado di riprodurre il suono e non potrete fare a meno di starla a sentire.
Non ci riuscì Euripide, non ci riuscì Filostrato e nemmeno le popolazioni indigene delle Hawaii, voi comuni mortali sarete in grado di resisterle?
Io non credo.
La narrazione della Sensini è poetica come un canto di gioia e dolore ed è perentoria come un invito alla guerra.
Coercitiva come la discordia ed ineluttabile come la giustizia.
Ci sono tanti passaggi che vorrei lasciare a piè di pagina per voi lettori ma non mi è possibile metterle tutte. Farei un torto ad Elena se scegliessi qualcosa e pretendessi che questo con influenzi anche voi.
Mi limito a credere che quella che scriverò sia più adatta a quello che l’autrice ed Elena hanno cercato di nascondere tra le righe come monito a voi che leggete le sue parole.
Elena è la fiaccola che diede fuoco al cancello protetto dal baluardo che nessuno ascoltava.
Un incendio di fuoco greco che rischiara le epoche e che nessuno ha ancora compreso come spegnere.
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Adottano così liberamente la menzogna, ne hanno bisogno, come l’architrave la colonna, per non frantumarsi su se stessi.
Non posso mai fare a meno di trovarmi agli albori della Storia Greca, deve essermi rimasta impigliata in una caviglia un giorno di tanti anni fa. Ancora una volta, sullo scaffale della mia libreria preferita, ho trovato nella sezione saggi un libro dal titolo privo di mistero: Troia di Stephen Fry, edito per Salani nel 2022.
Dico che il titolo è privo di mistero perché, ormai lo sapete tutti, sono anni che in maniera piuttosto ciclica io mi siedo nella piana tra lo Scamandro e la porta Scea e mi godo lo spettacolo.
Li ho visti tutti. Correndo avanti e indietro mi sono passati davanti tutti i guerrieri, ho visitato gli accampamenti, mi sono seduta alla tavola di Priamo e ho persino litigato con Ulisse qualche volta.
Non posso fare a meno di stare con loro 10 anni.
Dieci anni a Troia non è la condanna di Ulisse ma la mia aspettativa di esistenza ogni volta che mi trovo davanti ad un libro che ne racconta le vicende.
Ora, a detta di molti, dovrei ormai essermi annoiata di questi retelling della guerra narrata da Omero nell’Iliade. Ma non è così.
Mi annoiano i libri che cavalcano l’onda, quelli che non aggiungono sfumature sconosciute, quelli che all’ordito non aggiungono fili e trame che fanno risplendere l’arazzo.
Troia non è uno di questi.
Vi ho già detto che l’ho trovato nella sezione saggistica ma… chi dice che i saggi sono noiosi o boriosi non sa proprio che cosa ho tra le mani.
Avete presente quando davanti a voi, magari ad un evento letterario, c’è qualcuno che vi parla del suo libro ma l’unica cosa a cui è realmente interessato è sentire il suo della sua voce?
Ecco, questo capita anche nei libri. Ne ho letti di testi dove gli autori si stanno rivolgendo al loro riflesso nello specchio e si fanno anche gli applausi da soli.
Quindi, Stephen Fry è questo genere di autore?
Ma nemmeno per sogno. Avete davanti un autore che sa quello che dice e vuole che vi divertiate a scoprire con lui la guerra che rese famosi tutti gli eroi che sappiamo essere coinvolti.
Stephen Fry vuole giocare con voi e vuole che abbiate la gioia della lettura, dello scoprire nuovi dettagli, che non vi vergogniate se le vostre opinioni in merito non sono scolastiche e che giochiate con i punti di vista.
L’autore si diverte anche a ricreare i possibili dialoghi e i giochi di sguardi tra i protagonisti.
Insomma, leggere Troia è uno spasso.
Un dialogo sagace e frizzante con uno studioso acuto e appassionato, cosa si può volere di più? Io potrei andare avanti per giorni dialogando con una mente così.
Ho trovato in copertina un commento del Guardian che definisce l’autore: “Un maestro che indossa la cultura con estrema leggerezza” e io non avrei saputo spiegarvelo in maniera migliore.
Vi racconto una cosa sciocca in merito alla mi esperienza con questo libro: io tolgo sempre le sovra copertine perché non voglio rovinarle e perché mi piace tenere in mano il libro senza sentirmelo scivolare tra le mani, quindi io non ho guardato la quarta di copertina dove campeggia la foto dello scrittore.
Ho notato che conoscevo il nome ma ho pensato (perché nonostante io sia nota per la poca fiducia nel genere umano) che esistessero due Stephen Fry famosi.
Ora, mi rendo conto che facendo così ho implicitamente dato vita al clichè in cui un attore di straordinario talento non possa anche essere uno scrittore di rara abilità narrativa ma non era questa la mia intenzione.
Quando ho terminato Troia, ho fatto quello che faccio sempre: giro per casa declamando alla mia platea immaginaria quanto mi sia piaciuta l’opera e tesso le lodi dell’autore o dell’autrice.
Questa scenetta la metto in atto con il libro in mano e, in questo caso specifico, mentre davo sfoggio della mia abilità oratoria, ho rimesso la copertina al libro e ho visto il ritratto di Stephen Fry.
Sì, Stephen Fry è la persona che ha dato vita a moltissimi dei personaggi cinematografici che ho amato e detestato, è doppiatore, sceneggiatore e produttore e ha scritto libri che io adesso voglio nella mia libreria.
Perché Troia è il terzo di una trilogia, non fatevi spaventare potete leggerli separatamente ed è lo stesso autore a dirvelo in prefazione.
I primi due libri sono Mythos ed Eroi. Qualora ce ne fosse bisogno, mentre vi occupate di Troia, troverete nelle note a piè di pagina tutti i riferimenti utili per essere nel pieno della storia.
Tranquilli siete in ottime mani, tra ottime pagine e nel mezzo di una storia che non smette di parlare anche a millenni di distanza.
Troia è la storia di una città che era considerata inespugnabile, un po’ come quando ti fanno capire che la cultura non è un gioco o che non sia divertente.
Troia è stata conquistata a duro prezzo e conoscere le vicende che hanno portato il mondo a rifrangersi sulle sue coste per ottenerne i segreti e i tesori può essere avvincente.
Lo consiglio a tutti coloro che vogliono approfondire l’Iliade o avvicinarsi, ai giovani che hanno paura del greco ma che dopo questo ci si avvicineranno senza paura.
Un enorme grazie a Stephen Fry, al suo Troia. È un onore conoscere la sua penna oltre che il suo talento sulle scene.
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Qualunque sia il nostro Paese e per quanto possiamo essere orgogliosi delle nostre dichiarazioni nazionali di tolleranza, onore e dignità, non si piò escludere che gli eserciti che combattono per la nostra bandiera non si siano resi colpevoli di atrocità pari a quelle perpetrate dagli insaziabili greci quella notte.
Pat Barker, dopo Il silenzio delle ragazze (Einaudi, 2021), torna davanti alle mura di Ilio con Il pianto delle Troiane, edito da Einaudi nel 2022.
Parlare di una guerra è sempre difficile, sia essa accaduta qualche anno fa o qualche millennio prima che noi nascessimo. Non si smette mai di pensare a quanto sia entusiasmante l’Epica di Omero ma di epico ormai ci sono solo le parole di un aedo anziano abbagliato dalla luce riflessa dagli scudi degli uomini che erano presenti davanti alle mura di Troia.
La guerra più epica di tutte è spoglia delle sue armi, giace stremata sulla sabbia che puzza di sangue, alghe e della paura che trasuda dalla pelle di coloro che, dopo la vittoria, sono intrappolati lì.
Perché? Il vento o gli dei non lasciano che le navi riprendano il mare.
Priamo è stato ucciso da Pirro, il bambino prodigio figlio del guerriero più grande e amato di tutti.
È il figlio di Achille ma nessuno crede che gli somigli. Pirro cerca di essere Lui, è venuto per terminare l’impresa di un padre che non ha mai conosciuto, per guidare i mirmidoni, per staccarsi dalla gloria del padre ed essere finalmente un uomo che ha qualcosa di suo da dire al mondo.
Ma, quando è solo, lo specchio gli racconta di quanto il vuoto lasciato da Achille non lo accoglierà mai accettandolo come re.
Si tenga, questo ragazzino ingrato, le sue insicurezze, le sue paure. Non è altro che un bambino viziato che conosce solo la violenza.
Pirro vive in una realtà diversa dalla verità.
Ha paura ma il figlio di Achille non deve averne, è terrorizzato ma il figlio di Achille non ha motivo di esserlo, non conosce nulla del mondo ma il figlio di Achille non ha il permesso di essere qualcuno che non sia suo padre.
Se solo questo ragazzo intrappolato vedesse quanto in realtà somiglia ad Achille.
Se non si trincerasse dietro a quello che dovrebbe essere…
Cedere all’ira è più facile, meno spaventoso. Cedere all’ira lo fa temere da tutti gli altri ma non lo rende Achille e questo non fa altro che aumentare la violenza, la gelosia e l’inaffidabilità ma soprattutto la paura di vedere il suo riflesso che lo deride.
Priamo è morto e giace insepolto perché Pirro si rifiuta di seppellirlo.
In realtà è fatto divieto a tutti di toccare il corpo del re.
Non possono gli uomini e non possono le donne.
Briseide che, dopo la morte del Pelide, è andata in sposa ad Alcimo è la voce narrante di una storia morente, dell’insensatezza di imitare Achille, della condizione di coloro che non sono i guerrieri ma devono fare i conti con la perdita di Troia.
È lo specchio delle prigioniere degli achei, il filtro di ogni mutamento di un accampamento che di vittorioso ha solo il titolo ma non l’aspetto.
Vi aspettereste che, terminato il glorioso decennio, i grandi guerrieri siano pronti a fare festa e tronarsene a casa. Invece sono topi in gabbia che devono trovare un modo per attendere e non sbranarsi a vicenda.
Nel campo s’aggira un oscuro lamento. Ci sono pianti che anche se privi di suono sono latrati di disperazione.
Il pianto delle troiane è sommesso, nascosto ma visibile a tutti coloro che hanno occhi per vedere.
Qualcuno direbbe che la disgrazia unisce. Seguite Briseide e scoprirete che il piando delle troiane non è un coro ma una cacofonia di assoli scoordinati.
Ognuna delle prigioniere piange una Ilio diversa.
Il pianto delle troiane è l’eco della regina Ecuba che si ammanta di una regalità che le dona una dignità che solo lei vede.
Il pianto delle troiane è l’insieme delle voci che assillano Cassandra. Sono voci di morte e la sacerdotessa le ascolta come fossero vino dolce.
Il pianto delle troiane è la paura di Andromaca che ha visto suo marito trascinato da un carro e suo figlio gettato dalle mura da un ragazzo che non a malapena può chiamarsi uomo.
Non sono solo coloro che erano regine e principesse a piangere una vita che non avranno mai più ma anche coloro la cui condizione ha comportato solo un cambio di padrone.
Sì, anche le schiave di Ilio piangono e sono troiane.
La guerra di Troia è stata una storia di uomini ma anche di donne, di anziani, di bambini, di fragili, di forti, di bulli e di insicuri.
Non c’è nessuno, in una guerra, che passa in rassegna gli schieramenti colorando di nero i cattivi, di bianco i buoni e di grigio coloro che sono sacrificabili rendendoli invisibili a chi combatte.
Se è questo che credete, questo libro non fa per voi.
La penna di Pat Barker non ha sconti per gli esseri umani.
La prosa è ricercata ma spigolosa e cruda. Le parole sono i macigni di una città le cui mura inespugnabili sono cadute e i cui templi giacciono arsi dalle fiamme.
Nessun punto di questa storia è scevro da terrore, follia e oscurità.
Il pianto delle troiane è l’addio ad un’epoca, il risveglio di coloro che pensavano che una volta finita la guerra tutto sarebbe tornato come prima, la nascita di nuove vite da un corpo mutilato.
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Ero ancora troppo giovane per capire che l’irrequietezza non è che una delle facce del dolore. Tra poco avrebbe rappresentato Priamo al suo funerale, al cospetto dell’intero esercito acheo. Anzi, di più, sarebbe stata Priamo. Non è forse così che superiamo il lutto? Non c’è niente di raffinato o di civilizzato: come selvaggi, mangiamo i nostri morti.
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