C’era una volta, in un’antica città, un palazzo di cui si parlava in ogni angolo della Grecia. Si narrava che la sua regina avesse partorito un mostro; si raccontava che la figlia del re fosse scappata con uno straniero; si vociferava che la ragazza fosse stata abbandonata su di un’isola e qui l’avesse sposata un dio. La maledizione di Arianna parla di questo antico canto ma è molto di più.
La maledizione di Arianna non è il primo retelling sul mito della principessa Arianna di Creta.
Jennifer Saint in Arianna e Laura Shepperson in L’urlo di Fedra, anche se ovviamente la figura di Arianna è sullo sfondo della storia di Fedra, hanno dato un nuovo respiro a questo mito che parla di una principessa ribelle ma la sostanza del mito era rimasta piuttosto intatta.
Sara A. Benatti non solo decide di affrontare una storia che in molti conoscono per i motivi più vari ma decide di variare.
La maledizione di Arianna è il mito ma al contempo cambia rimanendo fedele a se stesso.
Di solito, quando si narra la storia della principessa cretese, l’azione si svolge nei luoghi del palazzo, al porto, le varie tappe del viaggio con Teseo e poi la storia d’amore con Dioniso.
Ad un certo punto, nella storia di Arianna c’è sempre il labirinto e il Minotauro ma, se escludiamo l’episodio del filo e dell’uccisione di del “mostro” partorito da Pasifae, l’opera di Dedalo e il suo ospite sono sempre sullo sfondo della questione.
È un po’ come parlare di Pompei dimenticandosi del ruolo svolto dal vulcano.
La Benatti, finalmente, usa quell’ambiente ristretto.
Il luogo che rappresenta il mondo, la reclusione, la crescita, la perdita e il ritrovamento e lo usa per narrare questa storia su molti livelli di narrazione.
La maledizione di Arianna è un romanzo dagli spazi stretti, di introspezione e di situazioni in cui non esiste lo spazio per il grigio.
La maledizione di Arianna è grado anche di mettere sullo stesso i suoi personaggi, non sono quelli resi famosi dal mito ma anche coloro che non parlano mai.
Non ci sono nobili, ci sono solo persone.
Non ci sono poveri o prigionieri politici, ci sono solo sacrifici.
E poi c’è Asterione.
Il diverso mandato ad essere il cattivo. Colui che non ha mai saputo come essere umana e ha conosciuto solo la madre.
La maledizione di Arianna è la storia della Bestia.
Non solo il minotauro ma la bestia che si annida dentro di noi.
È anche la scoperta della via per tornare ad essere umani, se si ha la forza ci cercarla.
Nel labirinto ci si può perdere ma ci può anche ritrovare.
E voi direte, ma che ne è di Nasso? Di Dioniso? Della loro storia d’amore?
Dioniso, nella storia di Arianna è sempre colui che si innamora, la divinità che una volta che si è stancata se ne va lasciando Arianna.
Dioniso è uno spirito libero ma è un labirinto lui stesso.
La maledizione di Arianna è in definitiva IL LABIRINTO.
L’autrice ha creato un gioco di tranelli che è difficile vedere.
Un gioco che non risparmierà nessuno.
Vuoi conoscere la storia de La maledizione di Arianna? Schiaccia la parola LINK
“Sono le storie il tessuto del mondo“, dice la dea. “Il minotauro che tu temi ne è solo uno degli attori, il nemico e il protagonista, l’assassino e il prigioniero. E ogni storia nutre la meraviglia del mondo e lo mantiene così vivo.“
Un nuovo retelling mitologico nel mare dei retelling. Ovviamente, come la maggior parte dei predecessori, è una riscrittura dal punto di vista di una donna, anzi di una dea: Afrodite.
Speravo, nell’opera di Mariangela Galatea Vaglio, in una dea di cui nessuno parla mai, una di quelle minori che ha un compito importantissimo ma che nessuno conosce, e invece parliamo di Afrodite.
Cosa mai avrà da dire Afrodite che ancora non si sa sul suo conto?
Quando il mito non era stato canonizzato, Afrodite (che avrà questo nome solo in seguito) è una delle forze primigenie.
La dea del tutto.
La dea che attraverso le ere e le civiltà ha avuto molti nomi, molti poteri e molte vite diverse.
Afrodite come Dea Madre, come Guerriera e come Ispiratrice di passioni (per lo più sessuali).
È stata Inanna, Afrodite e Venere.
Come è accaduto che una delle forze motrici del cosmo è stata relegata ad essere la Dea dell’amore?
Ovviamente, la colpa ad un certo punto è ricaduta sul genere maschile.
Le Dee, le altre, si adattano ad una società maschilista e patriarcale mentre Afrodite si ribella e si rifiuta di sottostare ad una legge maschile.
L’incipit, scritto in prima persona, ci promette che nulla di quello che sappiamo su Afrodite è vero.
Potrebbe darsi, il retelling della Vaglio potrebbe essere convincente.
Se non fosse che la dea è esattamente come la conosciamo: pretenziosa, piena di sé, volubile, capricciosa e a tratti licenziosa.
Così è una forza del cosmo e così è una dea, non stiamo parlando di comuni mortali.
Per gli dei non conta come gli uomini le considerino, la cosa importante è che li venerino che sappiano qual è il loro posto.
L’umanità non è affar loro, se non per qualche istante che per loro è poco più che un capriccio o un trastullo.
Ma questa Afrodite si incapriccia di essere umana, di essere migliore degli altri immortali.
Mi è sembrato di tornare al liceo, quando La Creatura Perfetta (maschio o femmina che fosse) si cantava e si suonava da sola la musica che voleva ascoltare e poi dichiarava pazzi coloro che non sentivano e marciavano al suo suono.
Se non altro una cosa, questa Afrodite, ha davvero in comune con le divinità e alcuni umani: una pedanteria saccente che non ha un’originalità ma la pretesa di avere un suo posto in un mondo saturo di altri suoi cloni.
Una scrittura ricca, forse troppo, che rimane nei segni grafici che la compongono.
La Vaglio è scrupolosa, una scrittrice appassionata e preparatissima ma non esce dalla carta.
Questa scrittura, per citare uno dei miei film preferiti, “ha la stessa passione di una coppia di nibbi reali”.
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Vi piacciono i retelling? Ecco altre mie recensioni:
“Non un’ombra di trasalimento, non un bisbiglio di eccitazione; questo rapporto ha la stessa passione di un rapporto di nibbi reali.” (Vi presento Joe Black)
Ho iniziato il 2024 con un personaggio silenzioso, di cui quasi nessuno ricorda il nome. Ma, se Virgilio non l’avesse inserita tra i personaggi della sua opera, forse, il progetto augusteo dell’Impero Romano non sarebbe stato lo stesso. Enea senza Lavinia non avrebbe potuto dare vita alla grande città di Roma.
Lavinia è vissuta in poche righe, uno stralcio della letteratura in cui le viene assegnato un compito che ha svolto in quasi religioso silenzio.
Ci è stata trasmessa solo una piccola immagine di quella che era la donna che il destino aveva promesso ad Enea.
Un grembo da affidare all’eroe fuggito da Troia, affinché la sua stirpe creasse un impero che i secoli a venire avrebbero visto nascere e soccombere ma la cui memoria è eterna.
Lavina è una principessa italica, dai biondi riccioli e disperata per la morte di sua madre.
Lavinia è un vago respiro tra le righe di una storia che Virgilio voleva fosse bruciata e Augusto voleva per celebrare la sua gens e la sua autorità.
Lavinia non ha mai goduto di una vita definita da gesta eroiche e immortali.
Virgilio non le ha mai dato il respiro vitale che di Didone e, anche se piuttosto breve, di Creusa.
“Ma non morirò. Non posso. Non scenderò mai tra le ombre sotto Albunea per vedere Enea alto tra i guerrieri, scintillante di bronzo. Non parlerò a Creusa di Troia, come un tempo pensavo che avrei fatto, né a Didone di Cartagine, fiera e silenziosa, che nel petto ha ancora lo squarcio della spada. Hanno vissuto e sono morte come ogni donna, e il poeta le ha cantate. Ma lui non ha cantato in me abbastanza vita perché io possa morire. Mi ha dato solo l’immortalità”
Lavinia è un contorno, il piatto che è stato servito ad Enea perché Roma avesse la possibilità di nascere.
Lavinia è un rimpianto per l’autore di un’opera immortale che, se avesse potuto, avrebbe gettato il suo libro tra le fiamme della città da cui Enea era partito.
Ma come conquistare una parentesi di esistenza?
Ursula K. Le Guin ha fuso insieme il mito e la storia. La vita di una principessa senza voce e quella della guida dantesca negli Inferi.
Lei, giovane sacerdotessa, sulla soglia del suo futuro e lui, anziano e ormai morente, con un piede nell’Ade.
Quasi uno scambio di respiri per lasciar che la principessa parlasse senza che lui le abbia mai permesso di farlo.
I due, tre le ombre della divinità, intavolano un dialogo che si perde nel tempo e nello spazio e diventa una profezia.
Il libro di Ursula K. Le Guin diventa quasi un finale all’Eneide e al tempo stesso la pace per una coscienza tormentata.
E se non ci fosse stata la guerra tre Enea e Turno?
Se Virgilio avesse bruciato la sua opera?
Cosa ci sarebbe stato poi di male?
“Oh, Lavinia, che domanda da donna!”
Resta una domanda al termine di Lavinia: se un’opera non è finita, cosa l’autore deve sacrificare per far vivere la sua storia?
Virgilio sacrificò l’esistenza di una donna e la rese immortale perché se la storia non è terminata l’unico finale possibile è l’eternità.
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“Ero stata la colomba legata al palo, che sbatte le sue sciocche ali come se potesse volare, mentre sotto di lei i ragazzi urlano, la indicano e le scoccano frecce fino a quando una non va a segno”
Quando ho saputo che sarebbe uscito un altro romanzo sulla regina Clitemnestra di Micene, lo devo ammettere, la mia prima reazione è stata: ancora?
In un mercato piuttosto saturo di retelling di ogni genere, non è la prima volta che la regina di Micene fa capolino sugli scaffali delle librerie.
Ma, come capita, mi sono dovuta ricredere. Il retelling mitologico che prende il nome dalla famosa moglie del re Agamennone è, con ogni probabilità, la storia di Clitemnestra che stavamo aspettando.
Firmato da Costanza Casati, texana di nascita ma dal cuore italiano, ed edito per Sperling & Kupfer, Clitemnestra è un successo.
La narrazione narra della vita di Clitemnestra dalla sua infanzia al momento in cui, feroce come un’erinni, uccise suo marito con una scure.
È incredibile che le persone ricordino solo la furia con cui il re Agamennone, re dei popoli greci o almeno così gli piaceva farsi chiamare, è stato abbattuto come un albero secco.
Povero eroe, ucciso dalla moglie fedifraga proprio il giorno in cui tornava a casa dopo dieci anni di guerra e mentre si vantava di aver preso come concubina la sacerdotessa di Apollo più famosa della storia greca: Cassandra.
Ma cosa aveva scatenato quella furia?
No, Egisto non è colpevole di istigazione.
Clitemnestra non è donna che si faccia influenzare fino a quel punto dal belloccio di turno.
In comune avevano la sete di vendetta.
Per un uomo, si sa, la voglia di rivalsa è una questione di onore soprattutto se si parla di poemi epici.
Per una donna, non una qualunque in questo caso, è questione di giustizia.
Clitemnestra è una principessa spartana, è la sorella dei Dioscuri e anche di Elena moglie di Menelao e, a detta di molti, l’unica causa di tutta la distruzione che si abbattè sulle porte Scee che custodivano lo scrigno di Troia.
Anche se, ci tengo a dirvelo, non so davvero perché Menelao, che governava Sparta, si stupì così tanto di essere stato abbandonato dalla moglie.
Certo, Paride non ha onorato le leggi dell’ospitalità greca ma l’Atride minore avrebbe dovuto sapere che a Sparta una donna è legittimata ad abbandonare un marito se il nuovo pretendente è potenzialmente un arricchimento ai suoi possedimenti.
Troia era ben più ricca di Sparta e, senza Elena, Menelao teoricamente sarebbe stato il possessore di nulla.
Mi rendo conto che spiegato così è un po’ semplicistico, anche poco preciso e avrebbe bisogno di un approfondimento ma sono stanca di sentire: Elena è il problema.
Secondo voi, uno tsunami di 10000 navi greche sono arrivate ad abbattersi su Ilio solo perché la famigerata figlia di Leda e Zeus potesse tornare ad essere la mogliettina trofeo di Menelao?
Suvvia!
Torniamo a Clitemnestra.
Fu cresciuta per essere regina, fu istruita anche per essere una spartana ed era una guerriera di non poco talento.
Fiera, caparbia e intelligente non aveva nulla da invidiare a sua sorella.
Quando Agamennone decise che sarebbe stata la sua consorte, Clitemnestra era già sposata e aveva un figlio.
Beh, inutile dire che il figlio maggiore di Atreo non lo ha affatto considerato un problema insormontabile, li uccise e si prese la sua principessa.
L’autrice ci racconta del rapporto matrimoniale tra i due: lui non smetteva di cercare di sottometterla mentre lei scelse di aspettare il momento propizio per dargli quello che meritava.
L’episodio scatenante della furia incontenibile fu il “sacrificio” di Ifigenia.
Questa scena in particolare nel libro della Casati è l’essenza della tragedia greca epica. Tutti si muovono ma sono tutti fermi congelati nell’istante di un omicidio crudele di cui nemmeno Achille riesce a darsi spiegazione.
A Clitemnestra era stato portato via un figlio e l’amore una volta di troppo.
Questo è l’inizio della fine per il re che disse di aver abbattuto Troia ma che uccise se stesso.
L’autrice non ha cambiato molto della storia originale narrata dai grandi nomi del teatro greco. Anzi, gli aggiustamenti apportati sono funzionali alla storia e alla comprensione del punto di vista della protagonista.
Potete essere o meno d’accordo con la protagonista, non sta a voi giudicarla.
A lei non interessa affatto il vostro parere.
Chiamatela mostro se così vi piace, ma voi cosa avreste fatto se foste stati al suo posto?
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Clitemnestra aveva infranto la sua coppa contro il muro. Era rimasta immobile mentre uno schiavo era accorso ad asciugare il vino sparso per terra. gli ospiti l’avevano fissata, ammutoliti.
Lei aveva guardato suo padre negli occhi: “Prima o poi morirai. E io non ti piangerò. Guarderò le fiamme consumare il tuo corpo ed esulterò”.
Siamo a Creta, nel palazzo di Cnosso, alla corte di Minosse e Pasifae. Vi hanno raccontato tante versioni di questo mito. Lo hanno fatto i soliti ignoti: Euripide, in due versioni perché dovette correggere la prima dell’Ippolito velato; Seneca nella sua Phaedra; Sofocle nella sua opera perduta e volle cimentarsi anche il grande cantore degli amori Ovidio nelle Eroidi con una lettera di Fedra a Ippolito. Al giorno d’oggi, Laura Shepperson scrive una nuova versione di questa storia: L’urlo di Fedra.
Partiamo dal principio della storia: Chi è Fedra?
La principessa è figlia del re di CretaMinosse e della regina Pasifae e sorella di Arianna. La sua infanzia è piena di “incidenti mitologici” per dirla in maniera sottile.
Il mito racconta molte cose incredibili sulla famiglia della principessa.
Sua madre, la regina Pasifae, mise al mondo il Minotauro dopo essersi accoppiata con uno dei tori sacri. Il re Minosse fece costruire da Dedalo, il grande ingegnere del mondo antico, il famoso labirinto per rinchiuderlo e per sacrificare le vite degli ateniesi mandati come “indennizzo” a Creta per la morte del primo figlio del re.
Sua sorella Arianna, dopo aver aiutato Teseo (che nella mitologia è una sorta di prezzemolo adatto ad ogni storia, un po’ come Agamennone e Ercole) ad uccidere il mostro nel labirinto, fugge con il principe ateniese che dopo poco l’abbandona.
Arianna diventerà la sposa di Dioniso, ma la nostra autrice ha altri piani per la sua tragedia.
Che Teseo non sia l’eroe che tutti hanno sempre creduto non è cosa nuova, quindi aggiungere un omicidio non farebbe nessun danno alla sua reputazione.
Il destino di Fedra, dopo che Arianna è fuori dai giochi matrimoniali di Minossse, è segnato: convolerà a nozze con il principe ateniese.
Quello che arrivò a Creta come principe, tornerà ad Atene come re. Non ha dovuto nemmeno sporcarsi le mani, gli è bastato dimenticare di far cambiare le vele alla sua nave.
Considerato tutto si potrebbe dire che il Fato stava architettando per lui la giusta compensazione per i suoi misfatti.
Certo, ma quelli come Teseo cadono in piedi e continuano a brillare di luce propria.
Se tutto questo fosse una favola moderna, con un’aggiustatina dal punto di vista del politicamente corretto, si potrebbe dire: Fedra sposa il principe, diventa regina e tutti vissero felici e contenti.
Peccato che il mito non esiste per arci sentire a posto con la coscienza.
Sulla copertina del libro campeggia il titolo: L’urlo di Fedra.
Cosa accade ad Atene? Nel mito i due sposi mettono al mondo la loro prole e, mentre Teseo se ne va a passeggio per le sue imprese eroiche, Fedra si innamora di Ippolito (figlio del precedente rapporto di Teseo con un’Amazzone).
Ippolito non può accettare questo amore e rifiuta Fedra. La regina furiosa e amareggiata racconta, al ritorno del marito, di essere stata violentata da Ippolito che viene accusato ingiustamente mentre la regina si suicida.
La corte ateniese de L’urlo di Fedra è ben diversa.
Arianna è morta annaspando tra le mani di Teseo che stringeva via via sempre più forte mentre Fedra sta per cadere in una trappola che, per una volta, Teseo non aveva immaginato nemmeno di poter progettare.
Ippolito è un giovane viziato e insofferente attorniato da una cerchia di giovani che potrebbero essere assimilati ai Proci che assediavano la corte di Ulisse al suo ritorno ad Itaca.
Il re ateniese, com’è ovvio, non si può esimere dal partire. A Fedra non è interessato e per lui è poco più che un ostaggio sottratto a Minosse per non invocare una nuova cernita di giovani ateniesi.
La regina vive segregata e lasciata a se stessa in un’ala del palazzo che, per farvi capire, è come se fosse la torre degli ospiti indesiderabili de La spada nella roccia.
Il rapporto con Ippolito è tempestoso, lei cerca di avvicinarsi la figlio di Teseo per fare in modo che loro rapporti siano civili o amichevoli, mentre il ragazzo la respinge e i suoi amici mettono in giro strane voci sul fatto che la regina, di fatto ma non in pratica, stia tentando di sedurre il loro principe.
Una notte Ippolito, sedicente adepto senza macchia di Artemide, stupra senza pieta Fedra lasciandola più morta che viva tra il fango e le sterpaglie.
La sua motivazione? È stata lei a farglielo fare.
Come? Nella solita maniera in cui uomini di una certa caratura morale accusano donne di averli fatti deviare dal loro cammino fatto di rettitudine e santità.
Fedra decide che Ippolito deve pagare. L’urlo di Fedra è l’urlo di tutte le donne di Atene.
Incinta e derisa dalla città, invece di scappare, decide di affrontare Teseo e obbligarlo ad emettere un giudizio equo nei confronti di Ippolito.
Teseo non può fare a meno di essere l’eroe di se stesso, non può permettere che il suo unico figlio paghi e cerca di comprare il silenzio della sua regina.
No, lei non può accettare.
Quindi, il processo ha luogo e il principe viene ritenuto…
Da qui dovete procedere da soli. Perché L’urlo di Fedra riecheggia in tutto il finale che ha comunque il sapore della tragedia che poteva essere evitata.
Laura Shepperson si prende diverse licenze dal mito, è lei stessa a dirvelo ma nel mito non è reato se lo di fa con lo scopo di denunciare le ingiustizie.
Lo ha fatto Euripide, lo ha fatto Seneca e lo hanno fatto tutti gli altri: denunce sociali in un tessuto culturale che sembra vedere ma non muoversi altrettanto velocemente, quindi perché questa Tragedia dovrebbe essere impostata diversamente?
La narrazione è impostata a più voci come richiedono la Tragedia e il teatro greco.
All’inizio della lettura pensavo che questo modo di narrare, ormai presente in ogni retelling dei classici mitologici, sarebbe stato penalizzante per la narrazione.
Perché? Voi non vi infastidite se tutti i libri sembrano uguali?
Invece l’Urlo di Fedra deve essere una Tragedia Corale, non può essere altrimenti. Se una sola Persona urla mentre le altre tacciono non si andrà mai troppo lontano.
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Ogni uomo può lanciare parole in aria, e che sono le donne a dover pagare, quando le parole arrivano a terra.
Nel 409 a.C. Sofocle mise in scena la storia di una delle figlie di Micene. Suo padre era il grande Agamennone, il re che (si dice) portò i greci alla vittoria su Troia; sua madre era Clitennestra, la sorella di Elena che fu colei per cui (si dice) sia scoppiata la guerra di Troia. Lei, la nostra protagonista, era sorella di Ifigenia, di Crisotemi e Oreste: il suo nome è Elettra.
Sofocle non fu l’unico a scrivere una tragedia sulla principessa ma nelle altre opere, per esempio quella di Euripide, non troviamo l’Elettra che Jennifer Saint ha voluto che conoscessimo.
Come nello stile delle tragedie del teatro greco la Saint scrive usando più voci, quella di Clitennestra e quella di Cassandra, che al lettore possono sembrare troppo preponderanti al confronto di quelle della principessa.
È vero, Clitennestra e Cassandra hanno fin troppa voce in questo libro e potrebbe capitare di chiedersi che fine abbia fatto la donna da cui il romanzo prende il nome.
In fondo, Sofocle affida tutta l’azione ad Oreste.
Ma dovete mettere tutto in prospettiva. Questa non è la mera storia della principessa micenea ma anche una sorta di omaggio al tragediografo che di Elettra ci restituisce il furore.
Elettra non è colei che attua le azioni più importanti della vicenda ma ne è il motore e il carburante.
La regina Clitennestra e la principessa Cassandra sono coloro che conoscono tutto ciò che c’è da conoscere sul padre che Elettra tanto ama.
Come Oreste è la mano che gli dei mandano alla vendetta, Clitennestra e Cassandra sono le custodì della verità che Elettra si rifiuta di vedere.
Faremo un processo ad Agamennone? Credo che la sua storia e il suo destino abbiano già fatto abbastanza per questo tracotante personaggio che non conosceva limiti.
In questo Elettra è davvero sua figlia: la mancanza di percezione di tutte le realtà davanti ai suoi occhi è sbalorditiva.
Anche questo elemento della personalità di Elettra è ben reso dalla disposizione dei capitoli dell’opera della Saint: Elettra è talmente distante dalla vista del lettore che ogni volta che appare la percezione che si ha di lei è così fuori fuoco dalla realtà da renderla poco più che la bambina inerme delle Coefore di Eschilo o della donna rosa dai sensi di colpa di Euripide.
Ho dovuto riprendere in mano appunti di scuola e le fonti per rendermi conto dell’enorme lavoro di progettazione di questa storia, a prima vista non lo avevo notato e mi sono sentita piuttosto sciocca.
Ma, a questo punto, mi devo chiedere: i giovani che di Elettra conoscono solo l’appartenenza alla mitologia, capiranno questo gioco di sguardi tra la storia del teatro greco, la protagonista e il retelling mitologico?
Il linguaggio è quello giusto, forse manca una piccola spinta verso la giusta direzione e spero di essere stata di un qualche contributo in merito.
Elettra è un personaggio dalle molte facce ma il sentimento che la tiene in piedi è l’Ira che come avrete modo di vedere non è mero appannaggio di Achille.
Tutti ricordano la spiaggia di Troia ma non che sia stata la vita della mite Ifigenia a permettere che le navi partissero dalla Focide; la storia da la colpa alla fedifraga Elena e alla pazza Clitennestra della sorta del più grande dei greci ma mai ricordano che pur di avere lo scettro Agamennone ha mandato a morte la sua stessa progenie ingannandola nella più vile delle maniere.
Per la gloria e l’onore direbbero i grandi condottieri ma per è per la follia, la cupidigia e il possesso che tutto si è messo in moto.
Elettra è il secondo libro del progetto editoriale di Jennifer Saint sulle donne del mito. Il primo, sempre edito per Sonzogno, è Arianna mentre il prossimo sarà su Atalanta.
Dove leggere e trovare Elettra? Schiacciate la parola LINK
Bramavo di prendere il posto di una schiava che non aveva nulla, eccetto la cosa che io volevo di più al mondo: l’abbraccio di mio padre.
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