Strega. Le emozioni diventano l’unica forma di percezione

Strega. Le emozioni diventano l’unica forma di percezione

Se andate alla ricerca di un senso, e volete la guida di una trama precisa, allora Strega non è il libro che fa per voi.

Come nel più intricato dei labirinti, dove niente può venire in vostro aiuto, poiché ogni angolo è identico a quello precedente; così la ricerca di orientamento in questo libro, può provocare sconforto e smarrimento.

Se invece avete preso la decisione di spalancare le finestre alla nebbia autunnale, lasciando che questa pervada la stanza in cui vi trovate e che penetri dentro le vostre narici; allora siete nel posto giusto.

State per trasformarvi in etereo vapore.

Un letto di parole verdi come il bosco più fitto, gesti ripetuti in maniera estenuante, sigarette che appesantiscono l’aria, inquietudine a colmare ogni spazio vuoto.

Non è davvero semplice parlare di un libro fatto di emozioni, sensazioni, istinto e poco altro. Posso soltanto tentare di usare altre emozioni per descriverlo.

La stanza sembrava la scena di un antico dramma sanguinario,

in cui le donne serie in abiti drappeggiati si muovevano sul palco brandendo coltelli.

Dall’altro lato della scenografia un coro declamava le proprie battute su navi affondate,

vendetta e figlie uccise.


Un albergo che fagocita donne lasciando gusci intossicati, rosso sbiadito incastonato nella fredda roccia. Claustrofobia, puzza di vecchio.

Nove ragazze al loro primo impiego, nove anime attraversano la sua porta.

Ci sono gesti precisi, capelli legati in perfetti chignon, divise inamidate, dolorosi calli e acqua bollente.

Niente è come ci si aspetta e Strega in lontananza, vuota e silenziosa, attende.

Dormire e vivere nell’inquietudine, ingurgitare mix fatti di alcool ed erbe velenose. Forse è l’albergo stresso ad avere una sua volontà, o forse le persone all’interno seguono un preciso copione fatto di punizioni corporali e antiche tradizioni.

Sapevo che la vita di una donna può trasformarsi da un momento all’altro nella scena di un crimine.

Non avevo ancora capito che vivevo già in quella scena del crimine,

che la scena del crimine non era il letto, ma il corpo,

e che il crimine era già avvenuto.


Una creatura antica che si nutre dei giovani sogni, annientandoli, restituendo soltanto ossa rotte.
Finché qualcuna di loro cederà all’inganno, stringendo la mano di uno sconosciuto che, sussurrando parole rassicuranti, la condurrà nel bosco senza ritorno, nel lago senza fondo.

Il tempo non esiste più, nel grande albergo rosso sbiadito, il senso non esiste più e, a volerlo cercare, si può ammattire.

Meglio galleggiare sulle spine del roseto, afferrando i pochi ricordi della breve vita trascorsa, sempre più perse, sempre più immobili.

La paura però può diventare un solido collante fra le giovani donne, una corda che le fa sentire strette e al sicuro insieme. Una corda di ansia che le stringe talmente forte da fondere anche le loro menti, tanto da portarle a fare gli stessi sogni, tanto da eliminare ogni parola superflua poiché non è necessario capirsi, ma sentirsi vive, ancora un altro giorno.

Il libro di Johanne Lykke Holm è il quarto della serie “Le fuggitive” ed è stato tra i finalisti del Premio Strega Europeo 2023.

Strega è un libro pericoloso perché non parla al nostro senso logico, depistando ogni ricerca di fatti ed eventi chiari .

Sussurra alle nostre percezioni più sottili, alla nostra pelle che irretisce nel percepire un alito gelido o quando ha paura. Un sogno, o meglio un incubo dal quale non si può uscire.

I simbolismi del racconto ci trascinano in un universo femminile e acerbo, alla ricerca di nuovi progetti di vita.

Un universo che si scontra con la perfidia di un mondo infido e subdolo, pronto a risucchiare loro ogni scintilla di giovinezza.

Ho avuto bisogno di diverso tempo per digerire questa lettura, come dentro un sogno forzato, non riuscivo a staccarmi da dosso la pesante sensazione di privazione, di claustrofobia, di sopruso.

Strega va preso a piccole dosi perché come il veleno, poche gocce non ti uccidono, ma esagerare può condurre alla follia.

Strega

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Altri libri candidati al Premio Strega 2023:

Il Continente bianco

Una minima infelicità

Del nostro meglio

Come D’Aria

Avevo sempre pensato che sarei diventata un bel cadavere Avrei fatto attenzione a non essere brutta nel momento in cui accadeva, a non diventare una vittima brutta, sdraiata lì a bocca aperta in un vestito ereditato, una fallita nella morte quanto nella vita Dentro di me c’era un meccanismo che immergeva tutto in una luce scintillante, quel meccanismo che collega la morte con il bello e il bello con la morte. 

Tutto il bene, tutto il male

Tutto il bene, tutto il male

Buongiorno viaggiatori, il libro di cui vi parlo oggi è Tutto il bene, tutto il male di Carola Carulli, pubblicato da Adriano Salani Editore.

Carola Carulli, giornalista, si occupa di cultura da molti anni. È conduttrice del Tg2, cura le rubriche “Achab” e “Tg2 Weekend” dedicate alla lettura.

Segue come inviata i più grandi eventi musicali, letterari e cinematografici. È autrice di diversi documentari.

Tutto il bene, tutto il male è il suo primo romanzo.

Alma era una ribelle di natura. Una di quelle a cui non stava bene niente. Detestava sua madre Clara, donna piena di amanti e rimorsi, superficiale e fragilissima, con un sogno, quello di diventare ballerina, che si era infranto insieme alle sue gambe a seguito di un brutto incidente dal quale si era salvata per miracolo.

Leggendo queste parole verrebbe da pensare che questo sia un altro libro sul rapporto difficile tra madre e figlia, ma posso senza ombra di dubbio dirvi che troverete molto di più.

Partiamo dal principio, Clara e suo marito, un uomo perbene che aveva scelto per comodità e per garantirsi una vita dignitosa, hanno due figlie, Sarah e Alma.

Tutto il bene, tutto il male è un romanzo che parla di mancanze.

Tutto si sgretola quando i due si separano e le figlie scelgono con quale genitore restare.

Sarah resta con la madre e Alma sceglie il padre, ed è così che le due sorelle crescono con caratteri completamente diversi per l’esempio che hanno ricevuto.

Alma è il personaggio che più mi ha scatenato emozioni, soprattutto nel rapporto con la nipote Sveva, figlia di Sarah.

Alma e Sveva, apparentemente ribelli e complicate , ma che si capiscono soprattutto nei momenti di dolore.

Hanno vissuto sulla loro pelle il dolore dell’abbandono, il sentirsi sole e non amate.

Due donne che si aiutano a vicenda a rialzarsi riprendendo a camminare con tutte le ferite che si portano dietro, perché a volte la vita sa essere dura.

Due donne che vivono sulla loro pelle il male fatto dalle parole di chi dovrebbe volere solo in nostro bene.

E sono proprio i loro punti di vista ad alternarsi per tutto il romanzo che è un vero e proprio viaggio alla scoperta del bene e del male che possono influire sulla nostra vita.

Tutto il bene, tutto il male è un romanzo che ci fa capire come i sentimenti siano complicati.

Ci fa riflettere su come sia necessario conquistare e lavorare per creare un rapporto con le persone e che non basta la parentela per averne uno.

Come per un giardino che per essere bello ha bisogno di cura e amore, non solo quando ci si ricorda, ma sempre.

L’autrice è stata brava nel raccontare pezzi di vita in cui il lettore può immedesimarsi con estrema delicatezza, un linguaggio immediato che colpisce ma allo stesso tempo regala una lettura scorrevole che vola pagina dopo pagina.

I social per lei erano pagine bianche che le persone usavano per esternare qualunque opinione senza che nessuno glielo possa impedire. Lo trovava spaventoso, «perché la verità non la puoi dire a tutti». Non poteva tollerarlo. «È un TSO a cielo aperto» diceva, «qualunque cosa cerchi, finisci per trovare frasi terribili scritte senza vergogna, […] Body shaming, bestemmie, litigate tra mariti e mogli […] un mondo parallelo pieno di gente crudele […] E il bello» continuava «è che quella gente poi, nella vita reale, si comporta in tutt’altro modo».

Un romanzo pieno di riflessioni sul mondo, sui sentimenti, su come le persone si comportano, su come a volte si usino i social in modo del tutto sbagliato per cercare quelle attenzioni che nella vita reale non si hanno.

Per certe persone il bisogno e la ricerca di attenzioni possono essere un qualcosa che porta a rovinare la vita tra incertezze, dolore rabbia e chiusura.

Un romanzo che arriva dritto al cuore, parole che restano e portano inevitabilmente a capire che siamo tutti imperfetti, ma è proprio l’imperfezione a renderci unici.

Non si può restare indifferenti dopo aver letto questo libro, per me è stata una vera e propria lezione di vita.

Consiglio a tutti di leggerlo.

Tutto il bene, tutto il male

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Spostare la luna dall’orbita. La tragedia greca attuata da Lord Elgin.

Spostare la luna dall’orbita. La tragedia greca attuata da Lord Elgin.

Maggio e anche giugno sembrano i mesi in cui io sia destinata a trovare molliche del mio passato. Questa volta a ricordarmi di una ragazzina idealista che voleva fare la curatrice del British Museum è Andrea Marcolongo con Spostare la luna dall’orbita, edito per Einaudi.

Frequentavo il quinto anno delle superiori quando, durante la mia prima visita al British Museum, vidi i marmi del Partenone. Quella folgorazione si trasformò nella mia tesina di diploma di maturità sul sistema museale che fu la scusa per parlare “dell’impresa” di Elgin.

A mia difesa posso ricordare che ero giovane, acerba, innamorata di mondi perduti e anche un tantino arrogante nella mia supponenza?

Parte della frase è ancora vera ma questa è una storia per un’altra volta.

A quel tempo trovai negli archivi on line del museo il firman in lingua italiana che permetteva ad Elgin di portare via da Atene i marmi del fregio più famoso del mondo e che lasciava pensare che, in un qualche modo, ci fosse stata una compravendita.

Lo ammetto anche con una certa riluttanza: che i marmi fossero a Londra, in seguito a quel documento, mi sembrava se non giusto quanto meno regolare.

Ora ve lo dico: non sapevo niente!

Ma il mio professore di inglese era ed è un suddito leale e integerrimo della corona inglese e mai si sarebbe sognato di contraddire qualcuno che data, seppur implicitamente, ragione a coloro che espropriarono legalmente a Lord Elgin i marmi che non del tutto legalmente lui trafugò dall’Acropoli.

La Grecia, al tempo dell’operato di Elgin per conto del governo inglese, era sottoposta al governo turco.

L’Acropoli era poco più che un deposito e una polveriera.

Diciamocelo, alla Turchia non interessavano i monumenti in maniera particolare ma, finché le lusinghe e una vittoria su Napoleone non si misero di mezzo, non avevano mai permesso a nessuno di portar via alcunché dal suolo sacro dietro ai possenti propilei dell’acropoli.

Lord Elgin portò via i marmi ed ebbe a che pentirsene amaramente, anche se a quel tempo lui non lo sapeva ancora.

Quando, negli stessi anni del mio diploma, Atene si preparava ad accogliere le Olimpiadi, il governo greco chiese la possibilità di ospitare i marmi ad Atene, perché la richiesta di potersene riappropriare era stata, di nuovo, respinta poco tempo prima, Londra rispose: ci sono i calchi di Basilea, potete prendere quelli.

Non credo fossero la frase letterale ma di sicuro il senso era quello.

Ricordo che rimasi stupita dalla violenza della risposta.

Potevo capire la riluttanza e l’attaccamento ad un cavillo legale, che ora so essere labile, ma non il necessario sberleffo nei confronti della Grecia mettendo in mezzo una terza città che non aveva nemmeno preso parte alla disputa.

Di solito chi si accanisce e alza la voce ha, quasi sempre, torto o la coscienza non esattamente nel punto di bolla.

In Romagna si direbbe che i Greci rimasero “sbattezzati” sia dal coraggio di Elgin nel portare via le opere che dal fermo e categorico rifiuto di rivedere la posizione in merito alla restituzione delle teorie di metope e dei fregi ateniesi.

L’espressione “sbattezzati” sta a significare: come a Spostare la luna dall’orbita.

La frase dell’archeologo Edward Daniel Clarke fu pronunciata nel descrivere lo sgomento greco di fronte agli operari che lavoravano al trafugamento.

In epoca moderna esiste una legge secondo cui le proprietà artistiche detenute legalmente dai grandi musei europei sono inalienabili ma, prima che il governo inglese acquistasse il patrimonio artistico proveniente dal tempio di Athena Parthenos in maniera inalienabile e incontestabile, lord Elgin aveva avuto lo stesso diritto legale sulla proprietà incontestabile, culturale e artistica, di un paese che non era libero di disporre nemmeno della libertà di definirsi un paese?

Quindi mi sono chiesta più volte, anche mentre leggevo Spostare la luna dall’orbita: fermo restando che il Partenone è una delle architetture più stupefacenti che hanno riempito i miei occhi, come sarebbe stato se lo avessi potuto ammirare con il suo corredo scultoreo ancora al suo posto?

Non posso nemmeno invidiare il lord inglese che si presentò al cospetto del periptero d’Athena solo dopo che il saccheggio era avvenuto.

Avrei quasi potuto capirlo di più se avesse deciso cosa portare via dopo averlo potuto vedere nella sua interezza.

Forse avrei potuto.

A dire il vero, a questo punto, proprio non lo so.

Avrà pensato, per un secondo, al fatto che non poter portare via anche il tempio fosse, se non per pietà verso la Grecia o paura dell’Ira della dea glaucopide, un buon motivo per lasciare le statue dov’erano?

Se fossero rimaste lì sarebbero sopravvissute? Anche questa è una suggestione che mi sono concessa di rimirare e che mi ha convinta a non approfondire quando volevo solo essere l’unica a proporre una questione attuale al mio esame di maturità.

Lord Elgin, il governo inglese, tutti i posteri si sono sollazzati nel poter pensare di aver salvato le opere come d’altronde ho fatto io.

Ma se si tratto un salvataggio, vuol dire che poi, il salvato potrà tornare a casa e al calore della sua casa.

Spostare la luna dall’orbita è esattamente lo sgomento dello sbattezzato che non riesce proprio a comprendere il perché la risposta ad una domanda legittima, con argomentazioni e precedenti più che legittime, sia sempre un No.

Non vi saprei dire se sono suggestionata dalle parole di Andrea Marcolongo sulla questione annosa della storia dei marmi di Atene ma, privata della mia puerile certezza della giusta proprietà di Elgin nei confronti del corredo statuario del Partenone, mi sento di unirmi a coloro che, vedendo quello che era Uno diviso due luoghi distinti, hanno sentito la forza dello strappo del tempio dall’opera di Fidia.

L’ho realizzato proprio ora, mentre a 18 anni capivo solo che la sala del museo era adeguata come misure ma non alla luce da cui dovrebbero essere baciate.

Ero io quella ad essere abbacinata dall’essere in uno dei musei più grandi al mondo e alla presenza del corredo statuario più magnificente che io avessi mai visto.

In quel momento, la mia vita era riuscita a Spostare la luna dall’orbita e forse l’ho messa ancora più lontana da dove l’aveva posata Lord Elgin.

Davanti a me la dea Athena tentava di nascere dalla testa di Zeus provocandogli un poderoso mal di testa che il sovrano degli dei avrebbe dovuto prendere ad esempio della furia di sua figlia, nel lato a me opposto si svolgeva la lotta tra la dea e Poseidone per il dominio sulla città di Atene.

Conoscendo la storia di questi marmi, priva di troppi particolari, dei marmi avrei dovuto, però, percepire che Atena più che con suo zio era adirata con chiunque non la stesse riportando alla sua legittima casa.

Spostare la luna dell’Orbita è, in parte, la storia di Lord Elgin e del trafugamento delle opere dell’acropoli ateniese; ma è anche la notte più sconcertante che l’autrice abbia passato: una notte all’interno del Museo dell’Acropoli, completamente sola ma in compagnia di ciò che resta dell’apparato iconografico rimasto in sede.

Questo museo è giovane, concepito attorno ai vuoti della cultura greca e non attraverso i suoi pieni.

Il senso della tragedia lo pervade e lo anima.

Passare una notte così è un onore e un onere per chi ama la cultura greca.

Il libro è anche questo ma, come spesso accade con questa autrice che io adoro, le pagine traboccano anche di molto altro.

E di colpo siete ad Atene, a Londra, su navi stipate di carico che naufragano, nella vita di un’autrice onesta nei confronti della sua vita e della sua opera e di fronte ad una delle opere più grandiose mai costruite.

Potete, forse, se le avete visto sia i marmi che il tempio, riuscire ad immaginarvi il Partenone ancora unito e ancora sfolgorante di colori abbacinati dai riflessi del marmo che lo componevano.

Chissà, forse Carlo III potrebbe prendere in considerazione di esercitare una migliore influenza culturale a livello mondiale e arrivare ad un accordo per le opere di Fidia.

Sarebbe un sogno.

Spostare la luna dall'orbita

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Cose che non si raccontano. Un grido di coraggio da e per le donne.

Cose che non si raccontano. Un grido di coraggio da e per le donne.

Buongiorno viaggiatori, oggi vi parlo di Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi edito da Einaudi.

Un romanzo che mi ha fatto male perché mi ha costretta a guardarmi dentro riportando alla mente ricordi dolorosi ma non solo.

Il linguaggio scelto dalla Lattanzi per raccontare la sua storia è molto crudo, tagliente e brutale, come lo sono i fatti che racconta.

Lei è una scrittrice e sa come usare le parole, le mette nero su bianco una dietro l’altra, mettendo nelle mani del lettore una storia scritta con il sangue ed è proprio attraverso esso che ripercorre il suo dolore.

Di cosa parla Cose che non si raccontano?

Al contrario di come si potrebbe pensare, questo non è il racconto di una maternità mancata, nasconde al suo interno molto di più, basta leggere tra le righe.

La Lattanzi rivendica i suoi diritti di Donna.

Un’interruzione volontaria di gravidanza è un diritto, me l’ha insegnato mia madre. Ma a quella madre, che ho esercitato questo diritto non posso dirlo.

Amare il suo lavoro a tal punto da volergli dedicare tutto il tempo disponibile.

Un figlio costringe a fare i conti con delle priorità che non sempre coincidono con gli obiettivi della vita.

Con tanto coraggio, in Cose che non si raccontano, la Lattanzi non ha paura di mettere le verità in mano al lettore, scrivendo tutto nero su bianco.

Attraverso la scrittura ha evitato di nascondersi dietro bugie, come ha fatto in certe occasioni, tenendo i suoi affetti all’oscuro di ciò che stava vivendo.

Per diverso tempo non è stata pronta ad accogliere una nuova vita e tutti i cambiamenti che avrebbe dovuto accettare di conseguenza.

Poi, invece qualcosa cambia perché per una donna gli anni che passano si fanno sentire e ti mettono di fronte al bivio.

Voglio un figlio oppure no? Tic tac, tic tac…

Lei al bivio ha scelto di provare, a cercare una gravidanza, ma inizia per lei un vero e proprio calvario che non auguro a nessuno.

Nei momenti di dolore cerchi sempre un perché. Perché è successo tutto quello che è successo? ho chiesto. Perché non si gioca con la vita, mi ha risposto una voce ancestrale, una voce da pensiero magico. Hai rifiutato due vite? E allora sei stata punita.

Un dolore dietro l’altro, che anche solo leggerlo è in grado di togliere il fiato, figuriamoci viverlo.

QUESTO LIBRO è un grido di coraggio.

Il coraggio di raccontare cose personali, che si vorrebbero tenere private, ma ogni tanto è meglio tirare fuori per condividere la propria esperienza, vera, così tanto da far male.

Per me è stato difficile leggere questa storia, ho vissuto sulla mia pelle, se pur in modo diverso, il dolore degli abortire la ricerca di una gravidanza che non arrivava.

Fare i conti e leggere alcune parti della sua vita non è stato semplice.

Ho avuto difficoltà a comprendere e accettare certe parole, probabilmente perché solo chi vive in prima persona quei momenti può farlo fino in fondo.

Questo è un romanzo che parla di quanto sia difficile e di cosa significhi essere donna oggi, partendo dal fatto che se sei donna, devi saper rinunciare a priori ai tuoi sogni, alla tua ambizione.

Se vuoi diventare madre devi mettere in pausa la tua vita.

Tornerai al punto in cui ti sei fermata? Riuscirai a far tutto come quando non avevi figli?

Cose che non si raccontano è un libro intenso che non vi lascerà indifferenti.

Cose che non si raccontano

La trama di Cose che non si raccontano la trovi qui!

Un approfondimento? Clicca la parola LINK

Altre recensioni se ti è piaciuto Cose che non si raccontano? Come d’aria. UNA MALATTIA CHE LEGA MADRE E FIGLIA (premio Strega)

E però, se tu non mostri il dolore, la gente come fa a starti vicino?

C’è una cosa. Può succedere che, quando mostri il dolore, la gente non ti stia vicino. Io, piuttosto che provare una delusione del genere, taccio.

Bastarde disperate. L’urlo femminile dal cuore del messico

Bastarde disperate. L’urlo femminile dal cuore del messico

Viaggiatori allacciate le cinture, questa volta la direzione è il Messico, quello brutale dei signori della droga, della violenza più efferata; sarà un cammino difficile e tutto al femminile: Bastarde disperate.


Forse, come scrive Dahlia de la Cerva, è meglio raccomandarsi al Diavolo in questo luogo dimenticato da Dio, e forse occorre armarsi di pelo sullo stomaco nel momento in cui si decide di affrontare questa lettura.


Mi sembra doveroso fare un’ammissione : ho avuto non poche difficoltà ad entrare nel vivo di Bastarde disperate, a sentirlo a livello empatico.


La scrittura è sicuramente molto schietta e cruda, non c’è l’intento di indorare la pillola di una società corrotta e manipolata dalla malavita, ma il vero problema per me è stata la visione di un universo femminile altrettanto corrotto, che pur di sopravvivere si adegua, accetta e si appropria di stili di vita oltre il limite.


Per buona parte del libro non ho fatto che pensare “ Ma non c’era davvero un’alternativa?” .


Mi sono posta questa domanda mentre leggevo il racconto di una giovane donna il cui futuro, come erede diretta di un cartello della droga, non viene nemmeno messo in discussione.

Un mondo in cui l’apparenza domina sulla sostanza.


Fra sparatorie, intrighi e traffici vari si intrecciano vite di donne il cui scopo primario pare essere il numero di follower, il nuovo ritocco dal chirurgo estetico e avere abiti e borse sempre alla moda.


Ancora donne, streghe, con pagine facebook e migliaia di like che non si fanno scrupolo ad utilizzare qualsiasi forma di magia pur di ottenere ciò che desiderano, schiacciando senza alcun pudore la volontà altrui.

Della faccenda estetica mi sono già occupata:

a ventidue anni ho già all’attivo un fottio di operazioni chirurgiche.

Tutto quello che vedi è operato perché è chiaro che a me i soldi non mancano.


Ho avuto un momento di sbandamento, lo giuro.


Un libro lontano anni luce dalla letteratura femminista e dalla lotta al patriarcato che sono abituata a leggere.

La prospettiva però è cambiata nel momento in cui ho compreso che, ciò che stavo facendo era porre la mia visione occidentale-europea in un contesto completamente, totalmente diverso.


Questo libro non ha la pretesa di dire ciò che è giusto o sbagliato, questo libro racconta ciò che accade in Messico, quali sono le vicissitudini delle donne in quei luoghi dove il femminicidio tocca picchi sconvolgenti.


In bastarde disperate si parla di vita estrema, in un contesto in cui la fortuna primaria è sopravvivere ancora un giorno.


Guadare il libro sotto questa prospettiva mi ha aiutato a comprenderne le dinamiche violente, spesso animalesche che ho incontrato nei racconti.

Il Messico è un enorme mostro che divora le donne (…)
L’ha ammazzata perché era incinta.
L’ha ammazzata perché non ha voluto abortire.
L’ha ammazzata perché voleva abortire.
Maternità usa e getta.
Donne usa e getta.
L’ho ammazzata perché l’amavo.
L’ho ammazzata perché era mia.
Come si fa a dimostrare la misoginia se l’assassino dice che l’amava?


I Contenuti sono graffianti, smorzati spesso da una macabra ironia, tutto è avvolto da tossicità e ossessione.


Tutto racconta di quanto sia più complicato nascere in un contesto estremamente violento ed intriso di patriarcato.
Dahlia de la Cerda, scrittrice ed attivista, co-fondatrice del collettivo femminista Morras Help Morras, con questo suo esordio ha vinto il Premio Nacional Comala.

Bastarde Disperate

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Le ribelli che stanno cambiando il mondo

Femminucce

Parole d’altro genere

Libertà in vendita

La casa dalla porta dorata. Non c’è scelta per chi non è Uomo o Aristocratico.

La casa dalla porta dorata. Non c’è scelta per chi non è Uomo o Aristocratico.

Lo aspettavo da molto tempo e finalmente oggi: 16 maggio 2023, il secondo libro di Elodie Harper è in tutte le librerie. Seguito de Le lupe di Pompei, sugli scaffali di tutte le librerie e, finalmente, tra le mie mani, arriva La casa dalla porta dorata.

Ricordate le ragazze del lupanare di Felicio?

Amara ormai liberata dal generale della flotta romana Plinio e sotto il patrocinio di Rufo è fuori dalle follie rabbiose del feroce lenone.

Didone, la migliore amica di Amara, è stata trafitta da un pugnale che l’ha uccisa al posto di Felicio.

Ed ora eccoci qui, tra le mura de La casa dalla porta dorata.

Qui vive Amara, ormai liberta, come concubina di Rufo a cui la ragazza piace fragile come un uccellino in gabbia e come tale vuole vederla cantare e suonare.

Quello che il patrizio non sa è che Amara potrà anche essere l’oggetto dei suoi desideri ma non è fragile.

La realtà, che la spaventa, è che la sua sete di libertà e indipendenza la fa somigliare all’uomo che fino a poco tempo prima era il suo padrone.

Amara, non Timarete (il suo vero nome, quello che le ha donato suo padre alla nascita), è costretta ad essere quello che la vita le ha insegnato.

Più che un nome il suo è, ormai, un titolo conquistato a fatica.

Purtroppo oltre ad essere spregiudicata e dotata di un forte senso di sopravvivenza, Amara è la trasfigurazione della vendetta della dea Diana.

La dea che ne La casa dalla porta dorata ha il volto di Didone è la mandante di una furia chiamata Vendetta.

Quest’ultima si è impossessata di Amara e l’acceca con il dolore per la perdita della sua amica.

È per perseguire la tempesta della vendetta che si ritrova ad avere a che fare con Felicio, di nuovo.

Amara costringe l’uomo a liberare Vittoria e venderle Britanna; così facendo si indebita e si ritrova in una spirale discendente in cui trascinerà tutto quello che ha di più caro.

Forse, in fin dei conti, Gaia Plinia Amara non è così spregiudicata come crede di essere.

Questa, come il precedente libro, non è una storia di salvezza.

La casa dalla porta dorata non è la libertà.

Quattro mura costituiscono l’illusione di avere qualcosa che le appartenga ma sono solo una gabbia più grande con un guinzaglio più lungo di qualche metro.

Il precipizio è ancora lì: più lontano forse ma più profondo di qualche decina di metri.

Amara non sta giocando con il fuoco ma con l’intero cratere che sovrasta Pompei e, ormai, non è più il suo solo destino ad essere appeso ad un filo sottilissimo.

La scelta è chiara: sopravvivere ancora a dispetto di tutti e tutto o sfidare la sorte con le carte più orribili che il destino può servire?

L’esistenza di Amara è un gioco sulla lama di un rasoio; ogni respiro è una lotta per la sua anima in cui il suo antagonista peggiore è il riflesso che vede nello specchio della sua toeletta.

La casa dalla porta dorata è un altro successo di Elodie Harper.

La condizione della donna della seconda metà del I secolo d.C. non è il solo scoglio che viene affrontato e su cui il lettore viene spinto fino a frantumarsi ed escoriarsi la pelle, ma è l’intero substrato sociale che muove l’impero ad essere sviscerato ed esposto come un corpo lasciato a marcire nella discarica fuori le mura di Pompei.

Della fiorente città campana noi ricordiamo le favolose rovine, i meravigliosi doni che ancora ci restituisce, i magnificenti dipinti e i ridanciani motti di spirito sui muri ma… tra quelle vie e quelle mura vivevano migliaia di persone di cui la storia ha dimenticato di prendere nota.

Ora ce li ricorderemo tutti, grazie a questa saga, possiamo dar loro un nome da iscrivere sulle steli.

La casa dalla porta dorata

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Approndimenti? Qui

Chiude gli occhi, immaginandosi di essere a casa, al sicuro nel suo studio privato, non seduta qui, sulla pubblica piazza, a sorridere nonostante la paura.