Annalena. La grandezza di una piccola donna che donò se stessa

Annalena. La grandezza di una piccola donna che donò se stessa

Ho conosciuto Annalena Benini in una serata d’estate, all’interno di uno degli eventi dello ScrittuRa (Festival di letteratura organizzato a Ravenna-Lugo). In quella serata veniva presentato I racconti delle donne, edito per Einaudi, e mi ha folgorata. Torno oggi alla penna della Benini per leggere Annalena, il suo ultimo libro, sempre per Einaudi.

L’antologia con i racconti delle donne, che sono artiste e scrittrici conosciute e molto amate, mi aveva folgorata: sulla via di Damasco ho avuto la certezza che non sarò mai in grado di scrivere in nessuno di quei modi incisivi e mi sono sentita piccola di fronte alla grandezza della letteratura.

Annalena, invece, mi ha strappato il cuore.

Non sarò mai la Didion o la Yourcenar, ma la mia indole umana non sarà mai nemmeno vicina a quella di Annalena Tonelli, cugina di terzo grado della Benini.

Annalena è un libro biografico, almeno in parte, perché della sua vita di cui la Tonelli non voleva si parlasse è solo parte dell’immensità della vita che questa donna e minuta è riuscita a salvare, coinvolgere e toccare con la sua sola esistenza.

Anche la vita della Benini ne è stata toccata, non solo per la parentela che le lega, ma anche perché quando insegui la vita di qualcuno finisci per capitolarci dentro.

Puoi quasi toccare la pelle del tuo soggetto, entra a far parte di te. Lontane ma vicinissime, solo ad un sussurro.

La prima parte del racconto di questo libro mi ha fatta sorridere più di una volta.

Io e la Benini non ci conosciamo personalmente, ma la sua esperienza con la vita quotidiana mi ha permesso di credere che forse abbiamo qualche piccola cosa in comune.

Se non per altro almeno per una certa questione su di un naso che potrebbe essere, o non essere, ereditario.

Annalena Tonelli è stata uccisa nel 2003, in Somalia, con un colpo di fucile.

Aveva sessant’anni e il motivo della sua uccisione è stato una cosa (ben più di una in realtà) piccola, banale, e buia: l’ignoranza, la paura, Il Male.

Questa piccola donna avrebbe potuto scegliere di vivere negli agi di una vita borghese, facendo beneficienza a Forlì. Invece, ha scelto di partire per ovunque ci fosse bisogno di lei.

Il Kenya, la Somalia e molti altri.

Ha scelto una vita mortale. Ha preso la sua intera esistenza e l’ha donata a coloro che desiderava.

Ovvero tutti coloro che sono gli ultimi, gli abbandonati, i dimenticati.

Perdonatemi la parafrasi di una famosa frase de Il Signore degli Anelli, nella trasposizione cinematografica di Peter Jackson, ma non avrei saputo descrivere meglio di così quello che la Tonelli ha compiuto della sua vita.

La “Santa Annalena Tonelli” è l’epiteto con cui Il Corriere della Sera ha dato notizia della sua morte.

Epiteto che non sarebbe stato affatto amato dalla stessa poiché credeva che non servisse a nulla parlare di coloro che soffrono, occorreva fare qualcosa di concreto.

Immergersi nella sofferenza, donare ogni briciolo della propria vita, dare fino a svuotarsi e amare fino al limite delle proprie forze.

È una cosa bellissima da dire ed è fortissimo lo slancio che tutti sentiamo di fronte a questo appello, ma quanti di noi lo farebbero realmente?

Ne avremo la forza?

Ad un certo punto, io come la Benini, come tutti, ci troviamo a dover rispondere all’annosa questione: quando smetteremo di cercare di essere altri che non siamo noi stessi?

Non possiamo essere tutti grandi. Non saremo mai tutti dei giganti ma siamo forze, magari meno brillanti o meno forti rispetto ad altri.

Il nostro compito è vivere al massimo delle nostre possibilità, Vivere essendo coscienti di farlo, accettare quello che non possiamo cambiare per non disperdere le energie che ci consentono di compiere le grandi opere che sono destinate a noi e non ad altri.

Annalena Benini intreccia la sua vita a quella di un’anima inarrivabile, ce la restituisce attraverso i libri che la Tonelli amava e che le davano forza quando si sentiva sola e non compresa.

Ha esaltato la vita di colei che avrebbe detestato i nomi con cui la stampa e il piccolo mondo la identificava.

L’ha resa immensa facendoci vedere anche quelle che sono i lati umani che noi tutti nascondiamo per non sentirci molto più vulnerabili.

L’autrice ha “infranto il dogma” secondo cui non si sarebbe dovuto scrivere della Tonelli e, anche se in piccolo, l’ho fatto anche io per rendere omaggio al suo ritratto così abilmente delineato.

Annalena

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Altre recensioni Einaudi?

Il pianto delle troiane. Il corpo di Ilio insepolto e spoglio di epica. Ma nei prossimi giorni sbriciate nel sito, ne troverete altre.

Lei voleva essere nessuno, ma la vita è anche mancare qualcosa, non riuscire in qualcosa, non colmare la misura fino all’orlo. Lei che è stata la dismisura in tutto, non è riuscita a colmarela misura dell’essere nessuno.

Il continente bianco. Il gioco della sopraffazione

Il continente bianco. Il gioco della sopraffazione

Siamo dentro una partita a scacchi già decisa, nonostante l’avversario provi debolmente ad opporsi, in questa scacchiera i bianchi prendono tutto: Il Continente bianco.

Occorre stomaco per leggere questo romanzo e occorre tanta curiosità, quella apparentemente innocente che rischia quasi di ucciderti.

Sicuramente a farsi male saranno soprattutto gli altri, quelli che decidiamo di annientare, di sopraffare non solo fisicamente, ma soprattutto mentalmente.

l gioco del gatto col topo è chiaro, la via di scampo lo è sempre meno.

Schiacciare la minoranza colpevole di occupare i luoghi scartati dalla razza eletta, disgregare e separare goccia dopo goccia i popoli immigrati.

Sporchi, scuri, detentori di una lingua che qui non viene capita, occupanti di posti di lavoro che spetterebbero sempre e solo ad un italiano puro.

Allora ci appostiamo di nascosto, nei luoghi dove la luce non arriva, fino all’arrivo della puttana nera e del cliente bianco. Paura, botte, sangue.

Disgusto dentro il disgusto.

Tutto avviene sotto gli occhi cavi del Duce che, anche se non c’è più, tutto sa.

Il continente bianco è un libro che fa molto male.

Sanguino nel leggere di ciò che accade al giorno d’oggi.

Poi mi dico che è solo un libro e che è tutto inventato, mi illudo, cerco attenuanti inesistenti pur di non accettare che una parte oscura della storia venga inneggiata e usata per commettere delitti.

Un libro sporco di fango e liquidi corporei, intriso del male più oscuro.

Proprio della fascinazione del male ci parla mirabilmente Andrea Tarabbia, e di quella morbosa voglia di scoprirne l’origine, ciò che porta alla creazione del Continente Bianco.

Fare il male, e pensare a qualcosa che si ama persino.

Tarabbia affascina, la sua narrazione non lascia scampo, trascina a fondo senza farci rendere conto che il baratro ci sta ingoiando.

Ho gridato “ Stronzo, cosa diavolo stai facendo?” tante volte dentro questa sadica storia.

Il continente bianco crea la sua narrazione da un romanzo incompiuto: L’odore del sangue di Goffredo Parise.

Incontriamo infatti lo psicologo, la moglie dello psicologo e il giovane estremamente affascinante e consapevole del suo potere.

Una parte della narrazione si svolge proprio all’interno della casa e dello studio dello psicologo e di sua moglie.
Le sedute di terapia sono uno scambio talmente intenso e profondo che ad un certo punto non c’è più un confine netto fra il dolore e la morbosità dei due.

Fino a che punto ci si può lasciare affascinare dal male, fino a che punto si può arrivare credendo di potersi tirare fuori.

Il Continente bianco indaga il male ammantandolo di purezza, estremizza la morbosità e striscia come il serpente che appare più volte nel racconto.

Striscia e scava alla ricerca dell’estremo, della dominanza, del plagio.

Marcello Croce, luminoso nella sua bellezza quasi eterea, è il detentore del potere.

Un maestro degli scacchi, muove esseri umani gonfi di ideali, sottomette e schiaccia in nome dell’amore.

Nella blasfemia più estrema Tarabbia plasma una creatura quasi divina, gli attribuisce un cognome che ci riconduce sempre al pensiero di purezza e lo trasforma nel diavolo tentatore.

Si , quel ragazzo era bello di una bellezza insolita,

insieme nordica e nevrastenica,

e l’incontro con questa bellezza per qualche motivo mi inquietò …
Il suo nome era, come avrei saputo di lì a pochi giorni, Marcello Croce.

Un bianco atroce, che ingoia ed elimina tutto ciò che non combacia perfettamente all’ideale di purezza e ai valori decantati dagli appartenenti al Continente bianco. Niente deve rischiare di macchiare il bianco assoluto, nemmeno il sangue delle zecche.

La purezza mette una linea bianca tra ciò che è nostro e ciò che è altrui,

tra ciò che può continuare a vivere e ciò che, invece, può e deve morire.

La lotta al diverso però non si concentra soltanto verso i popoli che si trovano ai margini del sistema sociale, anche la borghesia, a cui il Continente bianco non appartiene, viene derisa e abusata.

Ne è la personificazione Silvia, sfruttata, plagiata e violata fino alla fine.

Un libro che ci parla di sfida oltre i limiti, di continua ricerca dell’estremo in nome di valori e perfezione, nel nome di quell’amore oscuro e deforme che amore non è.

Si può amare ed odiare profondamente un libro?

Il Continente Bianco ha suscitato in me questa dicotomia.

Ne ho amato follemente la narrazione che ammalia e spinge la curiosità ad approfondire argomenti e situazioni dalle quali, nella realtà preferirei evitare.

Un libro candidato al premio Strega che si colloca tra i primi posti nella mia personale lista delle preferenze.
A Proporre il Continente bianco è stata Daria Bignardi con la seguente motivazione:

È un romanzo forte, elegante, complesso, sul fascino del male ma soprattutto sul fascino della letteratura e dello scrivere. La storia di Silvia, la moglie perduta del dottor P. rubata a Goffredo Parise dell’Odore del sangue e reinventata con un’operazione raffinata e – mi viene da dire – pericolosa quanto affascinante, da Andrea Tarabbia, penso meriti l’attenzione del Premio.”

Qui trovi la trama

Che ci possa essere levità, e risa, e gioia, in chi compie qualcosa che per noi è orribile e violento- ecco è una cosa che non è tollerabile, che fa più male del male stesso perché dice che la vita,la vita di chi compie il male è, in fondo, nella gioia e nel dolore, non troppo dissimile dalla nostra.

O dalla mia.


Come d’aria. UNA MALATTIA CHE LEGA MADRE E FIGLIA (premio Strega)

Come d’aria. UNA MALATTIA CHE LEGA MADRE E FIGLIA (premio Strega)

Buongiorno viaggiatori, oggi vi parlo di Come d’aria di Ada D’Adamo, romanzo tra i dodici finalisti al premio Strega 2023 che racconta come una malattia lega madre e figlia.

Credetemi quando dico che questa recensione è tra le più difficili che ho scritto.

Vi starete chiedendo il perché o forse lo immaginate già se avete seguito le notizie collegate al premio Strega.

Leggere questa storia è stato davvero complicato perché tante volte mi ha fatto capire quanto può essere dura la vita.

Un libro bellissimo che vale la pena leggere e a parer mio merita il podio al premio Strega.

La capacità dell’autrice di Come d’aria di raccontare come la malattia lega madre e figlia senza appesantire il lettore è stupefacente, vederlo al premio Strega mi rincuora.

Spero che la scomparsa dell’autrice, avvenuta dopo due giorni dall’annuncio della nomina nella dozzina al premio Strega, non influisca negativamente per paura di giudizi.

Una malattia che lega madre a sua figlia finisce tra i finalisti al premio Strega.

Premio che quest’anno si trova accusato di avere nella dozzina solo storie cariche di dolore, come se la malattia non fosse cosa reale da rispettare proprio per il carico che porta.

Una storia che colpisce duro, un pugno nello stomaco continuo.

La vita di una madre che per una mancata diagnosi non ha potuto scegliere se portare avanti una gravidanza che avrebbe dato la vita a una bambina con una grave invalidità.

Se aggiungiamo che nel gestire tutto questo la madre si porta addosso un brutto male che deve curare per salvarsi la vita, allora è lecito domandarsi quanto sia assurda e ingiusta la vita in certi casi.

Per me è stato doppiamente difficile leggere questa storia perché anche io sono madre e ho vissuto sulla mia pelle le difficoltà di Ada.

Ho avuto coraggio nel leggerla in un momento in cui la mia salute non è delle migliori e capisco quanto sia dura guardare tua figlia e non poterle dare le cure di cui ha bisogno perché non ne hai le forze.

Questa per una madre è una cosa devastante.

Leggetelo. Se ci sono riuscita io sono certa riuscirete anche voi.

Le parole di questa madre coraggiosa non devono andare perse. L’autrice ha avuto coraggio da vendere nel raccontarsi così.

Nonostante un destino crudele che si accanisce ingiustamente, Ada si racconta senza indorare la pillola e senza giri di parole con una lucidità che lascia senza fiato.

Una vita fatta di scelte e prove difficili. Una madre che si porta addosso una malattia che la lega alla figlia deve avere la salute per poter affrontare tutto.

Sapevo che ti divertiva sentire la mia voce, e io volevo che tu cominciassi la giornata ricordandoti sempre che da qualche parte, non lontano da lì, io c’ero ancora.

Una storia che ci fa riflettere su quanto sia importante vivere anche quando la vita si complica e diventa maledettamente difficile.

Ada non c’è più ma il suo coraggio e la sua determinazione resteranno per sempre nel mio cuore e spero anche nei vostri.

Come d'aria

Se volete leggere la trama di Come d’aria cliccate qui

Esaurito il dovere della cura, la giornata si apriva davanti a me.
Avevo solo lasciarmi inghiottire dalla sua bocca spalancata.
Giuditta e l’orecchio del diavolo. Fare la cosa giusta è dovere di tutti.

Giuditta e l’orecchio del diavolo. Fare la cosa giusta è dovere di tutti.

È giunto il momento per me di tirare giù dalla pila dei libri che ancora non ho letto un volume ho desiderato leggere fin dal primo momento che no ho visto la copertina. Il Premio Strega Ragazzi 2022 nella categoria 11+: Giuditta e l’orecchio del Diavolo opera di Francesco D’Adamo.

Una copertina e un titolo che ti ammaliano sono solo i primi passi verso una storia che ti stritola nel freddo dell’autunno del 1944.

In una vallata adagiata tra le Alpi, un giorno del nostro tempo, arriva uno scrittore che inciampa in una storia raccontata da un anziano del piccolo paese di Acquadolce.

È una storia che ha dell’incredibile e Tonino, l’anziano di cui vi ho parlato sopra, è sicuro che lo scrittore non crederà nemmeno ad una parola.

Giuditta e l’orecchio del diavolo è uno di quei racconti che si deve fare nel luogo in cui si originano.

Forse è per questo che Tonino porta il suo interlocutore in un luogo che di per sé è un mistero e una meraviglia: l’orecchio del diavolo, un muro brunito dalla forma concava da cui, dicono, si possono sentire le voci degli spiriti e dei morti.

È un luogo che attira la fantasia di popolani e grandi pensatori.

Nei secoli addietro persino un Tiranno greco fece scavare un luogo simile da cui poter sentire tutti i sussurri dei suoi prigionieri, lo possiamo ammirare a Siracusa ed è noto come L’orecchio di Dioniso.

Questo genere di muri veniva costruito durante la prima guerra mondiale per poter avvertire l’arrivo dei nemici e poter correre ai ripari.

Tonino inizia il suo racconto e da subito si avverte il freddo, l’urgenza, la paura e al contempo la costrizione che l’Italia tutta viveva nel 1944.

Il padre di Tonino era il capo di un gruppo partigiano. Un uomo enorme che nell’immaginario dei suoi due figli era un eroe di Salgari e per questo lo avevano soprannominato Sandokan.

Sandokan e i suoi vivevano lontani dalle loro famiglie, in quei luoghi dove nemmeno gli spiriti oserebbero andare se solo provassero freddo e paura.

Le famiglie vivevano in maniera semplice e i bambini vivevano di storie di avventure, racconti partigiani e lavori dei campi o nelle stalle con le bestie.

In paese non vivono solo le famiglie di coloro che lottano per la libertà ma, come c’è da aspettarsi, anche quelli che si sono conformati ai dettami del regime nazifascista ma, da “Bravi” quali sono, non osano denunciare i loro concittadini partigiani perché troppo impauriti dalla fama di Sandokan e da quello che farebbero loro le famiglie dei partigiani, parroco compreso.

Giuditta e l’orecchio del diavolo è una storia partigiana.

Una storia corale che esprime tutto il suo coraggio a partire da una ragazzina arrivata in una notte buia in casa di Tonino e suo fratello Giulio.

Giuditta è ebrea e i suoi genitori sono stati portati via dai “Todeschi”, soccorsa da amici della resistenza viene portata ad Acquadolce perché sia al sicuro.

Caterina, la madre dei due ragazzi, aveva dovuto decidere in fretta e senza il consiglio di suo marito: prendere o non prendere in casa una bambina bisognosa, cieca ed ebrea.

Delle volte il coraggio si nasconde nei gesti d’impulso.

Giuditta è una ragazzina strana, tutti credono che sia una strega e tutti la conoscono come Maria figlia della zia di Tonino e Giulio.

Giuditta è forte, indipendente e illuminata da un fuoco che può ardere solo in chi conosce nel profondo il terrore ma sa piegarlo a proprio favore.

È solo una bambina direte voi.

È più coraggiosa di molti di noi vi dico io.

Vede molto meglio di tutti noi, anche senza poter usare i suoi occhi che sono specchi verso il profondo dell’animo umano.

In compagnia di cane Giuseppe, ogni giorno siede al trono dell’orecchio del Diavolo e ascolta…

Si dice anche che la bambina parli con gli animali.

Non so dirvi se questo sia vero ma cane Giuseppe, che non aveva mai ubbidito prima, ora è la sua spalla fidata e verrà insignito della bandana partigiana.

Cane Giuseppe è finalmente la vendetta di Useppe e Bella de La Storia della Morante e si prenderà quello che è suo: la giustizia per la sua sorte e nessuno si dimenticherà più di cosa veniva fatto ai bambini del suo tempo.

Questa è una mia suggestione ma i libri servono anche a questo.

Giuditta e l’orecchio del diavolo non è una storia facile anche se è scritta per ragazzi.

Con un registro di facile comprensione Francesca D’Adamo sferza ventate di gelo a chi ancora non ha compreso che fare la cosa giusta non è affare ad appannaggio esclusivo degli eroi.

Giuditta e l'orecchio del diavolo

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Fare le scelte giuste non è difficile come sostiene qualcuno. È facile, perbacco, l’hanno capito anche i lupi!

La Colonia. L’inguaribile ferita di un popolo

La Colonia. L’inguaribile ferita di un popolo

L’identità di un popolo affonda le sue radici nella sua storia e nella propria lingua, attraverso un viaggio in un’isola nell’isola, La Colonia ci accompagna all’interno delle dinamiche subdole della violenza coloniale.

I pensieri che leggerete di seguito, cari viaggiatori, scaturiscono dalla comunione fra la lettura di questo libro e il bisogno di sfogare dei sentimenti che sono legati anche al mio popolo, seppur appartenente ad una diversa isola; con una diversa storia, ma con lo stesso bisogno di essere riconosciuto.

Riconoscersi nella vita isolana non è una passeggiata, o meglio lo è per chi ha solo l’esigenza di spalmarsi la crema solare e di raggiungere la prima spiaggia affollata da altri turisti.

La vita quotidiana sull’isola è ben altra cosa, i giorni trascorrono nel tentativo di sopravvivere mentalmente alla monotonia di confini fin troppo calpestati.

Lo sguardo dei più giovani si stanca nel vedere all’orizzonte soltanto mare sconfinato.

La ricerca del nuovo, dell’illusoria modernità, li trascina spesso verso nuove scoperte.

L’importante è non dimenticare dove è stato piantato il seme e dove risiede la radice della storia del proprio popolo.

Il mare ruba ogni anno un pezzetto di costa e i voraci visitatori con la pretesa di uniformare il mondo, rubano pezzi di identità.

C’è molta rabbia nelle mie parole, lo so, ma l’isola , nel mio caso quella in cui vivo, è il grido acuto di dolore storico e contemporaneamente è il canto d’amore eterno.

L’isola non perdona, ma dà sempre un’altra possibilità.

Ho stretto spesso i denti mentre leggevo le pagine de La Colonia, c’è dentro tanta ricerca e voglia di raccontare la silenziosa e millenaria lotta di un popolo che vive accontentandosi di ricordare, finché si può, finché almeno le parole rimangono intatte come quelle antiche.

Parole tramandate, a volte solo sussurrate, per paura di venire additati come appartenenti a quella “specie” che ormai è quasi in via di estinzione, che è stata domata pian piano, a volte con il bastone e le bombe, altre volte con le leggi.

No, domata mai, ma smussata e depredata.

Dentro il cuore si insinua il bisogno di stare nell’ombra e ci si capisce soltanto con uno sguardo.

Perennemente in difesa per custodirsi dai predatori.

Irlanda come Sardegna, fa male al cuore.

Arrivano in tanti come moderni Lloyd, alla ricerca dell’emozione e dell’avventura ma solo a certe condizioni.

A volte vogliono solo immortalare la magia di certi tramonti, altre volte il tramonto lo vogliono proprio portare a casa e mettere in bella vista sul mobile all’entrata.

Altre volte sono alla ricerca dell’esperienza mistica, ripassando storia e leggende dell’isola in un opuscolo turistico e hanno la pretesa di spiegarci cosa è meglio.

Quando ci si preoccupa di chiedere agli abitanti dell’isola come la pensano?
Quando si ha il tempo di stare ad ascoltare invece che pretendere risposte?

Audrey Magee ne La Colonia pone silenziosamente tutte queste domande.

Un racconto per chi non ha bisogno di colpi di scena , ma preferisce immergersi nella vita di una piccola isola del nord Irlanda, quasi completamente spopolata, che può offrire soltanto autenticità.

Masson le accarezzò la mano per incoraggiarla a proseguire:

” Gli uomini dell’isola pescano ancora, ma le donne e i bambini non scendono più a riva,

non raccolgono più niente,ed è un gran peccato, mi rende molto triste, perché laggiù c’è moltissimo cibo,

tanto buono tra le alghe e i molluschi che possono difenderci dalle malattie.

Una narrazione malinconica e indimenticabile, un sapore amaro che porto dentro da sempre e che ritrovo in queste pagine.

L’autrice, finalista al Women’s Prize for Fiction, al Festival du Premier Roman e all’Irish Book Award con “Quando tutto sarà finito” è stata anche finalista la Booker Prize con La Colonia.

La storia che si svolge ad un ritmo tutto suo nella piccola isola, viene intervallata da fatti di cronaca molto pesanti che riportano l’attenzione sugli attacchi terroristici e sulle continue lotte che insanguinano l’Irlanda.

Uno schiaffo ad ogni capitolo che rompe l’apparente, ribadisco soltanto apparente, immobilità dell’isola.

Un capolavoro di consapevolezza.

La Colonia

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Tà mé anseo anois.

Lloyd si vestì.

Che cosa significa?

Sono qui adesso.

Sì, sei qui.

Piccole cose da nulla

Piccole cose da nulla

Buongiorno viaggiatori oggi vi parlo di Piccole cose da nulla, una storia breve ma intensa e straordinaria.

Questo libro mi è stato regalato da mio marito a Natale, ci ho messo qualche mese per riuscire a scrivere questa recensione perché, nonostante le poche pagine, è stato in grado di raggiungere subito il mio cuore.

Il protagonista di Piccole cose da nulla è Bill Furlong, un commerciante di carbone e legname.

A scuola, Furlong veniva regolarmente schernito e preso a male parole; una volta era rientrato col dietro del cappotto coperto di sputi, ma la sua relazione con la grande casa gli aveva dato un certo margine di sicurezza, e lo aveva protetto. Perciò era andato avanti a studiare, frequentando per un paio d’anni la scuola professionale prima di finire al deposito di carbone, a fare più o meno lo stesso lavoro degli uomini che ora erano sotto di lui, e aveva fatto strada. Aveva testa per gli affari, tutti lo consideravano una persona a posto e di cui ci si poteva fidare, perché aveva assorbito le buone abitudini protestanti;

Un brav’uomo che con gentilezza e rimboccandosi le maniche è riuscito a mandare avanti la famiglia.

Bill è cresciuto solo con la madre, il padre non lo ha mai conosciuto, nonostante questa mancanza ha sempre avuto rispetto per tutti, soprattutto per la madre verso cui nutre un forte istinto di protezione.

Furlog veniva dal niente. Meno di niente, avrebbe detto qualcuno. Sua madre era rimasta incinta a sedici anni mentre lavorava come domestica dalla signora Wilson, la vedova protestante che abitava nella grande casa padronale qualche chilometro fuori città. Quando venne fuori il pasticcio, e la famiglia chiarì che non avrebbe più avuto a che fare con lei, la signora Wilson invece di metterla alla porta, le disse che poteva rimanere a lavorare lì.

In queste pagine Bill racconta tante piccole cose del vivere quotidiano, le difficoltà, la sua vita con la famiglia e mette il lettore di fronte a tanti interrogativi.

Tante piccole cose da nulla che di piccolo non hanno poi molto.

Ciò che l’autrice scrive in queste pagine non lascia indifferenti. Dietro l’apparenza si nasconde qualcosa di inatteso e inimmaginabile.

Erano tempi duri, ma Furlong era più che mai deciso ad andare avanti a testa bassa, a stare al suo posto, a non alzare la cresta, a non far mancare niente alle figlie, a farle studiare finché non avessero completato la loro istruzione alla St Margaret, che in quella città era l’unica scuola femminile di un certo livello.

Mentre il paese si prepara a Natale, Bill si trova davanti a qualcosa che forse avrebbe preferito non sapere.

Ed è qui che inizia a domandarsi se continuare a far finta di non sapere oppure a prendere posizione.

All’apparenza può sembrare un racconto normale ma, andando avanti nella lettura, scoprirete che, in piccole cose da nulla, si nasconde una storia in grado di cambiare il nostro modo di vedere le cose e soprattutto di pensare.

Un libro che mette al centro in modo semplice cose importanti come la giustizia e la dignità che non devono mai mancare.

Il mondo è un posto pericoloso, non solo a causa di quelli che compiono brutte azioni, ma per quelli che osservano senza far nulla.

Claire Keegan nasce come scrittrice di racconti.

Piccole cose da nulla è un racconto lungo, un romanzo breve che merita di essere letto per la sua potenza.

L’Irlanda degli anni ottanta fa da sfondo a questa storia, l’ambientazione di campagna ci mette in contatto con il valore delle piccole cose, ma non solo…

Una fiaba alternativa, ricca di descrizioni che nascondono storie difficili, soprattutto riguardo il mondo femminile.

Durante la lettura ho avuto la sensazione che sotto la neve di questo paese si nascondesse un qualcosa che forse l’autrice ha cercato di rendere più soft grazie al candore e alla magia del Natale.

Un romanzo che mi ha piacevolmente stupita e che consiglio di leggere anche se lontani dal Natale, periodo scelto dalla casa editrice per la pubblicazione.

Se volete leggere la trama, cliccate qui.

Ma la gente diceva un sacco di cose, e una buona metà di quelle voci non era credibile: in città non erano mai mancati quelli che non avevano niente da fare, a parte pettegolare dalla mattina alla sera.

Nemmeno Furlong era portato a credere a certe storie, anche solo parzialmente, ma una sera era andato al convento con un carico di carbone molto prima dell’ora di consegna prevista e…