Ritornata in possesso di un minimo tempo per le mie amate letture, ho deciso di iniziare con un libro uscito l’anno scorso per Einaudi:La stagione delle Erinni di De Bellis e Fiorillo.
Ho cominciato con un romanzo storico, ho iniziato con Roma alle prese con Sertorio e Spartaco.
Ho avuto paura.
Tanta paura che il libro si adagiasse sulla solita linea temporale con coinvolge i soliti ignoti e ne facesse una poltiglia di Storia macilenta trita e ritrita.
È invece…
Invece mi sono dovuta ricredere.
Sì, perché pur sfoggiando tra i protagonisti gente di rispettoso lignaggio e nomi altisonanti nella Storia, i due autori hanno creato una storia priva di puzza sotto al naso e tracotante arroganza letteraria e storica.
La Stagione delle Erinni meriterebbe, secondo il mio modesto avviso, anche solo perché non ha fatto diventare un’Erinni me.
Questo duo letterario, già autore de Il diritto dei Lupi (che personalmente non ho ancora avuto il piacere di leggere), ci presenta un Urbe vittima del deterioramento della Repubblica di Roma.
Una Repubblica che non si riconosce più, una Repubblica che non esiste più e, forse, si vocifera nelle strade, non è mai nemmeno davvero esistita.
La stagione delle Erinni è una “Spy-story”.
Sertorio in Hispania ha messo in ginocchio la potenza di Roma, umiliandola più che annientandola, ma è successo qualcosa ceh ha incrinato la sua lucidità.
Qualcosa gli ha forzato la mano e i suoi stessi seguaci gli stanno voltando le spalle. L’ex generale non ha più scelta oltre a quella di donarsi la morte.
A Roma, lo stimato Lucio Valerio Flacco Poplicola è deceduto lasciando la giovane Plauzia Nevia Capella minore vedova anzitempo.
Il padre della giovane è sul piede di guerra: la famiglia del defunto genero, i Valeri, non vuol permettergli di venire possesso dell’eredità che il compianto ha tramandato alla sua giovane sposa.
Come dar torto ai Valeri e a Quinto Nevio Capella (il padre di Plauzia): si sta parlando di Venti milioni e mezzo di sesterzi.
Un’eredità di tutto rispetto quella di Plauzia.
Venti miioni di sesterzi… e mezzo.
Per dimostrare la legittimità del lascito, Capella decide di interpellare uno dei principi del Foro: Marco Tullio Cicerone.
Non sembra affatto una cosa facile, derimere questa storia del testamento, soprattutto se i Valeri di mettono di traverso.
Cicerone è alquanto dubbioso sul da farsi ma altri nomi della Repubblica romana stanno per entrare in ballo.
Vi dice nulla il nome Marco Licinio Crasso?
La stagione delle Erinni sta per iniziare perché se c’è, a Roma, qualcuno che proprio non si deve aver tra i propri nemici è Crasso.
Questa è una spy story.
È un fattaccio intricato perché tutti quelli che hanno a che fare con quel testamento muoiono tra atroci sofferenze…
Ma, scusate se mi ripeto, la posta in ballo sono VENTI MILIONI DI SESTERZI… E MEZZO.
La stagione delle Erinni mi è piaciuto?
Scritto bene e per più di metà libro riesce a sviare l’attenzione del lettore da uno scenario all’altro, da un protagonista all’altro tanto che si potrebbe pensare che i fatti, il più delle volte siano talmente scollegati.
Ma come direbbe qualcuno: le coincidenze non esistono.
Verso la fine, proprio quando i nodi iniziano a venire al pettine, il ritmo smette di essere serrato. Più i protagonisti braccano il nemico più la furia delle Erinni sembra farsi fiacca.
Ma ho passato del tempo piacevole con questo libro che affronta la piazza di Roma senza tritare le storie dei soliti ignoti dell’urbe che è sulla soglia di un cambio di Regime.
Abbiamo Sertorio ma è solo sullo sfondo,
Abbiamo Crasso che non è protagonista come lui vorrebbe, questo lo fa arrabbiare ma a noi non interessa;
C’è anche Messalla ma non siete costretti a parlarci.
Cicerone è diverso dall’oratore che sono abituata a conoscere ma si difende e combatte come sua consuetudine per i suoi ideali.
Dovete leggere La stagione delle Erinni, ve lo consiglio per una lettura piacevole e di buona compagnia.
Volete conosce la Trama de La stagione delle Erinni? Cliccate sulla parola LINK
“Soffocare un sogno in mezzo a sette meledettissimi colli! A questo è ridotta la visione di Mario? Roma è ovunque, il fuoco di Vesta può illuminare l’hispania come l’Italia, l’Africa, la Grecia e il buio ai margini del mondo. Ma voi no vedete al di là del Pomerio! La Roma che immaginate è un mostro annidato nelle vostre anime dai contorni troppo ristretti.”
Ci voleva una giornata di pioggia per inchiodarmi ad una sedia e scrivere, a volte si fa di tutto pur di sfuggire dalle proprie emozioni, oggi però le gocce d’acqua possono camuffare le lacrime e consentirmi di liberare questo torrente in piena: L’equilibrio delle lucciole. Non ho cercato questo libro, forse lui ha scovato me. Nascosta fra mondi di possibilità ho visto lucciole danzare e universi nascosti fra i rami della vita. L’ho preso senza nemmeno pensare, a volte l’istinto sa essere un buon maestro.
Questo libro non può essere valutato con stelline o apprezzamenti, non valgono le parole perché non sono sufficienti.
Ogni parola scritta è cura e tormento, ricordo e risveglio. Non tocca soltanto la pelle, va più in profondità. Arriva fino ai nervi, li tende e li riscalda, li fa fuoriuscire dal corpo fino a renderli radici consapevoli della nostra vita.
Sono le parole a custodirci: le parole custodi. Tocca averne cura e possono riportare in vita l’essenza di chi le ha pronunciate:
è un travaso importante la memoria delle parole.
Non è stato facile, ho centellinato le pagine facendole diventare rito. Mattino, mi nascondo al mondo respirando la campagna, libero dal guinzaglio i miei fedeli amici e apro la porta. Nella casetta invasa dalle foglie lascio andare i muscoli al profumo del mosto. Mi abbandono su una sedia sgangherata e mi prometto che saranno solo dieci pagine, non di più. Poi finisco col rubarne ancora qualcuna perché il respiro del paesino di montagna somiglia a quello del mio fra le colline. Sempre più stanco, sempre più curvo.
Eppure ci sono profumi di fioriture e di emozioni a cui troppo spesso non ho fatto attenzione. Me ne rammarico, ingoiando una lacrima .
Le lucciole stanno sparendo dicono tutti, forse siamo noi che non le sappiamo più osservare. Forse si sono nascoste fra le crepe dei muri scrostati o nelle cantine delle case abbandonate e creano in silenzio la rete della vita. Una rete che sembra quella di un ragno, sottile, trasparente ma perfetta, ti accorgi che esiste solo se la guardi in controluce o se ti sfiora la faccia. Quella rete è il respiro dei piccoli paesi, delle piccole vite che sono piccole luci ancora in grado di indicare il vero senso della vita. Siamo esseri di natura, siamo talmente connessi a lei che spesso la diamo per scontato. Come l’amore di una madre che si pensa di possedere per diritto.
Valeria Tron tocca le corde di questa ragnatela, lo fa con tocchi delicati e pare quasi che abbia la capacità di sciogliere i nodi della vita solamente raccontandoli. Almeno così è stato per me.
L’equilibrio delle lucciole ha bloccato il tempo nel paesino di montagna e nel mio contemporaneamente, lo ha bloccato nell’istante in cui ho aperto la porta della mia casetta in campagna, e lì io sono rimasta con tutta l’anima.
Ogni vita ha stretta alla cintura una giostra di corde tese verso le case e,
in ognuna, una strofa da sommare alle altre,
così da trasformare le esistenze in un canone da riprendere al tempo giusto.
Alle foglie secche e al vento che taglia ho fatto una promessa: avrei ripreso a parlare di emozioni anche nei libri, avrei ripreso a respirare rispettando il ritmo dei miei polmoni. Se vi aspettate dettagli de L’equilibrio delle lucciole allora andate da un’altra parte, io ho scelto di parlare di questo libro attraverso me. Sono ancora incastrata fra vite di persone che mi si sono materializzate davanti. Strappata fra Ade e Nanà, fra disillusione e piccoli gesti che costruiscono la vita. Eppure sono innamorata, piena dell’ebrezza di questo sentimento che riempie le fronde degli alberi, e le fa danzare all’unisono.
Ti auguro di trovare un’anima così piena d’amore che sappia risuonare ovunque tu sia e riportarti a casa,
verso le sue braccia, a dorso di promessa. So che è possibile solamente se avrai a cuore l’attesa. Tanto la vita è inspiegabile pure sulle altitudini e imprevedibile a ogni nebbia.
Sono io e sono loro, e per la prima volta sento fra le pagine una realtà tanto vicina da poterla accarezzare. Mi sono fatta formichina e fascina di legna, sciolta dentro una tisana calda e incastrata fra un pettinino e gli occhiali Neve. Sono loro, eppure è il mio mondo, ed è il mondo di chi ha la fortuna di vivere fra i calcinacci di un luogo antico, vivendo nell’inconsapevolezza di essere quella trave che ancora tiene il tetto. Fondamenta di un mondo semplice fatto di frutta matura e legna da ardere, fatto di lotta alle disgrazie e di spalle a cui sostenersi per andare avanti. Ade e Nanà chiudono le imposte perché si è fatta sera e io grido disperata perché non voglio che cali la notte sulle loro storie. Oscillo pericolosamente, in equilibrio su un filo che si sta staccando, lanciandomi inesorabilmente dentro il limbo di una quotidianità che non mi appartiene, costringendomi a rumori e parole a cui non sono pronta, non oggi. Nanà, Ade e le lucciole mi sorreggono, mi fanno scaldare vicino alla stufa. So che Nanà sta creando una sciarpa anche per me e che Ade sta preparando un nuovo disegno, forse sarò così fortunata da diventare il chiodo che sorregge il quadro che diverrà.
C’è un segreto enorme nelle piccole cose che fanno sopravvivere. C’è la vita stessa, quella che non sconvolge il mondo ma lo accarezza. Vita che non invade con prepotenza, ma illumina delicatamente con la luce fioca di una candela, con la delicata luce di una lucciola sopravvissuta.
C’è un silenzio integrale, nemmeno il gocciolare di una grondaia,
che qui son tutte malconce e perdono come rubinetti.
Nulla, solo il vapore del fiato che mi precede di mezzo passo.
Sono la prima a scendere in fondo alla borgata da un bel po’ di tempo;
nessuna orma, se non qualcuna di uccello sui davanzali.
Di fianco alle stalle le pietre hanno scordato il profumo del letame.
Gli scarponi sprofondano.
I muri calamitano la bufera, e così fanno i vetri e tutto, impastando i colori in un malinconico grigio.
Grazie per aver scritto questo libro, grazie per ogni dolorosa parola. Per aver saputo dare equilibrio alla follia della vita. Io resto qui ancora un po’ e qualcosa di me ci rimarrà per sempre. Chiudo la porta a chiave, piove forte ancora, richiamo i miei amici fedeli e torno a malincuore alla macchina. Prima però osservo le mie mani, sono capaci, così come la mia testa, di ritrovare il tempo e il modo giusto per vivere nella pace del cuore, dove il lavoro della terra non spaventa e i petali dei fiori disegnano pensieri. Sbatto le ciglia umide, tornerò presto con un nuovo libro nel petto ed una nuova storia, ad evocare anime ed emozioni, ma per ora voglio stare a casa di Nanà ad osservare la prima neve.
Accade spesso nella storia che le dinamiche familiari si intreccino saldamente alla politica e al futuro di un popolo, in questo caso la famiglia in questione è quella dei Medici nel romanzo di Carla Maria Russo: La figlia più amata.
Un nuovo punto di vista, non più i soliti racconti di battaglie e lotte di potere. Carla Maria Russo ci accompagna nel Gran Ducato di Toscana mettendo in luce aspetti meno conosciuti delle corti nel 500. La famiglia Medici, a partire da Cosimo I è il cuore del racconto. Un uomo che per amore delle proprie figlie ha osato sfidare le rigide convenzioni del tempo. Normalmente ci si dovrebbe aspettare un padre attento allo sviluppo e alla formazione dei suoi figli maschi, in particolar modo del futuro erede della casata; invece Cosimo preferisce coltivare l’amore profondo per le proprie figlie. Bia è la prima, nata fuori dal matrimonio a soli diciassette anni.
“Figlio mio, suvvia,
comportatevi in modo assennato e lasciate la bambina alla cura delle balie.
Siete un duca, adesso prima che un padre.
E a un duca si addice un certo distacco, non manifestazioni di affetto così esplicite.
Fosse un maschio capirei. Ma è solo una bambina…”
Solo una bambina, queste parole racchiudono l’importanza che all’epoca veniva data al sesso femminile.
Un impedimento quasi o uno strumento da poter maritare per creare nuovi intrecci fra casate importanti. Cosimo invece le amava e le viziava oltre ogni modo e oltre ogni regola. Era il figlio del famoso e conosciutissimo Giovanni dalle Bande Nere, uomo tanto famoso quanto assente; proprio l’assenza del padre e, per contro, la totale e incondizionata presenza della madre, sono stati i pilastri della sua vita, condizionando inevitabilmente le sue scelte future.
A partire da Cosimo I, Carla Maria Russo in La figlia più bella, ci accompagna a conoscere tutti i suoi discendenti, i loro ruoli nella famiglia Medici e nella politica del tempo.
Una storia fatta di intrighi pericolosi ma anche di grande tenerezza. La capacità dell’autrice di entrare nella vita dei personaggi del romanzo è straordinaria. La caratterizzazione dei personaggi, in particolar modo delle donne del romanzo è talmente splendida da avere la sensazione di poter udire il frusciare delle stoffe preziosamente ricamate, i profumi delle cucine e del giardino, il palpitare dei loro cuori per le speranze e i sogni coltivati in segreto. Isabella è scaltra, ribelle e bellissima, e tutte le libertà che si prende sono dovute al fatto che è la preferita di Cosimo, il quale è completamente inebriato dall’amore che prova per questa figlia e alla quale non riesce a negare niente. Proprio per questo motivo Isabella potrà prendere decisioni che le consentiranno di ampliare le proprie passioni. Libertà che non sono concesse alle giovani donne da maritare dell’epoca, neppure se di buona famiglia.
In la figlia più amata gli agi e le libertà di Isabella sono anche il pretesto per mettere in luce le condizioni delle donne del 500.
Era normale considerarle solamente merce di scambio per matrimoni strategici, il più delle volte costituivano solamente un peso da rinchiudere quanto prima in un convento.
Ogni eccesso non consentito veniva duramente punito. Le donne venivano cresciute, o meglio plasmate in funzione del giorno in cui sarebbero divenute merce per rinsaldare i rapporti fra famiglie o ingrassare le casse di qualche signore. Le bambine venivano educate e illuse che dopo il matrimonio, avrebbero potuto guadagnare importanza, onore e libertà. Troppo spesso invece si ritrovavano nuovamente prigioniere, costrette ad accondiscendere ai voleri di un marito sconosciuto e a partorire quanti più figli possibile per il prestigio delle famiglie. E’ proprio il punto di vista femminile, raccontato con delicate sfumature de La figlia più amata che mi ha lasciato piacevolmente. Voler raccontare da una posizione scomoda, di personaggi troppo spesso dimenticati, in maniera così precisa e profonda rende, a mio parere questo romanzo qualcosa in più di un romanzo storico. Carla Maria Russo lo trasforma in un romanzo di riappropriazione (finalmente) della storia delle donne de Medici e, in un’ottica più ampia, delle donne nobili del 500.
“Spero che ti fidanzino quanto prima. Non vedo l’ora.
Così te ne andrai e non metterai più piede in questa casa”
oppure
“Quand’è che concludono un accordo matrimoniale per te e sparisci per sempre?
Prego solo che sia con uno molto lontano da qui…Un nobile tedesco, magari”
dice Francesco tutte le volte che si arrabbia con lei, ovvero sempre. “Chi ti dice che una volta sposata, me ne andrò via?” replica Isabella. “La legge: le donne abbandonano la casa del padre. Non sarai certo tu a fare eccezione.”
Non soltanto un romanzo di donne, ma anche uomini che sono andati contro le regole comuni per amore. Un ultimo pensiero va a Lucrezia, l’ultimo per colei che è stata l’ultima. La mancanza di bellezza all’epoca era già una garanzia per il convento e forse per lei sarebbe stata una soluzione di conforto. Lucrezia, che nella sua famiglia di conforto e sostegno non ne ha mai avuto. Un’ombra sempre più eterea e invisibile in una famiglia in cui l’opulenza e il bisogno di mostrare e mostrarsi erano fondamentali per assicurarsi sostegno.
Un piccolo petalo in un cespuglio di rovi. Un personaggio che mi ha profondamente commossa.
Debolezze e dolore, paure e intrighi si intrecciano nelle vite dei Medici insieme ad un destino inesorabile che arriverà a distruggere persino le fondamenta di questa nobile, grande casata.
Buongiorno viaggiatori, oggi vi parlo di Ritorno a Trelawney di Hannah Rothschild edito Neri pozza.
Avete già letto Casa Trelawney ? Vi consiglio di recuperarlo prima di leggere Ritorno a Trelawney.
Infatti cercherò di farvi un breve riepilogo per farvi comprendere meglio le vicende di quella che mi azzardo a definire un romanzo familiare.
Casa Trelawney è ambientato in Cornovaglia nel 2008, racconta tutto ciò che è accaduto in questa dimora di 800 anni che ormai sta cadendo a pezzi.
Tenere in buono stato una casa tanto grande non è semplice, soprattutto se negli anni le varie generazioni dei Trelawney hanno dilapidato il patrimonio.
E ora il conte di Trelawney deve cercare in tutti i modi di salvare il futuro del castello.
Naturalmente si presenteranno numerosi ostacoli, a partire dall’arrivo di una lettera che porterà scompiglio in questa famiglia davvero bizzarra.
Riusciranno a cavarsela? Riuscirà la nuova arrivata a casa Trelawney a riportare ordine?
Devo dire che ho molto apprezzato la figura di Jane, moglie del conte di Trelawney, soprattutto il suo cambiamento e il suo processo di emancipazione.
Ma veniamo a Ritorno a Trelawney il romanzo protagonista di questa recensione.
Ayesha Sleet, figlia illegittima del conte di Trelawney , eredita il castello e questo mette in subbuglio la famiglia Trelawney che possiamo definire molto singolare.
Ma il marito la inganna e con qualche firma le sottrae ciò che le appartiene lasciandola in cattive acque.
Sono tanti i personaggi di questo romanzo e parlare di tutti non è semplice, soprattutto perché, trattandosi di una storia familiare, il rischio spoiler è alto.
Naturalmente Ayesha non resterà a guardare mentre il marito prova a distruggere il suo futuro e quello di sua figlia.
Non mancano le tematiche attuali e importanti che riguardano la società britannica e che vengono affrontate senza risultare pesanti, inserite all’interno delle vicende dei vari personaggi in modo perfetto.
Non avevo mai letto nulla di Hannah Rothschild e devo ammettere che dopo aver divorato tutto d’un fiato i romanzi dedicati a Casa Trelawney cercherò di recuperare anche “L’improbabilità dell’amore”, pubblicato sempre da Neri Pozza.
Lo stile di scrittura dell’autrice mi ha conquistata! Ironico, pungente, in grado di travolgere con i numerosi protagonisti bizzarri che donano colore e portano allegria. Mi è mancato da parte dell’autrice un albero genealogico che mi aiutasse a orientarmi meglio in questa selva di nomi e parentele vissuti a casa Trelawney.
Cari lettori, abbiamo già viaggiato nel 1600, ma questa volta vi assicuro che farete fatica a staccarvi di dosso l’odore del sangue de Le streghe di Manningtree.
Ancora un romanzo che parla di streghe?
Ebbene si, non mi stancherò mai di leggere i racconti di altre sorelle che hanno dovuto lottare per un briciolo di libertà. Questo racconto in particolare però lascia un solco profondo nella pelle. Ho terminato la lettura da diversi giorni e soltanto ora mi sono imposta di scrivere, come se compiendo questo gesto lasciassi andare il profondo disagio nel quale mi aveva portato. Le parole non sono un semplice susseguirsi di lettere, se sono in grado si trascinarti dentro la pozza fetida delle manipolazioni degli uomini. Quando poi esse sono dirette magistralmente da una mano abile come quella di Blakemore, allora ammetto di essermi lasciata soggiogare con grande piacere, anche se l’incantesimo è stato uno dei peggiori incubi della storia dell’umanità.
Dai troppo ascolto ai pettegolezzi, coniglietto.
Strega è l’offesa che affibbiano a chiunque faccia succedere le cose,
a chiunque porti avanti una storia.
Non è stata soltanto una lettura, ma piuttosto un marchio a fuoco, una brutale presa di coscienza, una discesa nei meandri della crudeltà umana. Perché quando si parla di streghe si parla di donne, e quando si parla di inquisizione si parla di abuso efferato del potere maschile, col tentativo di circoscrivere la conoscenza e plasmare a proprio piacimento la volontà delle donne.
Sfruttate, povere e ignoranti, ecco le streghe di Manningtree .
Ovviamente stiamo parlando di una categoria ben specifica di donne. Se sono maritate, serve del proprio uomo e della chiesa, se non alzano mai il capo, se non mostrano un lembo di pelle e non sono minimamente curiose e intraprendenti, allora potrebbero passare indenni allo sguardo torvo e attento dell’inquisitore.
Ma diciamola tutta, e in questo romanzo vi assicuro che la realtà non viene minimamente abbellita, sotto le mire degli inquisitori ci sono le donne a cui la vita non ha donato gli strumenti giusti per proteggersi. Vedove, orfane, povere e costrette ad arrangiarsi e a patire la fame.
Poi c’è il mistero, filo conduttore di questo romanzo. Quello che non lascia fuori il Demonio da nessuna pagina del libro. Il Demonio delle danze orgiastiche e dei sabba? Può darsi, niente lo esclude e le povere reiette sotto tortura lo ammettono, ma c’è un demonio senza zoccoli, vestito di rigore e saccenza, che al posto di forconi ha dita puntate e forche pronte ad accogliere corpi esili. Un demonio subdolo che si insinua nelle menti dei semplici, instillando diffidenza verso chi cammina nell’ombra, vergognandosi magari del proprio abito sudicio, o verso chi sorride apertamente, vittima di un corpo di donna in un cuore di bambina.
Sono loro la causa della carestia! sono le streghe di Manningtree!
Perché si è visto un gatto a macchie saltare alla vostra finestra
Perché i vostri piselli continuano a fiorire anche se sono stati devastati dai temporali?
Potremo trovarci in qualsiasi luogo del mondo e, a dirla tutta anche in qualsiasi tempo, vista la brutalità con cui ancora le donne vengono uccise, ma il romanzo è ambientato nella contea dell’Essex fra il 1644 e il 1647. I personaggi sono meravigliosi e le vicende del paese sono raccontate con una cura e un’attenzione tali da poter quasi camminare nelle vie maleodoranti. Persino il freddo pare penetrare la nostra pelle.
Non mi dilungherò a raccontare gli eventi, ma vorrei soffermarmi un secondo su un personaggio scomodo: la Beldam West. Ecco la strega, la donna che non si nasconde, che non maschera le emozioni con un sorriso ma che, con un ghigno sbeffeggiante si prende gioco di chiunque. Ecco la donna contro cui tutti punteranno il dito e contro i quali lei sputerà, temuta e odiata; splendidamente guerriera. La Beldam è l’emblema della donna che reagisce con tutte le sue forze perchè non accetta le imposizioni. E’ in grado però di amare visceralmente la figlia per la quale sarà pronta a tutto.
Poiché non hai servito l’Eterno, il tuo Dio,
con gioia e allegrezza di cuore per l’abbondanza in ogni cosa,
servirai i tuoi nemici che l’Eterno manderà contro di te,
in mezzo alla fame, alla sete,alla nudità e alla mancanza di ogni cosa;
ed egli metterà un giogo di ferro sul tuo collo, finché non ti abbia distrutto.
E se per caso vorrete proteggere le vostre anime raccontandovi che è solo un romanzo, sappiate che i fatti sulle streghe di Manningtree sono tratti da una storia veramente accaduta e che l’autrice ha fatto numerose ricerche prima di scrivere questo libro. Non vi consiglio soltanto di leggerlo, ma di viverlo.
Ringrazio la casa editrice Fazi per avermi dato la possibilità di leggere questo libro in anteprima.
Buongiorno viaggiatori, oggi vi voglio parlare di “Elisabetta di York. L’ultima rosa bianca.” di Alison Weir, edito Neri Pozza.
Elisabetta di York è nata nel 1466 a Westminster, figlia primogenita di Edoardo IV ed Elisabetta Woodville.
In quel periodo l’ Inghilterra era nel mezzo della guerra delle due rose, che vedeva appunto protagonisti i due rami della casa regnante: Lancaster e York.
La storia, nel romanzo di Alison Weir, si apre con il racconto della fuga di Elisabetta di York all’età di quattro anni, che insieme a sua madre, alle sue due sorelle più piccole, sono costrette a cercare rifugio in un santuario.
« Sveglia, Bessy! Sveglia!»
Elisabetta si mosse, destata da quel sussurro che non le era familiare, Che cosa ci faceva lì sua madre, la regina? Perché la stava scrollando?
L’autrice, come sempre, è stata in grado di farmi entrare subito nella storia e da quel momento non sono più riuscita a staccarmi.
La storia è articolata in quattro parti, ma possiamo suddividerla in un prima e un dopo:
Tutta la prima parte descrive i primi quindici anni di Elisabetta di York, da quando è costretta alla fuga da bambina.
la seconda invece racchiude il periodo dopo la morte di suo padre Edoardo IV e tutti gli intrighi di corte e la lotta per il potere che ne consegue.
Sono sempre stata affascinata da quest’epoca e ammetto di aver letto con passione tutti i romanzi di Alison Weir.
Perché? Ritengo che sia una delle poche autrici capaci di scrivere romanzi storici fedeli alla storia.
Lo fa mettendo nelle mani dei lettori storie in grado di emozionare, esaltando non solo la parte storica ma anche il lato umano dei personaggi da lei descritti. Rende viva la storia.
Questa è una delle cose che più amo quando leggo i suoi romanzi.
Consiglio la lettura di ” Elisabetta di York. L’ultima rosa bianca.” ?
Devo ammettere che dopo aver letto tutti i suoi libri, non ho trovato in Elisabetta di York la perfezione che mi avrebbe portata verso una valutazione a pieni voti.
Le descrizioni in questo caso sono state, a mio modesto parere, leggermente soverchianti, rispetto alla narrazione principale dei fatti e dei protagonisti.
L’ho percepita come un piccolo disequilibrio che comunque ha intaccato poco la grandezza dell’opera che rimane comunque poderosa.
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