Il viaggio dentro la vita di una famiglia è sicuramente affascinante e al contempo estremamente pericoloso, vengono svelate delle intime quotidianità che a volte risultano essere la miccia in grado di innescare la distruzione della stessa: Con i denti.
Parlare di questo libro non è semplice, gli argomenti stessi di cui parla toccano delle parti vive dentro di me, portandomi a riflettere profondamente su dinamiche poco salutari che appartengono alla famiglia.
Kristen Arnett scrive un romanzo familiare spaventosamente amaro e crudelmente ironico.
Una famiglia composta da Sammie, Monika e il loro figlio Samson, tanto desiderato.
Ho avuto modo di leggere diversi racconti sulle dinamiche familiari di questi tempi, ma questo è diverso dagli altri.
All’inizio pensavo che la diversità fosse perché si parla di una famiglia queer, ma in realtà ciò che mi ha colpito maggiormente è il modo in cui la Arnett riesce magistralmente a parlare dei disagi della vita familiare.
il perbenismo che vuole la famiglia perfetta e felice crolla rovinosamente man mano che le pagine scorrono.
E’ difficile ritagliarsi momenti di vera intimità, è difficile sopportare la definizione di ruoli ben precisi, ma la realtà è che è difficile vivere la famiglia.
Con i denti parla in maniera diretta, non descrive la famigliola felice ma analizza attraverso le fragilità dei personaggi le problematiche che spesso portano alla rovina della stessa.
Facendo questo non fa altro che descrivere, anche se in maniera esacerbata, la famiglia reale.
Primo grande problema è la definizione di ruoli senza margine di elasticità.
Monika va a lavorare, è un avvocato di successo, è sempre elegante, ben vestita e rientra la sera stanca e con poca voglia di collaborare alla vita che si svolge fra le quattro mura di casa.
Sammie ha portato in grembo il figlio tanto desiderato da entrambe e ora si trova incastrata dentro un ruolo che ama, ma che riesce ad accettare solo parzialmente, poiché non le lascia spazio per nient’altro, nemmeno per se stessa.
Proprio quest’ultima si trova a fare i conti con il cambiamento del suo corpo e con gli sbalzi ormonali, con la sua fragilità e anche con l’accettazione di un figlio che le appartiene soltanto per metà.
E’ lei che soffre maggiormente la vita familiare ed è lei che, anche all’interno di una famiglia queer, porterà alla luce la fatica estenuante e la frustrazione che spesso una madre a tempo pieno si trova a vivere.
Sammie rilegge la stessa pagina del libro per giorni, questo ci fa rendere conto del suo grande affaticamento mentale, non riesce ad avere amiche e si ritrova spettatrice della sua stessa vita mentre la guarda trascorrere inesorabilmente.
E pian piano si rende conto che tutto le si sta sgretolando intorno.
Madre, donna delle pulizie, perennemente impegnata e sempre più lontana dal suo sogno di famiglia, ma decisa a lottare con le unghie e con i denti.
La repressione continua del proprio malessere non può durare a lungo.
Forse l’amore è sempre al confine con la violenza. Una prigione di solitudine, rabbia e silenzi.
Samson è un bambino singolare, ha un mondo tutto suo e delle dinamiche di socializzazione molto particolari.
Il libro si apre con una Sammie distratta ed estremamente affaticata e con un episodio che farebbe accapponare la pelle a qualsiasi genitore.
Un episodio che viene sminuito nel tempo, fin quasi a mettere in dubbio il fatto che sia realmente accaduto.
Questo particolare fa già comprendere quanto le preoccupazioni di Sammie vengano prese in considerazione.
L’adolescenza di Samson non rende la vita più semplice, anzi, il ragazzo inizia a comprendere alcune dinamiche della vita ed inizia a demolire sistematicamente le scelte delle madri.
Anche se ho preferito soffermarmi sulla descrizione di un personaggio in particolare che mi ha davvero colpita, ci tengo a dirvi che non ci sono vincitori in questo romanzo, semmai sono tutti prigionieri dello stesso vortice di dolore.
La scrittura sottile ed ironica, crudele e realista è il perno trainante di questo doloroso libro.
Un romanzo che fa aprire gli occhi sulle difficoltà di qualsiasi famiglia, uno spaccato di vita e di dura realtà.
Le donne che poco alla volta stavano riempiendo il locale erano tutte vestite come quella dietro al bancone…
E Dio quanto erano giovani. Così giovani che lei si sentiva invecchiare con il passare dei minuti, come se ad ogni secondo di orologio le spuntasse un nuovo capello bianco, o un’altra ruga, o i denti le ingiallissero fino a dientare color caramello.
Tra tutti i personaggi femminile della storia antica che nella mia vita da lettrice e da storica, ho conosciuto, lo ammetto: tutte mi aspettavo tranne la più improbabile di tutte. Antonella Prenner, per Rizzoli, pubblica Il canto di Messalina.
In fondo, perché no?
Perché la scandalosa imperatrice di Roma non dovrebbe aver voce, in questo periodo storico, in cui tutte le eroine delle leggende prendono voce per smascherare l’ingiusto trattamento che è stato riservato loro?
Figlia di Domizia Lepida, nipote della sorella di Augusto, e di Marco Valerio Messalla Barbato, Messalina è, se non la più famosa, una delle più famigerate matrone della casa imperiale.
Antonella Prenner, forse ha infiorettato la vita di questa giovine, ma ci restituisce una Valeria Messalina viva e ebbra di passioni.
Sapete, quando ho visto questa pubblicazione, mi aspettavo che la scrittrice mi avrebbe raccontato di una Valeria Messalina che le fonti avevano distorto, che mi avrebbe narrato un’imperatrice distrutta ingiustamente dalla tradizione che ne ha narrato le gesta.
Mi aspettavo un libro in cui non mi sarei riconosciuta come storica e che avrei storto il naso ben più di qualche volta.
Come è andata? Il canto di Messalina è un canone inverso, è una melodia dissonante e straziata.
Non sono così abile con le parole, probabilmente non riuscirò in poche righe a dirvi cosa c’è da sapere su questo personaggio ma farò quello che posso.
Valeria Messalina prende il suo nome dal padre, le ragazze del suo tempo non hanno la possibilità di ricevere un nome scelto tra milioni di possibilità.
A Roma le ragazze ereditano il nome della loro Gens paterna.
Le donne romane erano più libere delle donne greche, soprattutto quelle nate nelle famiglie più abbienti, ma non pensiate che potessero avere chissà quale margine di azione.
Non avrebbe mai potuto scegliere di sposarsi per amore, nemmeno se suo padre fosse stato vivo lo avrebbe permesso.
Era davvero molto giovane, per i canoni moderni lo sarebbe stata troppo.
Il canto di Messalina cosa vi mostra che ancora non sapete?
Suppongo che nell’immaginazione di tutti, Messalina sia quanto di più vicina ad una donna che si può definire poco virtuosa.
Famosa per i suoi complotti, per gli omicidi commissionati e per la libertà discinta nell’amministrare il suo corpo.
A suo confronto, le accuse degli storici mosse contro Livia Drusilla, Giulia e Agrippina maggiore sembrano delle reprimente per educande.
Messalina e il suo canto… non c’è giuria che possa assolverla, nemmeno al giorno d’oggi.
Il canto di Messalina, ve l’ho già detto: non è una melodia pastorale, non è un valzer.
La sindrome di Messalina è un fenomeno riconosciuto dalla psicologia e vi rimando alle pubblicazioni scientifiche per sapere di cosa si tratta ma posso dirvi che i nomi delle sindromi non spiegano la personalità della persona che dona loro l’appellativo.
Fatico a trovare le parole per questo libro che mi ha sorpreso. L’ho letto in due giorni e mi ha completamente stravolta.
Messalina NON è una vittima, l’imperatrice vive in una follia dissociativa.
È difficile accettare, per noi ma anche per le persone come Messalina, che ci sia qualcuno al mondo che non percepisce la realtà di quello che si percepisce e che si vede. Queste persone insistono di essere nella ragione e per chi sta loro attorno è un gioco al massacro.
L’atmosfera della lettura di questo spartito è dissonante.
Il canto di Messalina è la strozzata cacofonia di una musica che suona nelle orecchie di chi la canta in maniera differente di come arriva a chi la ascolta.
La danza di una menade che non ha visto finire il baccanale e ancora balla senza la musica ad accompagnarla.
Questa è una marcia di morte e la giovane Valeria Messalina non se ne accorse prima del barlume d’argento.
Vorrei che teneste a mente questo, perché nel libro è ben presente quest’atmosfera: Messalina cercherà di irretirvi alle sue ragioni ma, davanti a voi, è ben presente la realtà che lei sta distorcendo.
Potreste essere in accordo sul fatto che è stata data in sposa ad un uomo molto più anziano di lei e che lei non volesse.
Suo marito fu scelto dai suoi genitori su consiglio dell’imperatore, non è nulla di strano per quel tempo, ma Caligola non era una persona a cui si potesse dire di No.
Claudio non solo era anziano ma anche claudicante e balbuziente. Insomma, per una bellissima giovane quale era Messalina, non era quello che si dice un adone.
Roma, ahimè, non è governata da sentimenti o da favole ma da alleanze.
Chi ha mai avuto tra le mani l’Apolokyntosisdi Seneca ha un’idea di come lo zio di Caligola apparisse ai suoi detrattori.
Messalina ha molti spettri nella mente che si agitano convulsi: Valerio Messalla, Giulia e Agrippina Maggiore. La giovane imperatrice coltiva questi nomi come miti senza rendersi conto che le loro storie non sono la sua.
Messalina è arrogante, talmente da non comprendere. Non ascolta nessuno finché non sente quello che vuole lei.
Non vi confondete: Valeria Messalina NON è un eroina moderna.
Non ha bisogno di amore ma di assoggettare le volontà ai suoi capricci.
Si dice che nella gens giulio-claudia scorresse il gene della pazzia e forse è così ma…
Messalina canta alla sua cara luna una canzone non sente nessun altro.
Si è prefissa una missione che non aveva motivo di esistere, ha compiuto atti indicibili per il puro piacere di esercitare un potere che era il riflesso della luce di altri.
Lei guardava l’uomo che era stata costretta a sposare ma non vedeva Claudio.
Eternamente insoddisfatta per i motivi più volubili, tenterà di convincervi che il mondo è contro di lei.
Tenterà di essere la sirena che vi conduce nelle profondità del mare.
Non c’è davvero giuria che potrebbe assolverla. Non c’è coro che potrebbe assecondare la sua musica, nessuna Circe a comprendere i suoi incantesimi. Nemmeno Medea comprenderebbe la sua ira.
A differenza delle donne che Messalina prende ad esempio per giustificare la sua condotta, Livia Drusilla e Tiberio non avrebbe dovuto mandare nessuno a metterla a tacere: non c’è bisogno di far uccidere chi si distrugge da solo.
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Era felice perchè vedeva il suo proposito vicino, le mani sulla pelle di suo marito flaccida, pallida, fredda di morte, lo avrebbe accarezzato, trafitto da una spada o rosso di sangue ancora fresco, oppure livido al collo per il segno della corda, gli occhi sbarrati in cerca del respiro interrotto, e gli avrebbe dato un bacio sulle labbra esangui, l’ultimo, l’unico vero. Ma possibile che felicità significasse dare la morte?
Ostinati viaggiatori invernali, indomiti pionieri determinati a scoprire mondi anche nel periodo più rigido dell’anno, oggi vi accompagno nella Londra del 1843, dentro un racconto che parla del grande racconto di Natale : Il canto di mr. Dickens.
Non è facile entrare nel clima delle feste, almeno per me, occorre sempre un grande sforzo fisico e mentale.
Le luci mi abbagliano, così come l’eccessiva opulenza e il bisogno di trasformare un sentimento in un oggetto da donare. Tutto questo mi trascina dentro un vortice di disgusto dal quale sopravvivo solo grazie ad un sano distacco.
Allora mi trasformo nel vuoto, mentre tutto attorno a me si sforza di essere bello, luccicante e stucchevole.
Avevo bisogno di questo libro, di una lacrima sincera sotto le coperte, di un pensiero che mi accompagna fino al sonno e anche oltre.
Ho ritrovato un senso da dare a questo vortice confusionario grazie a Dickens e a Samantha Silva.
Ti sei rammollita Fra, mi sono detta più volte, ma la verità è che le atmosfere uggiose unite alle carrozze che sfrecciano nelle strade, il profumo del pane fresco e i bimbi che cercano di rubarne un pezzo, mi appartengono.
Ovviamente non ho duecento anni, ma il soffio di quei racconti eterni ed indimenticabili sono ricamati nel mio cuore di bambina e ancora oggi riescono a condizionare la mia visione del Natale.
Avevo tanti dubbi sulla scelta di questo libro e molta paura che la pretesa di voler raccontare la nascita di un capolavoro come A Christmas Carol fosse un’impresa troppo grande.
Invece Il canto di mr. Dickens mi ha saziato completamente ed immerso nell’unica atmosfera in cui avevo voglia di stare : la Londra umida e fangosa, quella dell’alta borghesia fatta di belletti e vizi, e quella di chi guarda da dietro le vetrine, sperando di riempire la pancia solo con sguardo, dei poveri signor nessuno affamati e senza voce.
Incontriamo un Dickens infelice e irrequieto, per niente pronto ad affrontare i bagordi natalizi.
Tante cose non vanno bene nella sua vita ed una sorta di inquietudine gli scorre sottopelle impedendogli di apprezzare le gioie che ha intorno. I preparativi a Devonshire Terrace fervono, i suoi figli hanno lunghe liste di regali, i parenti bussano alla sua porta in continuazione con richieste o proposte che lui non “dovrebbe proprio farsi scappare”.
Ogni anno la stessa messa in scena che si ripete, ma questa volta qualcosa non va, The Life and Adventures of Martin Chuzzlewit non sta vendendo bene; forse un racconto di Natale potrebbe risollevare le sorti e riportare Dickens alla gloria che ora pare perduta, almeno così suggeriscono i suoi affamati editori.
Per un animo irrequieto come lui però, non è possibile affrontare un nuovo racconto senza prima scavare dentro la sua vita e ritornare nuovamente a credere.
Dickens conosceva benissimo quel trucco , ma sorrise ugualmente,
e non perché fosse eseguito con particolare maestria
– anzi, vi aveva colto una certa goffaggine-
ma per la verità di fondo di ogni spettacolo di magia, di ogni storia inventata, di ogni bugia:
il nostro grande bisogno di credere.
Per poter ritornare a credere in se stesso egli dovrà ripercorrere alcune tappe fondamentali della sua vita per risanarne le ferite e cercare di conservarne il più prezioso dei ricordi.
Eleanor Lovejoy, col suo mantello viola e il viso bianco e luminoso , lo accompagnerà nel suo cammino, con parole delicate ma mai illusorie gli donerà un nuovo sguardo su quel mondo che ora gli appare tanto superficiale.
Lovejoy, un cognome emblematico quanto tutti i personaggi di Dickens, Eleanor silenziosa come i primi fiocchi di neve gli farà aprire gli occhi verso il suo passato e lo preparerà al Natale presente.
“Che male potrà mai fare un fantasma?”
aveva chiesto lei, proprio in quella stanza.
Ma non si trattava affatto di una domanda.
Quella era la risposta.
I fantasmi ne Il canto di mr. Dickens hanno molti volti, si celano nelle sofferenze dell’infanzia, nella continua paura che le persone abbiano verso di lui sempre lo stesso scopo, si nascondono nei suoi stessi limiti e saranno proprio loro a suggerirgli il racconto .
“Alla fine credo davvero che il Natale inizi nel cuore”
La riscoperta del vero senso del Natale potrebbe apparire qualcosa di scontato, ma a me è sembrata una nuova scoperta, una rilettura con nuovi occhi :
Il grande dono del Natale è l’amore, ma per poterlo ricevere occorre saperlo donare.
Voglio ricordare un’ultima volta gli occhi del piccolo Timoty e la sua manina tesa per prendere quella di Dickens e continuare a credere nelle possibilità della vita, un’immagine che conserverò illibata dalla frenesia dei giorni che stanno per arrivare, in quell’angolo di cuore che desidera solo ispirazione e silenzio. Buon Natale, qualunque cosa significhi per voi.
Ogni lettura per me è diversa. Alcune volte la mia attenzione si impiglia, viene trascinata dalle maglie della storia e la passione per la narrazione aumenta fio a che non mi trovo completamente travolta dalla storia. Questa volta la storia mi ha travolta ma non nella maniera consueta: Le Lupe di Pompei di Elodie Harper, edito per Fazi nel 2022, è stata più una catena che mi ha immobilizzata e mi sono accorta di cosa succedeva solo quando mi sono sentita soffocare.
Questo libro è solo il primo di quella che si preannuncia una trilogia davvero interessante.
Lo ammetto con i lettori, questo libro mi è finito tra le mani perché mi aspettavo una storia interessante ma leggera.
La copertina non fa pensare ad un libro frivolo ma dona al colpo d’occhio un tocco seducente che permette di acquistare questa storia per poi svegliare il lettore con tutta calma, giusto un passo dopo aver varcato la soglia del Lupanare.
Quasi tutti sanno che i Lupanari nella società romana erano i postriboli in cui le donne svolgevano il mestiere di prostitute.
Ma, oltre ad immaginare l’ovvietà della condizione di queste donne (non che non ci fossero degli uomini) schiave e prigioniere, vi siete mai soffermati a pensare che queste fossero delle vite appartenenti ad esseri umani?
Sembra una domanda scontata o una critica ma non vuole esserlo. Si sorvola sempre sulle vite delle persone che vissero molti secoli prima di noi, non ci si chiede mai come fosse essere loro.
La vita di una schiava o di uno schiavo, per la maggior parte di loro, era dura. Stenti e fatica erano all’ordine del giorno e della notte e solo qualcuno trovava un padrone giusto, di questi ultimi solo una parte finiva di riacquistare la propria libertà.
Ne Le lupe di Pompei riacquistare la propria libertà è per lo più un miraggio.
Questo è un libro sulle umili della storia.
Il libro è ambientato a Pompei solo qualche anno prima della grande eruzione e non molti anni dopo un grande terremoto che sconvolse la regione partenopea e non solo.
Elodie Harper ha ricostruito una Pompei viva, una pittura molto più che vivida di una cittadina che era un crocevia di genti e molte etnie diverse.
Ha dipinto il mondo degli schiavi in modo che ne Le lupe di Pompei il lettore potesse sentire le catene e potesse finire strozzato da queste.
Le vite narrate sono cinque, ognuna delle ragazze fa i conti con la vita come meglio riesce.
Delle cinque è Amara quella che il lettore segue più da vicino ma attraverso lei e alla sua presa di consapevolezza del mondo in cui vive, si capisce che nemmeno il punto di vista più vicino è sempre abile nel capire quello che lo circonda.
All’inizio della lettura non capivo se il libro mi piacesse. Le lupe di Pompei non si è fatto amare subito, mi sono affidata alla fine ricerca storica dell’autrice e ho deciso di prendere per mano la sua protagonista per capire cosa ci fosse che non riuscivo a capire.
Sapete cosa stava succedendo? Le lupe di Pompei mi stava mostrando delle realtà che il mio cervello non stava accettando.
Mi sono data della sciocca da sola, in fondo sono un’archeologa e conosco i luoghi. Quello che non mettevo a fuoco e che conosco i luoghi, conosco il loro uso e liquidavo come quello che succedeva al suo interno come la conseguenza di un dato di fatto.
Il cinema e la letteratura ci hanno più volte detto cosa capitava alle prigioniere di guerra, alle indigenti. Io stessa ho parlato delle donne di Troia nella mia ultima recensione su Il pianto delle troiane, eppure ho dimenticato.
Ho dimenticato che non solo le protagoniste di una storia famosa come la guerra di Troia hanno avuto un epilogo tragico ma è anche la sorte di altre protagoniste di “guerre” molto più piccole e non cantate dalla storia.
Le lupe di Pompei erano donne con un’anima esattamente come la mia e le vostre e si sono guadagnate il diritto di raccontare la loro storia.
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Non so dove vi porterà questo viaggio, sicuramente in un luogo oscuro verso il quale difficilmente rivolgiamo lo sguardo, preparatevi ad un viaggio molto pericoloso, preparatevi a Baci all’inferno.
Madre, figlia; madre, figlio. Emozioni. Due racconti e una pala per scavare a fondo, oltre i pensieri più inconfessabili, oltre la morbosità più oscena. Non basterà la pala, dovrete usare le unghie e continuare a grattare dentro corpi stanchi.
Mi è piaciuto Baci all’inferno? L’ho amato e l’ho odiato e ho avuto mal di stomaco.
Mi sono ritrovata spesso a chiudere il libro a causa del persistente senso di nausea, ma in realtà non ho mai lasciato quelle righe.
Sono morta affogata dentro il flusso di pensieri melmoso che non mi permette di riemergere, una palude che tira sempre più in basso.
Desideri rubati, visi schiacciati contro il finestrino, numeri di prostitute sotto il ponte, bottiglie di plastica che galleggiano, voglie inconfessabili che sudano nella canicola estiva.
C’è puzza dentro Baci all’inferno, odore di corpi che hanno appena consumato un amplesso e lingue impastate dall’alcool. C’è una figlia che cerca respiro e una madre che amorevolmente le preme il cuscino contro la faccia. C’è un figlio che ha bisogno di una vita e di un pasto e una madre che desidera sigarette ed un ultimo, illusorio barlume di giovinezza.
Ho faticato a stare dentro il racconto e ho costruito ragnatele di normalità a cui aggrapparmi, ma quel flusso incontrollato di pensieri e vermi è riuscito a spezzarla, è riuscito a spezzarmi.
Esco saltellando. C’è un messaggio, ed è una raffica di scintille come un’eiaculazione che mi fa tornare in vita. Si diffonde nel mio corpo come una malattia. Lo chiamo, lo ascolto, viene. Lo aspetto all’incrocio dell’autostrada, sotto il ponte con i manifesti dell’estrema destra e i graffiti dei tossici. Cosa c’è da capire oltre questa asfissia. La mia testa è una grande torcia intermittente.
Il dolore è quotididiano o forse la quotidianità snervante provoca delle crepe incolmabili nella mente.
Il terrore di non aver vissuto abbastanza prende alla gola e il bisogno tossico di non lasciare andare nemmeno un’altra opportunità stringe fino a soffocare.
Mi sono pentita mille volte di aver iniziato Baci all’inferno eppure ringrazio Ariana Harwicz, già autrice di Ammazzati amore mio, per averlo scritto, perchè difficilmente incontrerò ancora pensieri scritti da poter liberamente odiare e dei quali non riuscirò più a fare a meno.
Un libro che non chiede di essere percepito con la mente, ma di essere assorbito con la pelle.
Jules Verne è da sempre sinonimo di letteratura d’avventura. Le sue storie sono narrate e citate in migliaia di pubblicazioni, produzioni cinematografiche e riadattamenti di ogni sorta anche negli anime più famosi, spesso la sua opera, in epoca moderna, è etichettata come letteratura per ragazzi e, a dire il vero, perché la letteratura per ragazzi sarebbe inferiore o non adatta agli adulti? Questo mi porta ad un altro quesito: Voi, adulti, avete mai letto Ventimila leghe sotto i mari? Avete mai letto Il giro del mondo in 80 giorni?
Conoscete queste due opere?
Non venitemi a dire che ne conoscete le storie per via delle trasposizioni in cartoni animati, seppur pregevoli, non sono il motivo per cui siamo qui.
Avete letto Ventimila leghe sotto i mari e Il giro del mondo in 80 giorni?
Ve lo chiedo perché, come la maggior parte di coloro che leggeranno questa mia recensione, conoscevo la storia narrata per via dei film e degli anime e mi sono resa conto di una cosa: non sapevo nulla de i personaggi di Verne.
Non mi erano nemmeno noti i punti di vista della narrazione. Per me è triste ammetterlo perché mi faccio vanto di usare sempre un certo spirito critico nelle mie letture, mi impongo di vedere tutte le luci e le ombre dei protagonisti nei libri che leggo e, ora che ho passato i 30 anni da un po’, mi rendo conto che la mia idea su l’opera di Verne non era affatto completa.
Probabilmente non lo è nemmeno ora. Il capitano Nemo mi ha sconvolta e Phileas Fogg non è affatto l’uomo che pensavo che fosse.
La fama mediatica di Ventimila leghe sotto i mari e Il giro del mondo in 80 giorni mi ha ingannata. Jules Verne me l’ha fatta e io ci sono cascata.
Ventimila leghe sotto i mari e Il giro del mondo in 80 giorni non sono affatto i libri che pensiamo di aver conosciuto.
Questa conclusione viene dalla mia lettura dei due titoli nella nuova edizione dei Classici DeAgostini. Li trovate insieme, quindi non potete scappare.
Potrei spiegarvi la mia visione dei due protagonisti iconici dei due romanzi ma se Verne decise di mantenere il lettore all’oscuro delle verità nascoste dietro le apparenze non vedo perché devo essere io a alzare il sipario.
Dietro alle cortine di fumo di celano due personaggi complicati, frammentati, socialmente non comuni. In alcune situazioni li si potrebbe definire… non amabili. Nonostante questo, coloro che si trovano coinvolti nelle loro orbite vengono travolti dal loro carisma e al contempo ne vengono respinti.
Non si può fare a meno di trovarsi mutati dopo averli conosciuti.
Se siete del parere che ogni storia debba avere un eroe, sappiate che Verne non ve lo renderà semplice.
Negli ultimi anni abbiamo avuto tripudi di eroi ed eroine complicate ma di cui è stato svelato ogni mistero togliendo pathos alla storia.
Sono pochi gli autori di letteratura fantastica e di avventura che, pur creando un mondo, lasciano ai lettori la possibilità di avere dubbi sui personaggi che si trovano davanti.
Jules Verne è uno dei precursori di questi ultimi.
Oltre ai mirabolanti viaggi e alle fantastiche avventure, qualcosa si agita nascosto e non visto dietro le cortine di fumo di un canovaccio in apparenza privo di macchie.
Beh, Ventimila leghe sotto i mari e il giro del mondo in 80 giorni sono viaggi pieni di scossoni e scogli aguzzi e la domanda che io vi pongo è: che siate ragazzi o adulti, siete pronti a vedere oltre?
Decidete quale viaggio intraprendere o partite per entrambi, vi auguro buona sorte!
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