Buongiorno viaggiatori, oggi vi parlo dell’esordio letterario di Beatrice Salvioni, autrice de La Malnata edito da Einaudi.
Protagoniste di questa storia, ambientata in epoca fascista, sono due ragazzine appartenenti a ceti sociali diversi. Nonostante questo, La Malnata e Francesca sfideranno i pregiudizi diventando amiche.
Hanno caratteri molto differenti:
La Malnata, non mostra alcuna vergogna, gioca con i maschi e ostenta una ribellione che nasconde un peso che sarebbe difficile da sopportare per chiunque, figuriamoci per una ragazzina.
Francesca invece, appartiene alla classe borghese e dunque deve mostrare educazione e comportarsi come una brava ragazza.
L’amicizia tra le due giovani cresce e si evolve per tutto il romanzo.
La Malnata mi è piaciuto per diversi motivi.
L’inizio del romanzo cattura all’istante ed è proprio in queste prime parole che ho compreso il potenziale di questa storia.
Una partenza con il botto, spietata.
L’amicizia tra Francesca e La Malnata è il centro di tutto.
Un legame che mostra come sia importante ascoltare il nostro istinto, andando contro i pregiudizi se necessario.
La vita è la nostra e nessuno può dirci cosa pensare e chi frequentare.
Certo, il periodo storico scelto dall’autrice non rende le cose facili ma queste due giovani donzelle dimostreranno di avere coraggio da vendere.
La Salvioni ci racconta l’amicizia tra le due anche attraverso la situazioni familiari di entrambe.
A casa della famiglia Merlini si respira allegria nonostante le difficoltà e la situazione difficile portata da due lutti devastanti che vedranno La malnata costretta a portarne le colpe ingiustamente.
A casa Strada invece troviamo una situazione ben diversa, il padre sempre a lavoro e la madre attenta solo alla reputazione della figlia che deve trovare un buon partito da sposare.
Ed è proprio la mancanza di affetto vissuta da Francesca che la spinge verso La Malnata.
Ci sono altri personaggi che ruotano intorno alle due ma per quanto abbia apprezzato la caratterizzazione perfetta, a mio avviso Francesca e La Malnata sono indimenticabili.
Nonostante la fama e il pregiudizio le due ragazze mostrano di essere di gran lunga più mature di chiunque altro. Per me questo romanzo è promosso a pieni voti.
Le cose che mi spiegava la Malnata erano semplici e misteriose insieme, come la rotazione dei pianeti o la formazione delle montagne, ma ricoperte della vergogna e della reticenza dei grandi, che le rendevano proibite, clandestine, e per questo interessanti.
Se andate alla ricerca di un senso, e volete la guida di una trama precisa, allora Strega non è il libro che fa per voi.
Come nel più intricato dei labirinti, dove niente può venire in vostro aiuto, poiché ogni angolo è identico a quello precedente; così la ricerca di orientamento in questo libro, può provocare sconforto e smarrimento.
Se invece avete preso la decisione di spalancare le finestre alla nebbia autunnale, lasciando che questa pervada la stanza in cui vi trovate e che penetri dentro le vostre narici; allora siete nel posto giusto.
State per trasformarvi in etereo vapore.
Un letto di parole verdi come il bosco più fitto, gesti ripetuti in maniera estenuante, sigarette che appesantiscono l’aria, inquietudine a colmare ogni spazio vuoto.
Non è davvero semplice parlare di un libro fatto di emozioni, sensazioni, istinto e poco altro. Posso soltanto tentare di usare altre emozioni per descriverlo.
La stanza sembrava la scena di un antico dramma sanguinario,
in cui le donne serie in abiti drappeggiati si muovevano sul palco brandendo coltelli.
Dall’altro lato della scenografia un coro declamava le proprie battute su navi affondate,
vendetta e figlie uccise.
Un albergo che fagocita donne lasciando gusci intossicati, rosso sbiadito incastonato nella fredda roccia. Claustrofobia, puzza di vecchio.
Nove ragazze al loro primo impiego, nove anime attraversano la sua porta.
Ci sono gesti precisi, capelli legati in perfetti chignon, divise inamidate, dolorosi calli e acqua bollente.
Niente è come ci si aspetta e Strega in lontananza, vuota e silenziosa, attende.
Dormire e vivere nell’inquietudine, ingurgitare mix fatti di alcool ed erbe velenose. Forse è l’albergo stresso ad avere una sua volontà, o forse le persone all’interno seguono un preciso copione fatto di punizioni corporali e antiche tradizioni.
Sapevo che la vita di una donna può trasformarsi da un momento all’altro nella scena di un crimine.
Non avevo ancora capito che vivevo già in quella scena del crimine,
che la scena del crimine non era il letto, ma il corpo,
e che il crimine era già avvenuto.
Una creatura antica che si nutre dei giovani sogni, annientandoli, restituendo soltanto ossa rotte. Finché qualcuna di loro cederà all’inganno, stringendo la mano di uno sconosciuto che, sussurrando parole rassicuranti, la condurrà nel bosco senza ritorno, nel lago senza fondo.
Il tempo non esiste più, nel grande albergo rosso sbiadito, il senso non esiste più e, a volerlo cercare, si può ammattire.
Meglio galleggiare sulle spine del roseto, afferrando i pochi ricordi della breve vita trascorsa, sempre più perse, sempre più immobili.
La paura però può diventare un solido collante fra le giovani donne, una corda che le fa sentire strette e al sicuro insieme. Una corda di ansia che le stringe talmente forte da fondere anche le loro menti, tanto da portarle a fare gli stessi sogni, tanto da eliminare ogni parola superflua poiché non è necessario capirsi, ma sentirsi vive, ancora un altro giorno.
Il libro di Johanne Lykke Holm è il quarto della serie “Le fuggitive” ed è stato tra i finalisti del Premio Strega Europeo 2023.
Strega è un libro pericoloso perché non parla al nostro senso logico, depistando ogni ricerca di fatti ed eventi chiari .
Sussurra alle nostre percezioni più sottili, alla nostra pelle che irretisce nel percepire un alito gelido o quando ha paura. Un sogno, o meglio un incubo dal quale non si può uscire.
I simbolismi del racconto ci trascinano in un universo femminile e acerbo, alla ricerca di nuovi progetti di vita.
Un universo che si scontra con la perfidia di un mondo infido e subdolo, pronto a risucchiare loro ogni scintilla di giovinezza.
Ho avuto bisogno di diverso tempo per digerire questa lettura, come dentro un sogno forzato, non riuscivo a staccarmi da dosso la pesante sensazione di privazione, di claustrofobia, di sopruso.
Strega va preso a piccole dosi perché come il veleno, poche gocce non ti uccidono, ma esagerare può condurre alla follia.
Avevo sempre pensato che sarei diventata un bel cadavere Avrei fatto attenzione a non essere brutta nel momento in cui accadeva, a non diventare una vittima brutta, sdraiata lì a bocca aperta in un vestito ereditato, una fallita nella morte quanto nella vita Dentro di me c’era un meccanismo che immergeva tutto in una luce scintillante, quel meccanismo che collega la morte con il bello e il bello con la morte.
Buongiorno viaggiatori, oggi vi parlo de Il dono, il nuovo thriller di Paola Barbato, che ho divorato. Può un gesto di solidarietà come la donazione degli organi nascondere qualcosa di male? Un dono che dovrebbe ridare speranza a chi lo riceve invece porta qualcosa di inaspettato.
Paola Barbato è un’autrice che stimo molto per la sua immensa bravura, i suoi thriller sono imperdibili.
Ne “Il dono” ha superato ogni aspettativa, mettendo tra le mani dei lettori un thriller che parla di male sì, ma lo fa attraverso la tematica dei trapianti, affrontata e approfondita alla perfezione anche dal punto di vista medico e psicologico.
Un thriller curato nei minimi dettagli che racconta le varie esperienze provate dai trapiantati, partendo proprio dal cuore ricevuto da un giornalista molto conosciuto che in seguito alla ricezione di questo “dono” toglie la vita ai suoi genitori.
“È stato il mio cuore!”
Quando l’ispettrice Flavia Mariani va a interrogarlo nell’infermeria del carcere dove è stato portato in seguito all’omicidio si aspetta tutt’altro e non è certo preparata di fronte alle parole del giornalista.
A tutti sembrano pura follia, un modo per ottenere l’infermità ma a lei no… qualcosa non le torna e con testardaggine si batte per iniziare a indagare su quel caso che si direbbe già risolto.
Può un serial killer continuare a fare del male anche dopo la sua morte?
La Barbato grazie a questo romanzo ci offre diversi spunti di riflessione, catturando completamente l’attenzione grazie alla sua scrittura magnetica che mette a nudo l’animo umano attraverso dei personaggi totalmente veri e credibili.
Scopriremo attraverso i capitoli a loro dedicati cosa si prova a dover attendere un organo con la paura di non farcela e come si vive dopo il trapianto. Ed è proprio qui che il mistero inizia a conquistare il lettore con una trama ricca di colpi di scena.
Le indagini guidate da Flavia Mariani cattureranno tutta la vostra attenzione, ho apprezzato la tenacia e la forza di questa donna che non si fa scrupoli nell’andare oltre alle apparenze alla ricerca della verità.
Riuscirà insieme alla sua squadra a scoprire chi ha ricevuto gli organi di Valerio Felici, un ragazzo apparentemente per bene che in seguito alla sua morte rivela di esser stato uno spietato serial killer?
Posso dire senza ombra di dubbio che “il dono” è uno dei thriller più belli che io abbia letto nell’ultimo periodo e vi consiglio di recuperarlo quanto prima!
Trovare le parole giuste, quando un libro riesce a trascinare nell’intima e sacra profondità umana non è compito facile: Il libro di Eva.
Ci sono viaggi e viaggi, spesso le brusche virate e i cambiamenti di rotta a cui può condurre una storia, mi lasciano priva dell’equilibrio che consente di tenere i piedi ben ancorati a terra.
Le vertigini della consapevolezza sono pericolose e necessarie, ma spesso mi spingono a parlare di emozioni e sensazioni, più che di storie.
E sono ancora stordita da questo libro che ho finito di leggere diverse settimane fa, ma alle volte il seme per germogliare ha bisogno del momento e delle condizioni giuste.
Capita allora che svariate centinaia di pagine costituiscano il fulcro centrale di pensieri insonni e di dialoghi intimi. Frasi condivise soltanto con chi può veramente comprendere l’essenza. Con le poche persone che hanno sentito il peso della privazione della libertà sulle proprie spalle.
Suor Beatrice conosce bene il significato di queste ultime parole.
Le porte del convento per lei, come per molte altre, si sono aperte per necessità più che per vocazione. Le regole e i sacrifici per il culto del Padre però non sfiniscono la sua mente che oltrepassa le mura.
La libertà ha per molte donne il profumo della carta e dell’inchiostro, figlie di Eva nel bene e nel male, fameliche della mela della conoscenza.
Beatrice ha molta fame e i testi accettati dalla legge del Padre non bastano, vuole sporcarsi le mani scavando anche in quei luoghi proibiti.
I libri possiedono una voce, non è vero Beatrice?
Ci blandiscono, ci seducono, i libri.
Penso al seme che germoglia dentro questo libro, un seme che non avrebbe possibilità di crescere se non ci fosse stato il prezioso concime della curiosità oltre ogni paura.
Se la mente di Beatrice non si fosse spinta ad infrangere certe barriere, per raggiungere il pensiero dei grandi filosofi del passato, se non avesse osato sviluppare radici solide di conoscenza, intrecciando dialoghi e scambi, allora il seme avrebbe trovato un terreno arido.
Vi starete domandando se Il libro di Eva è una storia che parla di libri. No, parla di libertà, di lotta, di sorellanza.
Siamo nel XVI secolo, in un convento e siamo in mille epoche diverse, nel cuore di mille donne oppresse dal patriarcato.
L’arrivo del libro misterioso e segreto è la condizione fantastica, ma non troppo, che porta alla luce culti antichi e mai dimenticati.
Un libro senza parole e senza storia, fatto di mille parole e antico quanto Eva.
Il libro di Eva non racchiude formule magiche, si espande dentro il cuore di chi già possiede la magia antica e il coraggio per riscrivere la storia.
Torture, roghi di libri, privazioni e dominazione psicologica sono il vessillo dei seguaci del Padre. Essi premono la mano per soffocare ogni forma di pensiero proveniente da un corpo femminile.
Silenzio, sottomissione e preghiera.
Quando il Figlio risorge, le donne, le Tre Marie, tornano dal sepolcro e raccontano agli uomini, ai discepoli del figlio, quel che è successo, ma loro non ci credono.
Non ci credono perché la parola è quella di una figlia di Eva.
La religione assume la forma di dittatura che mira a dominare ed estremizzare, ed io non posso fare a meno di pensare in quante epoche storiche si possono sovrapporre gli eventi del Libro di Eva, fino ad arrivare ai giorni nostri. Eppure …
La ruota gira. Lei risorgerà.
L’alternativa all’oppressione è nel passato volutamente celato, è nella Verde Madre.
Colei che ama i suoi figli sotto ogni forma e che non è stata mai dimenticata.
Forse lo è stato il suo nome, ma il suo seme è stato tramandato con lievi sussurri fra le donne nel lavatoio, nel profumo delle erbe curative messe ad essiccare, nei racconti delle madri alle figlie prima di dormire, nell’amore donato senza niente in cambio.
Lei è sparita ed è sempre stata davanti ai nostri occhi, lei è il pensiero del cambiamento e della lotta ai soprusi , lei è la grande magia, è la Verde Madre, è la Dea Madre, è la donna, è Eva, è tutte noi.
Ho versato molte lacrime, mi sono a volte sentita sopraffatta dal dolore e ho avuto paura di non trovare la via d’uscita, ma un modo c’è sempre e supera ogni limite imposto.
Non smettere mai di credere, di conoscere, di essere.
La sua voce è un fruscio, un rombo, un sussurro; è la voce del libro, la voce degli antichi luoghi della Madre, la voce di Naiadi, driadi, sibille, veggenti, sfingi, sacerdotesse, profetesse, è la voce di Madre Chiara, di tutte le nostre madri, della Madre.
Buongiorno viaggiatori, il libro di cui vi parlo oggi è Tutto il bene, tutto il male di Carola Carulli, pubblicato da Adriano Salani Editore.
Carola Carulli, giornalista, si occupa di cultura da molti anni. È conduttrice del Tg2, cura le rubriche “Achab” e “Tg2 Weekend” dedicate alla lettura.
Segue come inviata i più grandi eventi musicali, letterari e cinematografici. È autrice di diversi documentari.
Tutto il bene, tutto il male è il suo primo romanzo.
Alma era una ribelle di natura. Una di quelle a cui non stava bene niente. Detestava sua madre Clara, donna piena di amanti e rimorsi, superficiale e fragilissima, con un sogno, quello di diventare ballerina, che si era infranto insieme alle sue gambe a seguito di un brutto incidente dal quale si era salvata per miracolo.
Leggendo queste parole verrebbe da pensare che questo sia un altro libro sul rapporto difficile tra madre e figlia, ma posso senza ombra di dubbio dirvi che troverete molto di più.
Partiamo dal principio, Clara e suo marito, un uomo perbene che aveva scelto per comodità e per garantirsi una vita dignitosa, hanno due figlie, Sarah e Alma.
Tutto il bene, tutto il male è un romanzo che parla di mancanze.
Tutto si sgretola quando i due si separano e le figlie scelgono con quale genitore restare.
Sarah resta con la madre e Alma sceglie il padre, ed è così che le due sorelle crescono con caratteri completamente diversi per l’esempio che hanno ricevuto.
Alma è il personaggio che più mi ha scatenato emozioni, soprattutto nel rapporto con la nipote Sveva, figlia di Sarah.
Alma e Sveva, apparentemente ribelli e complicate , ma che si capiscono soprattutto nei momenti di dolore.
Hanno vissuto sulla loro pelle il dolore dell’abbandono, il sentirsi sole e non amate.
Due donne che si aiutano a vicenda a rialzarsi riprendendo a camminare con tutte le ferite che si portano dietro, perché a volte la vita sa essere dura.
Due donne che vivono sulla loro pelle il male fatto dalle parole di chi dovrebbe volere solo in nostro bene.
E sono proprio i loro punti di vista ad alternarsi per tutto il romanzo che è un vero e proprio viaggio alla scoperta del bene e del male che possono influire sulla nostra vita.
Tutto il bene, tutto il male è un romanzo che ci fa capire come i sentimenti siano complicati.
Ci fa riflettere su come sia necessario conquistare e lavorare per creare un rapporto con le persone e che non basta la parentela per averne uno.
Come per un giardino che per essere bello ha bisogno di cura e amore, non solo quando ci si ricorda, ma sempre.
L’autrice è stata brava nel raccontare pezzi di vita in cui il lettore può immedesimarsi con estrema delicatezza, un linguaggio immediato che colpisce ma allo stesso tempo regala una lettura scorrevole che vola pagina dopo pagina.
I social per lei erano pagine bianche che le persone usavano per esternare qualunque opinione senza che nessuno glielo possa impedire. Lo trovava spaventoso, «perché la verità non la puoi dire a tutti». Non poteva tollerarlo. «È un TSO a cielo aperto» diceva, «qualunque cosa cerchi, finisci per trovare frasi terribili scritte senza vergogna, […] Body shaming, bestemmie, litigate tra mariti e mogli […] un mondo parallelo pieno di gente crudele […] E il bello» continuava «è che quella gente poi, nella vita reale, si comporta in tutt’altro modo».
Un romanzo pieno di riflessioni sul mondo, sui sentimenti, su come le persone si comportano, su come a volte si usino i social in modo del tutto sbagliato per cercare quelle attenzioni che nella vita reale non si hanno.
Per certe persone il bisogno e la ricerca di attenzioni possono essere un qualcosa che porta a rovinare la vita tra incertezze, dolore rabbia e chiusura.
Un romanzo che arriva dritto al cuore, parole che restano e portano inevitabilmente a capire che siamo tutti imperfetti, ma è proprio l’imperfezione a renderci unici.
Non si può restare indifferenti dopo aver letto questo libro, per me è stata una vera e propria lezione di vita.
Maggio e anche giugno sembrano i mesi in cui io sia destinata a trovare molliche del mio passato. Questa volta a ricordarmi di una ragazzina idealista che voleva fare la curatrice del British Museum è Andrea Marcolongo con Spostare la luna dall’orbita, edito per Einaudi.
Frequentavo il quinto anno delle superiori quando, durante la mia prima visita al British Museum, vidi i marmi del Partenone. Quella folgorazione si trasformò nella mia tesina di diploma di maturità sul sistema museale che fu la scusa per parlare “dell’impresa” di Elgin.
A mia difesa posso ricordare che ero giovane, acerba, innamorata di mondi perduti e anche un tantino arrogante nella mia supponenza?
Parte della frase è ancora vera ma questa è una storia per un’altra volta.
A quel tempo trovai negli archivi on line del museo il firman in lingua italiana che permetteva ad Elgin di portare via da Atene i marmi del fregio più famoso del mondo e che lasciava pensare che, in un qualche modo, ci fosse stata una compravendita.
Lo ammetto anche con una certa riluttanza: che i marmi fossero a Londra, in seguito a quel documento, mi sembrava se non giusto quanto meno regolare.
Ora ve lo dico: non sapevo niente!
Ma il mio professore di inglese era ed è un suddito leale e integerrimo della corona inglese e mai si sarebbe sognato di contraddire qualcuno che data, seppur implicitamente, ragione a coloro che espropriarono legalmente a Lord Elgin i marmi che non del tutto legalmente lui trafugò dall’Acropoli.
La Grecia, al tempo dell’operato di Elgin per conto del governo inglese, era sottoposta al governo turco.
L’Acropoli era poco più che un deposito e una polveriera.
Diciamocelo, alla Turchia non interessavano i monumenti in maniera particolare ma, finché le lusinghe e una vittoria su Napoleone non si misero di mezzo, non avevano mai permesso a nessuno di portar via alcunché dal suolo sacro dietro ai possenti propilei dell’acropoli.
Lord Elgin portò via i marmi ed ebbe a che pentirsene amaramente, anche se a quel tempo lui non lo sapeva ancora.
Quando, negli stessi anni del mio diploma, Atene si preparava ad accogliere le Olimpiadi, il governo greco chiese la possibilità di ospitare i marmi ad Atene, perché la richiesta di potersene riappropriare era stata, di nuovo, respinta poco tempo prima, Londra rispose: ci sono i calchi di Basilea, potete prendere quelli.
Non credo fossero la frase letterale ma di sicuro il senso era quello.
Ricordo che rimasi stupita dalla violenza della risposta.
Potevo capire la riluttanza e l’attaccamento ad un cavillo legale, che ora so essere labile, ma non il necessario sberleffo nei confronti della Grecia mettendo in mezzo una terza città che non aveva nemmeno preso parte alla disputa.
Di solito chi si accanisce e alza la voce ha, quasi sempre, torto o la coscienza non esattamente nel punto di bolla.
In Romagna si direbbe che i Greci rimasero “sbattezzati” sia dal coraggio di Elgin nel portare via le opere che dal fermo e categorico rifiuto di rivedere la posizione in merito alla restituzione delle teorie di metope e dei fregi ateniesi.
L’espressione “sbattezzati” sta a significare: come a Spostare la luna dall’orbita.
La frase dell’archeologo Edward Daniel Clarke fu pronunciata nel descrivere lo sgomento greco di fronte agli operari che lavoravano al trafugamento.
In epoca moderna esiste una legge secondo cui le proprietà artistiche detenute legalmente dai grandi musei europei sono inalienabili ma, prima che il governo inglese acquistasse il patrimonio artistico proveniente dal tempio di Athena Parthenos in maniera inalienabile e incontestabile, lord Elgin aveva avuto lo stesso diritto legale sulla proprietà incontestabile, culturale e artistica, di un paese che non era libero di disporre nemmeno della libertà di definirsi un paese?
Quindi mi sono chiesta più volte, anche mentre leggevo Spostare la luna dall’orbita: fermo restando che il Partenone è una delle architetture più stupefacenti che hanno riempito i miei occhi, come sarebbe stato se lo avessi potuto ammirare con il suo corredo scultoreo ancora al suo posto?
Non posso nemmeno invidiare il lord inglese che si presentò al cospetto del periptero d’Athena solo dopo che il saccheggio era avvenuto.
Avrei quasi potuto capirlo di più se avesse deciso cosa portare via dopo averlo potuto vedere nella sua interezza.
Forse avrei potuto.
A dire il vero, a questo punto, proprio non lo so.
Avrà pensato, per un secondo, al fatto che non poter portare via anche il tempio fosse, se non per pietà verso la Grecia o paura dell’Ira della dea glaucopide, un buon motivo per lasciare le statue dov’erano?
Se fossero rimaste lì sarebbero sopravvissute? Anche questa è una suggestione che mi sono concessa di rimirare e che mi ha convinta a non approfondire quando volevo solo essere l’unica a proporre una questione attuale al mio esame di maturità.
Lord Elgin, il governo inglese, tutti i posteri si sono sollazzati nel poter pensare di aver salvato le opere come d’altronde ho fatto io.
Ma se si tratto un salvataggio, vuol dire che poi, il salvato potrà tornare a casa e al calore della sua casa.
Spostare la luna dall’orbita è esattamente lo sgomento dello sbattezzato che non riesce proprio a comprendere il perché la risposta ad una domanda legittima, con argomentazioni e precedenti più che legittime, sia sempre un No.
Non vi saprei dire se sono suggestionata dalle parole di Andrea Marcolongo sulla questione annosa della storia dei marmi di Atene ma, privata della mia puerile certezza della giusta proprietà di Elgin nei confronti del corredo statuario del Partenone, mi sento di unirmi a coloro che, vedendo quello che era Uno diviso due luoghi distinti, hanno sentito la forza dello strappo del tempio dall’opera di Fidia.
L’ho realizzato proprio ora, mentre a 18 anni capivo solo che la sala del museo era adeguata come misure ma non alla luce da cui dovrebbero essere baciate.
Ero io quella ad essere abbacinata dall’essere in uno dei musei più grandi al mondo e alla presenza del corredo statuario più magnificente che io avessi mai visto.
In quel momento, la mia vita era riuscita a Spostare la luna dall’orbita e forse l’ho messa ancora più lontana da dove l’aveva posata Lord Elgin.
Davanti a me la dea Athena tentava di nascere dalla testa di Zeus provocandogli un poderoso mal di testa che il sovrano degli dei avrebbe dovuto prendere ad esempio della furia di sua figlia, nel lato a me opposto si svolgeva la lotta tra la dea e Poseidone per il dominio sulla città di Atene.
Conoscendo la storia di questi marmi, priva di troppi particolari, dei marmi avrei dovuto, però, percepire che Atena più che con suo zio era adirata con chiunque non la stesse riportando alla sua legittima casa.
Spostare la luna dell’Orbita è, in parte, la storia di Lord Elgin e del trafugamento delle opere dell’acropoli ateniese; ma è anche la notte più sconcertante che l’autrice abbia passato: una notte all’interno del Museo dell’Acropoli, completamente sola ma in compagnia di ciò che resta dell’apparato iconografico rimasto in sede.
Questo museo è giovane, concepito attorno ai vuoti della cultura greca e non attraverso i suoi pieni.
Il senso della tragedia lo pervade e lo anima.
Passare una notte così è un onore e un onere per chi ama la cultura greca.
Il libro è anche questo ma, come spesso accade con questa autrice che io adoro, le pagine traboccano anche di molto altro.
E di colpo siete ad Atene, a Londra, su navi stipate di carico che naufragano, nella vita di un’autrice onesta nei confronti della sua vita e della sua opera e di fronte ad una delle opere più grandiose mai costruite.
Potete, forse, se le avete visto sia i marmi che il tempio, riuscire ad immaginarvi il Partenone ancora unito e ancora sfolgorante di colori abbacinati dai riflessi del marmo che lo componevano.
Chissà, forse Carlo III potrebbe prendere in considerazione di esercitare una migliore influenza culturale a livello mondiale e arrivare ad un accordo per le opere di Fidia.
Sarebbe un sogno.
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