Buongiorno viaggiatori, oggi vi parlo di Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi edito da Einaudi.
Un romanzo che mi ha fatto male perché mi ha costretta a guardarmi dentro riportando alla mente ricordi dolorosi ma non solo.
Il linguaggio scelto dalla Lattanzi per raccontare la sua storia è molto crudo, tagliente e brutale, come lo sono i fatti che racconta.
Lei è una scrittrice e sa come usare le parole, le mette nero su bianco una dietro l’altra, mettendo nelle mani del lettore una storia scritta con il sangue ed è proprio attraverso esso che ripercorre il suo dolore.
Di cosa parla Cose che non si raccontano?
Al contrario di come si potrebbe pensare, questo non è il racconto di una maternità mancata, nasconde al suo interno molto di più, basta leggere tra le righe.
La Lattanzi rivendica i suoi diritti di Donna.
Un’interruzione volontaria di gravidanza è un diritto, me l’ha insegnato mia madre. Ma a quella madre, che ho esercitato questo diritto non posso dirlo.
Amare il suo lavoro a tal punto da volergli dedicare tutto il tempo disponibile.
Un figlio costringe a fare i conti con delle priorità che non sempre coincidono con gli obiettivi della vita.
Con tanto coraggio, in Cose che non si raccontano, la Lattanzi non ha paura di mettere le verità in mano al lettore, scrivendo tutto nero su bianco.
Attraverso la scrittura ha evitato di nascondersi dietro bugie, come ha fatto in certe occasioni, tenendo i suoi affetti all’oscuro di ciò che stava vivendo.
Per diverso tempo non è stata pronta ad accogliere una nuova vita e tutti i cambiamenti che avrebbe dovuto accettare di conseguenza.
Poi, invece qualcosa cambia perché per una donna gli anni che passano si fanno sentire e ti mettono di fronte al bivio.
Voglio un figlio oppure no? Tic tac, tic tac…
Lei al bivio ha scelto di provare, a cercare una gravidanza, ma inizia per lei un vero e proprio calvario che non auguro a nessuno.
Nei momenti di dolore cerchi sempre un perché. Perché è successo tutto quello che è successo? ho chiesto. Perché non si gioca con la vita, mi ha risposto una voce ancestrale, una voce da pensiero magico. Hai rifiutato due vite? E allora sei stata punita.
Un dolore dietro l’altro, che anche solo leggerlo è in grado di togliere il fiato, figuriamoci viverlo.
QUESTO LIBRO è un grido di coraggio.
Il coraggio di raccontare cose personali, che si vorrebbero tenere private, ma ogni tanto è meglio tirare fuori per condividere la propria esperienza, vera, così tanto da far male.
Per me è stato difficile leggere questa storia, ho vissuto sulla mia pelle, se pur in modo diverso, il dolore degli abortire la ricerca di una gravidanza che non arrivava.
Fare i conti e leggere alcune parti della sua vita non è stato semplice.
Ho avuto difficoltà a comprendere e accettare certe parole, probabilmente perché solo chi vive in prima persona quei momenti può farlo fino in fondo.
Questo è un romanzo che parla di quanto sia difficile e di cosa significhi essere donna oggi, partendo dal fatto che se sei donna, devi saper rinunciare a priori ai tuoi sogni, alla tua ambizione.
Se vuoi diventare madre devi mettere in pausa la tua vita.
Tornerai al punto in cui ti sei fermata? Riuscirai a far tutto come quando non avevi figli?
Cose che non si raccontano è un libro intenso che non vi lascerà indifferenti.
La trama di Cose che non si raccontano la trovi qui!
Arrivano silenziose la notte ed in silenzio portano il loro fardello, non è fatto soltanto di panni da lavare, ma di un eterno dolore da espiare; con Le terrificanti scoperte del Dottor Kraus. Le Panas , il nostro esploratore è tornato per parlarci di una nuova terrificante scoperta!
Questa volta il nostro esploratore non morto ci accompagna in Barbagia, precisamente ad Ollollai .
Il Dottor Kraus ci accompagna dentro una leggenda antica quanto la nostra isola: le Panas.
Quanto pesa il cuore di una madre? Non è possibile da calcolare, specialmente se questa madre è stata separata dal suo bambino.
Il suo cuore gronderà lacrime nella vita e nella morte, trasformandosi in pietra verso chiunque oserà incrociare il suo cammino.
Le madri sono capaci di grandi cose, nel bene e nel male, sono in grado di compiere anche i gesti più efferati se vengono private del proprio amato figlio.
Le Panas sono donne e madri, morte nel momento in cui mettevano al mondo la propria ragione di vita e per questo non sono in grado di darsi pace.
Non troveranno il riposo eterno prima dei sette anni, numero mistico che in Sardegna ricorre molto spesso.
Durante questo periodo di espiazione sono condannate a vagare sulla terra, indossando dei lunghi veli bianchi.
La notte sostano lungo il fiume, dove lavano i panni fino all’alba.
Instancabili intonano una nenia che il loro bambino non potrà mai ascoltare:
Anninnia, anninnia Drommi l’asettu meu Chi pal te soccu molta eu Drommiti lu me bè Chi soch’eu molta pal te
Che dolore immenso ristagna dentro il cuore di queste donne-spirito!
Viene quasi voglia di consolarle o di correre lungo la riva ad aiutarle nel loro lavoro. Per donare loro un po’ di sollievo che non hanno avuto nella vita.
In Sardegna però si sa che l’anima delle Panas è irrimediabilmente corrotta dal dolore, e nessuno si deve avvicinare lungo le rive del fiume di notte.
Sono crudeli e vendicative, costrette ogni notte a scontare la propria pena e non accettano di essere interrotte o la loro vendetta sarà terribile!
Ilenia Loddo con Le terrificanti scoperte del Dottor Kraus. Le Panas, anche questa volta ci trascina dentro l’antico immaginario sardo e lo fa in modo quasi tangibile.
Ci catapulta dentro i borghi silenziosi, nelle chiese in cui le donne piangono la perdita di una giovane madre, per poi irretire i nostri sensi lungo le rive del fiume silenzioso.
Quello stesso fiume dove, una notte dopo l’altra , per i prossimi sette anni, una giovane donna morta laverà i panni insanguinati del suo bimbo con le lacrime, in attesa del momento in cui potrà anche lei, finalmente, riposare in pace.
Ilenia loddo è colei che ha saputo dare la forma a questi racconti, è un’eclettica illustratrice e amante della letteratura gotica nonché di storie horror e crime, la sua matita mi affascina e mi ipnotizza pagina dopo pagina.
Sorrido mentre ripongo il secondo volume accanto al primo e mentalmente preparo lo spazio per il prossimo, sorrido, dicevo, ma è il sorriso amaro di chi sa, che fra i silenzi di questa isola, fra i racconti sussurrati e disegnati, si cela una grande verità; fatta di poche parole ma di tante anime.
Viaggiatori allacciate le cinture, questa volta la direzione è il Messico, quello brutale dei signori della droga, della violenza più efferata; sarà un cammino difficile e tutto al femminile: Bastarde disperate.
Forse, come scrive Dahlia de la Cerva, è meglio raccomandarsi al Diavolo in questo luogo dimenticato da Dio, e forse occorre armarsi di pelo sullo stomaco nel momento in cui si decide di affrontare questa lettura.
Mi sembra doveroso fare un’ammissione : ho avuto non poche difficoltà ad entrare nel vivo di Bastarde disperate, a sentirlo a livello empatico.
La scrittura è sicuramente molto schietta e cruda, non c’è l’intento di indorare la pillola di una società corrotta e manipolata dalla malavita, ma il vero problema per me è stata la visione di un universo femminile altrettanto corrotto, che pur di sopravvivere si adegua, accetta e si appropria di stili di vita oltre il limite.
Per buona parte del libro non ho fatto che pensare “ Ma non c’era davvero un’alternativa?” .
Mi sono posta questa domanda mentre leggevo il racconto di una giovane donna il cui futuro, come erede diretta di un cartello della droga, non viene nemmeno messo in discussione.
Un mondo in cui l’apparenza domina sulla sostanza.
Fra sparatorie, intrighi e traffici vari si intrecciano vite di donne il cui scopo primario pare essere il numero di follower, il nuovo ritocco dal chirurgo estetico e avere abiti e borse sempre alla moda.
Ancora donne, streghe, con pagine facebook e migliaia di like che non si fanno scrupolo ad utilizzare qualsiasi forma di magia pur di ottenere ciò che desiderano, schiacciando senza alcun pudore la volontà altrui.
Della faccenda estetica mi sono già occupata:
a ventidue anni ho già all’attivo un fottio di operazioni chirurgiche.
Tutto quello che vedi è operato perché è chiaro che a me i soldi non mancano.
Ho avuto un momento di sbandamento, lo giuro.
Un libro lontano anni luce dalla letteratura femminista e dalla lotta al patriarcato che sono abituata a leggere.
La prospettiva però è cambiata nel momento in cui ho compreso che, ciò che stavo facendo era porre la mia visione occidentale-europea in un contesto completamente, totalmente diverso.
Questo libro non ha la pretesa di dire ciò che è giusto o sbagliato, questo libro racconta ciò che accade in Messico, quali sono le vicissitudini delle donne in quei luoghi dove il femminicidio tocca picchi sconvolgenti.
In bastarde disperate si parla di vita estrema, in un contesto in cui la fortuna primaria è sopravvivere ancora un giorno.
Guadare il libro sotto questa prospettiva mi ha aiutato a comprenderne le dinamiche violente, spesso animalesche che ho incontrato nei racconti.
Il Messico è un enorme mostro che divora le donne (…) L’ha ammazzata perché era incinta. L’ha ammazzata perché non ha voluto abortire. L’ha ammazzata perché voleva abortire. Maternità usa e getta. Donne usa e getta. L’ho ammazzata perché l’amavo. L’ho ammazzata perché era mia. Come si fa a dimostrare la misoginia se l’assassino dice che l’amava?
I Contenuti sono graffianti, smorzati spesso da una macabra ironia, tutto è avvolto da tossicità e ossessione.
Tutto racconta di quanto sia più complicato nascere in un contesto estremamente violento ed intriso di patriarcato. Dahlia de la Cerda, scrittrice ed attivista, co-fondatrice del collettivo femminista Morras Help Morras, con questo suo esordio ha vinto il Premio Nacional Comala.
Lo aspettavo da molto tempo e finalmente oggi: 16 maggio 2023, il secondo libro di Elodie Harper è in tutte le librerie. Seguito de Le lupe di Pompei, sugli scaffali di tutte le librerie e, finalmente, tra le mie mani, arriva La casa dalla porta dorata.
Ricordate le ragazze del lupanare di Felicio?
Amara ormai liberata dal generale della flotta romana Plinio e sotto il patrocinio di Rufo è fuori dalle follie rabbiose del feroce lenone.
Didone, la migliore amica di Amara, è stata trafitta da un pugnale che l’ha uccisa al posto di Felicio.
Ed ora eccoci qui, tra le mura de La casa dalla porta dorata.
Qui vive Amara, ormai liberta, come concubina di Rufo a cui la ragazza piace fragile come un uccellino in gabbia e come tale vuole vederla cantare e suonare.
Quello che il patrizio non sa è che Amara potrà anche essere l’oggetto dei suoi desideri ma non è fragile.
La realtà, che la spaventa, è che la sua sete di libertà e indipendenza la fa somigliare all’uomo che fino a poco tempo prima era il suo padrone.
Amara, non Timarete (il suo vero nome, quello che le ha donato suo padre alla nascita), è costretta ad essere quello che la vita le ha insegnato.
Più che un nome il suo è, ormai, un titolo conquistato a fatica.
Purtroppo oltre ad essere spregiudicata e dotata di un forte senso di sopravvivenza, Amara è la trasfigurazione della vendetta della dea Diana.
La dea che ne La casa dalla porta dorata ha il volto di Didone è la mandante di una furia chiamata Vendetta.
Quest’ultima si è impossessata di Amara e l’acceca con il dolore per la perdita della sua amica.
È per perseguire la tempesta della vendetta che si ritrova ad avere a che fare con Felicio, di nuovo.
Amara costringe l’uomo a liberare Vittoria e venderle Britanna; così facendo si indebita e si ritrova in una spirale discendente in cui trascinerà tutto quello che ha di più caro.
Forse, in fin dei conti, Gaia Plinia Amara non è così spregiudicata come crede di essere.
Questa, come il precedente libro, non è una storia di salvezza.
La casa dalla porta dorata non è la libertà.
Quattro mura costituiscono l’illusione di avere qualcosa che le appartenga ma sono solo una gabbia più grande con un guinzaglio più lungo di qualche metro.
Il precipizio è ancora lì: più lontano forse ma più profondo di qualche decina di metri.
Amara non sta giocando con il fuoco ma con l’intero cratere che sovrasta Pompei e, ormai, non è più il suo solo destino ad essere appeso ad un filo sottilissimo.
La scelta è chiara: sopravvivere ancora a dispetto di tutti e tutto o sfidare la sorte con le carte più orribili che il destino può servire?
L’esistenza di Amara è un gioco sulla lama di un rasoio; ogni respiro è una lotta per la sua anima in cui il suo antagonista peggiore è il riflesso che vede nello specchio della sua toeletta.
La casa dalla porta dorata è un altro successo di Elodie Harper.
La condizione della donna della seconda metà del I secolo d.C. non è il solo scoglio che viene affrontato e su cui il lettore viene spinto fino a frantumarsi ed escoriarsi la pelle, ma è l’intero substrato sociale che muove l’impero ad essere sviscerato ed esposto come un corpo lasciato a marcire nella discarica fuori le mura di Pompei.
Della fiorente città campana noi ricordiamo le favolose rovine, i meravigliosi doni che ancora ci restituisce, i magnificenti dipinti e i ridanciani motti di spirito sui muri ma… tra quelle vie e quelle mura vivevano migliaia di persone di cui la storia ha dimenticato di prendere nota.
Ora ce li ricorderemo tutti, grazie a questa saga, possiamo dar loro un nome da iscrivere sulle steli.
Dove trovate la trama de La casa dalla porta dorata? Cliccate la parola LINK
Chiude gli occhi, immaginandosi di essere a casa, al sicuro nel suo studio privato, non seduta qui, sulla pubblica piazza, a sorridere nonostante la paura.
Buongiorno viaggiatori, oggi vi parlo di Blackwater: La piena, la saga edita da Neri Pozza che sta incantando i lettori.
Normalmente non leggo questo genere di libri ma, non so spiegarvi il motivo, questa volta c’era qualcosa che mi spingeva a iniziarne la lettura.
Così dopo aver recuperato tutta la serie, pubblicata dalla casa editrice a distanza di 15 giorni l’uno dall’altro, ho preso in mano il primo volume.
Lo ammetto Blackwater: La piena mi ha lasciata senza parole.
Protagonisti indimenticabili che trascinano il lettore dentro la storia all’istante e da quel momento è impossibile smettere di leggere.
Un libro tira l’altro e per fortuna sono stati pubblicati tutti.
La storia si apre con Oscar Caskey e Bray il suo domestico che stanno perlustrando la città di Perdido dopo l’alluvione che ha colpito facendo esondare il fiume.
Trovano Elinor all’Osceola Hotel. Aspettava lì tutta tranquilla come se nulla fosse accaduto, per niente scomposta. E qui iniziano le prime domande.
Da dove è arrivata? Chi è?
Perché non è scappata come tutti?
Come è scampata alla furia dell’acqua? Come è potuta sopravvivere senza acqua e cibo?
Dietro Elinor si nasconde parecchio mistero.
Decidono dunque di portarla dal resto degli abitanti di Perdido, rifugio improvvisato che ha permesso loro di salvarsi.
E qui incontriamo un’altra protagonista: Mary-Love!
E a lei Elinor non piace. Lo farà capire in ogni modo. Dovrà fare i conti però con il fatto che Elinor riuscirà a incantare suo figlio Oscar e questo la disturberà parecchio.
Devo dire che la calma di Elinor mi ha destabilizzata lo ammetto, io non sarei riuscita a mantenere il controllo.
Una storia che scorre rapidamente e appassiona a tal punto da rendere impossibile abbandonare anche solo per un attimo la lettura.
Queste due donne sapranno come intrattenervi statene certi!
Elinor è una donna molto particolare, saprei come altro definirla e Mary-Love non è da meno.
Se scegliete di iniziare la lettura di questo primo volume tenetevi pronti a concludere tutta la saga.
Io vi ho avvisati.
Un romanzo carico di mistero e inquietante al punto giusto, che si lascia leggere con facilità, con un linguaggio in grado di far rivivere le atmosfere di questo racconto.
Non vi resta altro da fare che mettervi comodi perché sono certa ne vedremo delle belle nei prossimi volumi.
Questo è solo l’inizio.
Se vuoi leggere la trama di Blackwater: La Piena clicca qui.
Oscar sapeva che Mary-Love ed Elinor erano in grado di manipolarlo. Ottenevano sempre ciò che volevano. A dire il vero si sarebbe potuto dire la stessa cosa di tutte le donne censite a Perdido, Alabama. Certo, nessun uomo avrebbe mai ammesso di essere manovrato dalla madre, dalla sorella, dalla moglie, dalla cuoca o dalla prima femmina che lo accostasse per la strada: la maggior parte di loro, in realtà, non ne era nemmeno consapevole. Oscar invece lo sapeva bene. Ma per quanto conscio della propria inferiorità, della sua reale mancanza di potere, era incapace di liberarsi dalle catene che lo imprigionavano.
Ho conosciuto Annalena Benini in una serata d’estate, all’interno di uno degli eventi dello ScrittuRa (Festival di letteratura organizzato a Ravenna-Lugo). In quella serata veniva presentato I racconti delle donne, edito per Einaudi, e mi ha folgorata. Torno oggi alla penna della Benini per leggere Annalena, il suo ultimo libro, sempre per Einaudi.
L’antologia con i racconti delle donne, che sono artiste e scrittrici conosciute e molto amate, mi aveva folgorata: sulla via di Damasco ho avuto la certezza che non sarò mai in grado di scrivere in nessuno di quei modi incisivi e mi sono sentita piccola di fronte alla grandezza della letteratura.
Annalena, invece, mi ha strappato il cuore.
Non sarò mai la Didion o la Yourcenar, ma la mia indole umana non sarà mai nemmeno vicina a quella di Annalena Tonelli, cugina di terzo grado della Benini.
Annalena è un libro biografico, almeno in parte, perché della sua vita di cui la Tonelli non voleva si parlasse è solo parte dell’immensità della vita che questa donna e minuta è riuscita a salvare, coinvolgere e toccare con la sua sola esistenza.
Anche la vita della Benini ne è stata toccata, non solo per la parentela che le lega, ma anche perché quando insegui la vita di qualcuno finisci per capitolarci dentro.
Puoi quasi toccare la pelle del tuo soggetto, entra a far parte di te. Lontane ma vicinissime, solo ad un sussurro.
La prima parte del racconto di questo libro mi ha fatta sorridere più di una volta.
Io e la Benini non ci conosciamo personalmente, ma la sua esperienza con la vita quotidiana mi ha permesso di credere che forse abbiamo qualche piccola cosa in comune.
Se non per altro almeno per una certa questione su di un naso che potrebbe essere, o non essere, ereditario.
Annalena Tonelli è stata uccisa nel 2003, in Somalia, con un colpo di fucile.
Aveva sessant’anni e il motivo della sua uccisione è stato una cosa (ben più di una in realtà) piccola, banale, e buia: l’ignoranza, la paura, Il Male.
Questa piccola donna avrebbe potuto scegliere di vivere negli agi di una vita borghese, facendo beneficienza a Forlì. Invece, ha scelto di partire per ovunque ci fosse bisogno di lei.
Il Kenya, la Somalia e molti altri.
Ha scelto una vita mortale. Ha preso la sua intera esistenza e l’ha donata a coloro che desiderava.
Ovvero tutti coloro che sono gli ultimi, gli abbandonati, i dimenticati.
Perdonatemi la parafrasi di una famosa frase de Il Signore degli Anelli, nella trasposizione cinematografica di Peter Jackson, ma non avrei saputo descrivere meglio di così quello che la Tonelli ha compiuto della sua vita.
La “Santa Annalena Tonelli” è l’epiteto con cui Il Corriere della Sera ha dato notizia della sua morte.
Epiteto che non sarebbe stato affatto amato dalla stessa poiché credeva che non servisse a nulla parlare di coloro che soffrono, occorreva fare qualcosa di concreto.
Immergersi nella sofferenza, donare ogni briciolo della propria vita, dare fino a svuotarsi e amare fino al limite delle proprie forze.
È una cosa bellissima da dire ed è fortissimo lo slancio che tutti sentiamo di fronte a questo appello, ma quanti di noi lo farebbero realmente?
Ne avremo la forza?
Ad un certo punto, io come la Benini, come tutti, ci troviamo a dover rispondere all’annosa questione: quando smetteremo di cercare di essere altri che non siamo noi stessi?
Non possiamo essere tutti grandi. Non saremo mai tutti dei giganti ma siamo forze, magari meno brillanti o meno forti rispetto ad altri.
Il nostro compito è vivere al massimo delle nostre possibilità, Vivere essendo coscienti di farlo, accettare quello che non possiamo cambiare per non disperdere le energie che ci consentono di compiere le grandi opere che sono destinate a noi e non ad altri.
Annalena Benini intreccia la sua vita a quella di un’anima inarrivabile, ce la restituisce attraverso i libri che la Tonelli amava e che le davano forza quando si sentiva sola e non compresa.
Ha esaltato la vita di colei che avrebbe detestato i nomi con cui la stampa e il piccolo mondo la identificava.
L’ha resa immensa facendoci vedere anche quelle che sono i lati umani che noi tutti nascondiamo per non sentirci molto più vulnerabili.
L’autrice ha “infranto il dogma” secondo cui non si sarebbe dovuto scrivere della Tonelli e, anche se in piccolo, l’ho fatto anche io per rendere omaggio al suo ritratto così abilmente delineato.
Volete conoscere la trama di Annalena? Cliccate sulla parola LINK
Lei voleva essere nessuno, ma la vita è anche mancare qualcosa, non riuscire in qualcosa, non colmare la misura fino all’orlo. Lei che è stata la dismisura in tutto, non è riuscita a colmarela misura dell’essere nessuno.
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