Siamo dentro una partita a scacchi già decisa, nonostante l’avversario provi debolmente ad opporsi, in questa scacchiera i bianchi prendono tutto: Il Continente bianco.
Occorre stomaco per leggere questo romanzo e occorre tanta curiosità, quella apparentemente innocente che rischia quasi di ucciderti.
Sicuramente a farsi male saranno soprattutto gli altri, quelli che decidiamo di annientare, di sopraffare non solo fisicamente, ma soprattutto mentalmente.
l gioco del gatto col topo è chiaro, la via di scampo lo è sempre meno.
Schiacciare la minoranza colpevole di occupare i luoghi scartati dalla razza eletta, disgregare e separare goccia dopo goccia i popoli immigrati.
Sporchi, scuri, detentori di una lingua che qui non viene capita, occupanti di posti di lavoro che spetterebbero sempre e solo ad un italiano puro.
Allora ci appostiamo di nascosto, nei luoghi dove la luce non arriva, fino all’arrivo della puttana nera e del cliente bianco. Paura, botte, sangue.
Disgusto dentro il disgusto.
Tutto avviene sotto gli occhi cavi del Duce che, anche se non c’è più, tutto sa.
Il continente bianco è un libro che fa molto male.
Sanguino nel leggere di ciò che accade al giorno d’oggi.
Poi mi dico che è solo un libro e che è tutto inventato, mi illudo, cerco attenuanti inesistenti pur di non accettare che una parte oscura della storia venga inneggiata e usata per commettere delitti.
Un libro sporco di fango e liquidi corporei, intriso del male più oscuro.
Proprio della fascinazione del male ci parla mirabilmente Andrea Tarabbia, e di quella morbosa voglia di scoprirne l’origine, ciò che porta alla creazione del Continente Bianco.
Fare il male, e pensare a qualcosa che si ama persino.
Tarabbia affascina, la sua narrazione non lascia scampo, trascina a fondo senza farci rendere conto che il baratro ci sta ingoiando.
Ho gridato “ Stronzo, cosa diavolo stai facendo?” tante volte dentro questa sadica storia.
Il continente bianco crea la sua narrazione da un romanzo incompiuto: L’odore del sangue di Goffredo Parise.
Incontriamo infatti lo psicologo, la moglie dello psicologo e il giovane estremamente affascinante e consapevole del suo potere.
Una parte della narrazione si svolge proprio all’interno della casa e dello studio dello psicologo e di sua moglie. Le sedute di terapia sono uno scambio talmente intenso e profondo che ad un certo punto non c’è più un confine netto fra il dolore e la morbosità dei due.
Fino a che punto ci si può lasciare affascinare dal male, fino a che punto si può arrivare credendo di potersi tirare fuori.
Il Continente bianco indaga il male ammantandolo di purezza, estremizza la morbosità e striscia come il serpente che appare più volte nel racconto.
Striscia e scava alla ricerca dell’estremo, della dominanza, del plagio.
Marcello Croce, luminoso nella sua bellezza quasi eterea, è il detentore del potere.
Un maestro degli scacchi, muove esseri umani gonfi di ideali, sottomette e schiaccia in nome dell’amore.
Nella blasfemia più estrema Tarabbia plasma una creatura quasi divina, gli attribuisce un cognome che ci riconduce sempre al pensiero di purezza e lo trasforma nel diavolo tentatore.
Si , quel ragazzo era bello di una bellezza insolita,
insieme nordica e nevrastenica,
e l’incontro con questa bellezza per qualche motivo mi inquietò … Il suo nome era, come avrei saputo di lì a pochi giorni, Marcello Croce.
Un bianco atroce, che ingoia ed elimina tutto ciò che non combacia perfettamente all’ideale di purezza e ai valori decantati dagli appartenenti al Continente bianco. Niente deve rischiare di macchiare il bianco assoluto, nemmeno il sangue delle zecche.
La purezza mette una linea bianca tra ciò che è nostro e ciò che è altrui,
tra ciò che può continuare a vivere e ciò che, invece, può e deve morire.
La lotta al diverso però non si concentra soltanto verso i popoli che si trovano ai margini del sistema sociale, anche la borghesia, a cui il Continente bianco non appartiene, viene derisa e abusata.
Ne è la personificazione Silvia, sfruttata, plagiata e violata fino alla fine.
Un libro che ci parla di sfida oltre i limiti, di continua ricerca dell’estremo in nome di valori e perfezione, nel nome di quell’amore oscuro e deforme che amore non è.
Si può amare ed odiare profondamente un libro?
Il Continente Bianco ha suscitato in me questa dicotomia.
Ne ho amato follemente la narrazione che ammalia e spinge la curiosità ad approfondire argomenti e situazioni dalle quali, nella realtà preferirei evitare.
Un libro candidato al premio Strega che si colloca tra i primi posti nella mia personale lista delle preferenze. A Proporre il Continente bianco è stata Daria Bignardi con la seguente motivazione:
“È un romanzo forte, elegante, complesso, sul fascino del male ma soprattutto sul fascino della letteratura e dello scrivere. La storia di Silvia, la moglie perduta del dottor P. rubata a Goffredo Parise dell’Odore del sangue e reinventata con un’operazione raffinata e – mi viene da dire – pericolosa quanto affascinante, da Andrea Tarabbia, penso meriti l’attenzione del Premio.”
Che ci possa essere levità, e risa, e gioia, in chi compie qualcosa che per noi è orribile e violento- ecco è una cosa che non è tollerabile, che fa più male del male stesso perché dice che la vita,la vita di chi compie il male è, in fondo, nella gioia e nel dolore, non troppo dissimile dalla nostra.
Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un importante risveglio del femminile, numerosi libri portano a conoscenza le gesta di donne altrimenti destinate al dimenticatoio; Le RIBELLI che stanno cambiando il MONDO va ben oltre.
Lo dice il titolo stesso, stanno cambiando Adesso il mondo, ed è proprio per questo che trovo il libro di Rula Jebreal innovativo ed assolutamente da non perdere.
Sono storie straordinarie, interessanti ed uniche, storie che passano troppo spesso in sordina proprio perché storie di donne.
Giornaliste, scienziate, sportive, artiste e politiche, sono nove Ribelli che hanno lasciato un segno importante in questa epoca.
Rula Jebreal ritorna, dopo Il cambiamento che meritiamo, come le donne stanno tracciando la strada verso il futuro per proseguire il discorso sul femminile. Conferma l’importanza di un tessuto sociale costituito da donne che lottano costantemente per farsi ascoltare, per contribuire al benessere dell’umanità, per lottare contro i pregiudizi di una società che ci vuole sempre ai margini.
Il libro ha inizio con un racconto davvero emozionante, Rula ci parla di sua sorella, del grande esempio della sua vita. Rauia è la donna che ha usato tutte le sue forze, fino alla morte, per portare avanti le sue lotte per la giustizia.
Dal letto di ospedale Rauia ha combattuto senza risparmio.
Ignorando lo sforzo che richiedeva anche soltanto articolare le parole,
inchiodava i medici sulla soglia della sua stanza,
chiedendo loro di poter decidere la propria morte e
spronandoli ad esprimere pubblicamente il proprio dissenso
di fronte a una legge civile che non lo consentiva.
Donne unite da intenti comuni: quelli di costruire un mondo migliore.
Oggi come ieri, sono donne che tengono per mano tutte quelle che hanno finora lottato per porre le basi, e ora è giusto parlare anche di loro.
In Ribelli che stanno cambiando il mondo incontriamo chi attraverso la rete, è stata in grado di costruire sistemi di ascolto e sostegno per una nazione intera, chi ha saputo farsi spazio nella ricerca scientifica donando all’umanità intera il suo contributo .
E ancora fotografe e reporter che rischiano la vita per portare alla luce ingiustizie e violenze nel mondo e chi ha saputo usare il cibo come strumento di protesta per mettere in atto la propria forma di rivoluzione.
Forti e a testa alta, pronte a lottare contro pregiudizi ancorati da molto tempo alla quotidianità.
E’ stata una sorpresa, finalmente un libro in grado di restare profondamente radicato nel nostro secolo.
Perché anche in questo secolo si stanno creando dei cambiamenti epocali.
Quelle di cui si parla in Le Ribelli donne che stanno cambiando il mondo,sono donne che ce l’hanno fatta.
Non si sono lasciate fermare dagli ostacoli e hanno resistito fino alla fine.
Sono le donne di cui dovremo parlare alle nostre figlie e ai nostri figli, perché rappresentano la concreta speranza verso il cambiamento. Sono la nostra ispirazione e l’esempio per le nuove generazioni, cambiare le regole, senza arrendersi mai.
Nella mia carriera da lettrice raramente mi capita di leggere libri da annoverare nella categoria thriller. Perché? La risposta mi è sempre sembrata semplice: non mi entusiasmano, anzi tutto il contrario. La realtà è un’altra: sono semplicemente attratta da storie che non si fermino al puro meccanismo tipico del thriller, anzi ci deve essere molto di più. Ovviamente sono un’estimatrice del Re King ma…il mio sesto senso per la tragedia e la miseria del genere umano mi ha portata nel Vermont con Il senso dell’alligatore di Guido Sgardoli.
Fin dalle prime pagine mi sono subito sentita a mio agio tra le pagine di questo libro.
Ho pensato: Il senso dell’alligatore parla di casa mia, come è possibile?
Sono nata in un piccolo paesino in cui è davvero difficile che uno straniero riesca a fare breccia nelle dinamiche sociali del luogo; la mia famiglia è un incrocio di varie culture importate da periodi di prigionie e lotte nelle trincee.
Non è importante che io non sia nata in Vermont ma che ho sentito Wytaco come fosse davanti a me, pregi e svantaggi inclusi.
Dove tutti sono una famiglia ed è quasi un miraggio pensare che qualcosa non sia affare di tutti ma altrettanto vero conoscere i pozzi in cui i tuoi concittadini nascondono le loro personalità più sopite.
L’approccio a questo libro mi è sembrato quasi naturale, come vi dicevo, mi sono immersa nelle dinamiche della cittadina e nello stonato arrivo di Larry Novak in una comunità così raccolta su sé stessa da arrivare ad essere considerata, agli occhi di un estraneo, poco più che un covo di zotici.
Larry è un forestiero, the new kid in the town, quello che tutti pensano di sottovalutare perché non conosce come funziona il mondo di Wytaco.
È un veterinario e ha acquistato la casa che precedentemente apparteneva ad un collega più anziano, Elmer Elroy, che desiderava trasferirsi in uno stato più caldo e come dargli torto!
Ma Larry non è solo questo.
Il senso dell’alligatore parla di una vita spezzata, di pezzi di vetro dai bordi taglienti.
Una volta la vita di Larry era diversa e, di colpo, un camion l’aveva mandata in frantumi.
Il suo lavoro, la sua fidanzata, suo padre…tutto perduto e i sette anni di coma lo avevano derubricato nella sala d’aspetto infinita in cui finiscono coloro che sono sospesi dalla vita.
Doveva essere stato un miracolo a svegliarlo. Di conseguenza, ora, doveva trovare un luogo in cui vivere questa nuova esistenza.
Possibilmente una cittadina raccolta, dove non essere colui che si era risvegliato dopo sette anni di coma.
Chi, dopo un trauma, non ha desiderato vivere in un luogo dove poter far finta che tutto quello che era successo nella vita precedente non fosse mai accaduto?
Volere una Casa in cui ricucire se stessi senza doversi giustificare è La Necessità in molti casi.
“Sperava di tornare a casa. Ci sperava, sebbene non ci credesse, così come non credeva a Babbo Natale o alla formica dei denti o agli alieni gentili come E.T., ma gli piaceva pensarci perché, finché non sai davvero se una cosa è vera o no, hai ancora la possibilità che lo sia.”
Per un attimo, qualche pagina e qualche capitolo Il senso dell’alligatore ricorda un romanzo di formazione o, per meglio dire un romanzo di ri-formazione.
Il racconto di una crisalide che tenta di passare al prossimo stato evolutivo.
Il mondo di Wytaco gira attorno agli affanni di Larry lasciandolo quasi “innocente” come un bambino nei confronti della tempesta che prima o poi arriverà.
Ognuno nel suo bozzolo è solo e rimettere insieme i pezzi non è operazione che possa essere imposta da altri ne tanto meno qualcuno possa obbligarti a ricucirli in una maniera che non sia tua.
Il dottor Novak crede di star facendo questo: affrontare i problemi come lui crede sia giusto per lui.
Per questo non si accorge dei lampi di luce.
Guido Sgardoli è un equilibrista che con perizia riesce a tenere Larry dentro la storia ma in una situazione sospesa nei confronti della cittadina.
Gli elementi che stanno addensando le nubi della storia sui tetti di Wytaco sono tutti davanti a voi.
Ed ecco che Il senso dell’alligatore, da narratore di crogiuoli di umanità sbeccate come la porcellana delle nonne che rimpinguano di torte di mele i loro nipoti, si appresta a divenire un palcoscenico di sospetti e manifestazione delle più oscure manifestazioni dell’animo umano.
A Wytaco, ogni tanto, un lupo sbrana una giovane vita e credere che si tratti di una triste serie di incidenti è sempre più difficile.
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“Ma, purtroppo per lui, l’ultima lezione che il piccolo Stevie imparò nella sua vita terrena fu che non basta evitare di pensare a una cosa perchè quella cessi semplicemente di esistere.
Buongiorno viaggiatori, oggi vi parlo di Come d’aria di Ada D’Adamo, romanzo tra i dodici finalisti al premio Strega 2023 che racconta come una malattia lega madre e figlia.
Credetemi quando dico che questa recensione è tra le più difficili che ho scritto.
Vi starete chiedendo il perché o forse lo immaginate già se avete seguito le notizie collegate al premio Strega.
Leggere questa storia è stato davvero complicato perché tante volte mi ha fatto capire quanto può essere dura la vita.
Un libro bellissimo che vale la pena leggere e a parer mio merita il podio al premio Strega.
La capacità dell’autrice di Come d’aria di raccontare come la malattia lega madre e figlia senza appesantire il lettore è stupefacente, vederlo al premio Strega mi rincuora.
Spero che la scomparsa dell’autrice, avvenuta dopo due giorni dall’annuncio della nomina nella dozzina al premio Strega, non influisca negativamente per paura di giudizi.
Una malattia che lega madre a sua figlia finisce tra i finalisti al premio Strega.
Premio che quest’anno si trova accusato di avere nella dozzina solo storie cariche di dolore, come se la malattia non fosse cosa reale da rispettare proprio per il carico che porta.
Una storia che colpisce duro, un pugno nello stomaco continuo.
La vita di una madre che per una mancata diagnosi non ha potuto scegliere se portare avanti una gravidanza che avrebbe dato la vita a una bambina con una grave invalidità.
Se aggiungiamo che nel gestire tutto questo la madre si porta addosso un brutto male che deve curare per salvarsi la vita, allora è lecito domandarsi quanto sia assurda e ingiusta la vita in certi casi.
Per me è stato doppiamente difficile leggere questa storia perché anche io sono madre e ho vissuto sulla mia pelle le difficoltà di Ada.
Ho avuto coraggio nel leggerla in un momento in cui la mia salute non è delle migliori e capisco quanto sia dura guardare tua figlia e non poterle dare le cure di cui ha bisogno perché non ne hai le forze.
Questa per una madre è una cosa devastante.
Leggetelo. Se ci sono riuscita io sono certa riuscirete anche voi.
Le parole di questa madre coraggiosa non devono andare perse. L’autrice ha avuto coraggio da vendere nel raccontarsi così.
Nonostante un destino crudele che si accanisce ingiustamente, Ada si racconta senza indorare la pillola e senza giri di parole con una lucidità che lascia senza fiato.
Una vita fatta di scelte e prove difficili. Una madre che si porta addosso una malattia che la lega alla figlia deve avere la salute per poter affrontare tutto.
Sapevo che ti divertiva sentire la mia voce, e io volevo che tu cominciassi la giornata ricordandoti sempre che da qualche parte, non lontano da lì, io c’ero ancora.
Una storia che ci fa riflettere su quanto sia importante vivere anche quando la vita si complica e diventa maledettamente difficile.
Ada non c’è più ma il suo coraggio e la sua determinazione resteranno per sempre nel mio cuore e spero anche nei vostri.
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Esaurito il dovere della cura, la giornata si apriva davanti a me.
Avevo solo lasciarmi inghiottire dalla sua bocca spalancata.
È giunto il momento per me di tirare giù dalla pila dei libri che ancora non ho letto un volume ho desiderato leggere fin dal primo momento che no ho visto la copertina. Il Premio Strega Ragazzi 2022 nella categoria 11+: Giuditta e l’orecchio del Diavolo opera di Francesco D’Adamo.
Una copertina e un titolo che ti ammaliano sono solo i primi passi verso una storia che ti stritola nel freddo dell’autunno del 1944.
In una vallata adagiata tra le Alpi, un giorno del nostro tempo, arriva uno scrittore che inciampa in una storia raccontata da un anziano del piccolo paese di Acquadolce.
È una storia che ha dell’incredibile e Tonino, l’anziano di cui vi ho parlato sopra, è sicuro che lo scrittore non crederà nemmeno ad una parola.
Giuditta e l’orecchio del diavolo è uno di quei racconti che si deve fare nel luogo in cui si originano.
Forse è per questo che Tonino porta il suo interlocutore in un luogo che di per sé è un mistero e una meraviglia: l’orecchio del diavolo, un muro brunito dalla forma concava da cui, dicono, si possono sentire le voci degli spiriti e dei morti.
È un luogo che attira la fantasia di popolani e grandi pensatori.
Nei secoli addietro persino un Tiranno greco fece scavare un luogo simile da cui poter sentire tutti i sussurri dei suoi prigionieri, lo possiamo ammirare a Siracusa ed è noto come L’orecchio di Dioniso.
Questo genere di muri veniva costruito durante la prima guerra mondiale per poter avvertire l’arrivo dei nemici e poter correre ai ripari.
Tonino inizia il suo racconto e da subito si avverte il freddo, l’urgenza, la paura e al contempo la costrizione che l’Italia tutta viveva nel 1944.
Il padre di Tonino era il capo di un gruppo partigiano. Un uomo enorme che nell’immaginario dei suoi due figli era un eroe di Salgari e per questo lo avevano soprannominato Sandokan.
Sandokan e i suoi vivevano lontani dalle loro famiglie, in quei luoghi dove nemmeno gli spiriti oserebbero andare se solo provassero freddo e paura.
Le famiglie vivevano in maniera semplice e i bambini vivevano di storie di avventure, racconti partigiani e lavori dei campi o nelle stalle con le bestie.
In paese non vivono solo le famiglie di coloro che lottano per la libertà ma, come c’è da aspettarsi, anche quelli che si sono conformati ai dettami del regime nazifascista ma, da “Bravi” quali sono, non osano denunciare i loro concittadini partigiani perché troppo impauriti dalla fama di Sandokan e da quello che farebbero loro le famiglie dei partigiani, parroco compreso.
Giuditta e l’orecchio del diavolo è una storia partigiana.
Una storia corale che esprime tutto il suo coraggio a partire da una ragazzina arrivata in una notte buia in casa di Tonino e suo fratello Giulio.
Giuditta è ebrea e i suoi genitori sono stati portati via dai “Todeschi”, soccorsa da amici della resistenza viene portata ad Acquadolce perché sia al sicuro.
Caterina, la madre dei due ragazzi, aveva dovuto decidere in fretta e senza il consiglio di suo marito: prendere o non prendere in casa una bambina bisognosa, cieca ed ebrea.
Delle volte il coraggio si nasconde nei gesti d’impulso.
Giuditta è una ragazzina strana, tutti credono che sia una strega e tutti la conoscono come Maria figlia della zia di Tonino e Giulio.
Giuditta è forte, indipendente e illuminata da un fuoco che può ardere solo in chi conosce nel profondo il terrore ma sa piegarlo a proprio favore.
È solo una bambina direte voi.
È più coraggiosa di molti di noi vi dico io.
Vede molto meglio di tutti noi, anche senza poter usare i suoi occhi che sono specchi verso il profondo dell’animo umano.
In compagnia di cane Giuseppe, ogni giorno siede al trono dell’orecchio del Diavolo e ascolta…
Si dice anche che la bambina parli con gli animali.
Non so dirvi se questo sia vero ma cane Giuseppe, che non aveva mai ubbidito prima, ora è la sua spalla fidata e verrà insignito della bandana partigiana.
Cane Giuseppe è finalmente la vendetta di Useppe e Bella de La Storia della Morante e si prenderà quello che è suo: la giustizia per la sua sorte e nessuno si dimenticherà più di cosa veniva fatto ai bambini del suo tempo.
Questa è una mia suggestione ma i libri servono anche a questo.
Giuditta e l’orecchio del diavolo non è una storia facile anche se è scritta per ragazzi.
Con un registro di facile comprensione Francesca D’Adamo sferza ventate di gelo a chi ancora non ha compreso che fare la cosa giusta non è affare ad appannaggio esclusivo degli eroi.
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Fare le scelte giuste non è difficile come sostiene qualcuno. È facile, perbacco, l’hanno capito anche i lupi!
Nel 2021 ho letto e recensito la monografia RiLL di Valentino Poppi e me ne ero innamorata, il caso o la fortuna ha voluto che nel 2023 io e il pluripremiato vincitore del Trofeo RiLL ci rincontrassimo per il suo nuovo libro: Fuga da Amaltea, edito per Tabula Fati.
Valentino è un ingegnere elettronico e vive a Bologna, la sua specialità è la fantascienza e la sua penna è affilata quanto un rasoio.
La sua scrittura è precisa, lo vedrete anche voi quando leggerete il suo libro, ogni immagine che trasferisce sul foglio diventa realtà.
Insomma, non potete sfuggirgli!
Fuga da Amaltea è un’avventura rocambolesca dove i “buoni” sono delle figure che tendono più al grigio che al bianco nella scala ideologica dell’umanità.
Se avete amato i libri di Philip K. Dick, l’autore del libro che ha inspirato Blade Runner e la serie L’uomo nell’alto castello, sappiate che con Valentino Poppi siete in buone mani.
Torniamo a Fuga da Amaltea.
In un futuro, davvero non molto lontano, in cui il pianeta Terra è diventato depositario di una conoscenza tecnologica che ora possiamo sfiorare con l’estremità delle nostre dita, un uomo che risponde al nome di Alex Saw viene imprigionato in una struttura detentiva per aver assassinato, non in maniera del tutto volontaria, il sindaco di una città.
Fino a qui, voi amanti dei polizieschi in genere direste: nulla di nuovo sotto al sole e vi vedo che state annuendo con le vostre belle testoline.
Anche io avevo sbagliato strada.
Dovete uscire dalla modalità (quanto è bello non usare il corrispettivo in inglese) in cui dovete risolvere il caso Saw, non è questo che dovete fare.
Alex Saw sa badare benissimo a se stesso, non temete.
La situazione è molto più ingarbugliata.
Sto pensando, mentre scrivo, a come avvolgervi e intrappolarvi tra i cunicoli di questa storia senza dirvi troppo perché qualche piccolo indizio l’ho già disseminato nelle righe precedenti.
Vediamo…
Gli “eroi” di questa storia devono, come dice il titolo, attuare la loro Fuga da Amaltea ma dove si trova questo luogo?
Amaltea è uno dei satelliti naturali del pianeta Giove e potrebbe (forse in futuro) ospitare un luogo in cui i detenuti vengono inviati a fare quello che oggi chiamiamo “lavori socialmente utili”.
Questo sito però, informazione data dai computer, risulta dismesso per un incidente ma vi vengono lo stesso inviati carichi di prigionieri.
Qui inizia il mistero e la fuga.
Saw e i suoi compagni hanno a disposizione un’intelligenza artificiale piuttosto recalcitrante, dei dispositivi olografici e delle tute molecolari, una nave con un computer di bordo dalle direttive molto precise e, come sempre accade, l’attrezzo più utile di tutti in questo frangente: il cervello.
Non c’è una regola che non possa essere aggirata in una qualche maniera ma avete davvero poco tempo per pensarci e non sarà affatto facile elaborare piani sotto pressione costante, questo non è un film con Tom Cruise e non ha la psicologia romantica di Blade Runner.
Avete un solo compito: la Fuga da Amaltea!
Veloci.
Rapidi.
Ah dimenticavo: Non dovete farvi uccidere.
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