Cari viaggiatori,dopo aver letto il titolo vi starete domandando se la mia prossima proposta sarà quella di un viaggio fra abiti da sera, autoreggenti e vecchie canotte di lana del nonno; niente di tutto ciò, Il Guardaroba è un duro viaggio dentro il corpo di una donna.
Un bisturi in mano, affilatissimo e una donna che ha deciso di farsi a pezzi in una cruda e poco asettica analisi delle proprie parti.
Dentro pezzi di carne si nascondo traumi che solo il corpo sa celare.
Nuda, fin dentro le budella. E ancora Nuda, oltre la visione mercificatrice del corpo femminile. Nuda da fare ribrezzo, in vetrina come in una macelleria.
Ecco Il Guardaroba che dovete aspettarvi.
Un’autopsia dell’intimo più profondo, delle emozioni più forti, dei dolori più laceranti.
Ogni libro inizia dalla copertina e già qui la Houdart non ci risparmia: in mezzo ad uno sfondo bon-ton troneggia la testa di una signora truccata grossolanamente il cui collo si trasforma nella parte inferiore di un appendiabiti.
Non vi svelo ciò che è appeso, ma già l’idea che al posto del gancio ci sia la testa, suscita in me una serie di pensieri sulla sopportazione di carichi emotivi e psicologici che il corpo di una donna deve affrontare.
Appesi a quella testa/appendiabiti potrebbero esserci delle mammelle con figli aggrappati, camice stropicciate con ferro da stiro annesso, ma anche etichette di conserve fatte in casa e di comportamenti adatti per le serate in società.
La mia testa viaggia lontano dentro questa immagine e mi rendo conto di non aver ancora aperto il libro illustrato.
Non credo ad una vita ultraterrena; comunque porto sempre con me la biancheria di ricambio Woody Allen
Inizia tutto con il compimento dei quarant’anni, come un passaggio rituale la Houdart decide che è giunto il momento di guardarsi veramente dentro per conoscersi meglio.
Partorisce dunque Il Guardaroba per mettere in mostra ciò che ha scoperto nelle sue interiora e nei suoi organi.
Le pagine contengono immagini molto forti, di una bellezza macabra, immagini crude a cui è stata strappata via la maschera del perbenismo .
Gli occhi si aprono forzatamente dentro Il Guardaroba, tra disgusto e morbosa curiosità incontriamo amanti fra i graffi intorno ai capezzoli, cuori strappati ed ingabbiati, bambini mai partoriti in una nera foresta.
Il dolore diventa veste, il trauma un accessorio da indossare.
Difficile da digerire, eppure meraviglioso.
Un libro illustrato che non lascerà indifferente chi ama viaggiare dentro le immagini cogliendo, nelle parole che l’autrice ci suggerisce, solo lo spunto per partire.
Poi c’è solo il viaggio, intimo, dentro ognuna di noi, dentro il proprio vissuto.
Un viaggio che parla della crudeltà a cui troppo spesso viene sottoposto il corpo femminile,e di umiliazioni che si depositano nelle ovaie e fanno crescere embrioni di risentimento.
Il Guardaroba ha aperto una breccia nel mio cuore con un bisturi e mi sono innamorata follemente di Emmanuelle Houdart e delle sue opere.
Quando ho letto il titolo di questo libro, nella mia mente si sono create immagini che rievocano scenari ancestrali. Naomi Mitchinson, nel 1931 circa, scrive Il Re del Grano e la Regina di Primavera, edito nella nuova traduzione per Fazi nel 2022 e inserito nella collana Lainya.
Questo libro è considerato uno dei capolavori del fantasy e, anche se con qualche riserva, si può dire che la fama sia meritata.
Ma Il Re del Grano e la Regina di Primavera è molto più di questo.
Cosa non sapete de Il Re del Grano e della Regina di Primavera?
Normalmente non leggo le altre recensioni scritte in merito a libri che sto analizzando per non essere, in qualche modo influenzata dai giudizi altrui ma, questa volta l’ho fatto.
Potete leggere che questa è la storia di Erif Der (la Regina di Primavera) e di Tarrik (il Re del Grano), di come l prima cercò, per ordine di suo padre e suo fratello, di ammaliare con la magia Tarrik per poter poi ottenere il potere sulla comunità di Marob.
Il che non stava a significare avere solo il potere politico ma anche quello religioso.
Scoprirete che Marob non è una città esistita ma immaginaria all’interno del territorio degli Sciti e che in questa popolazioni le donne sono detentrici di poteri magici.
Vi diranno che Erif Der e Fililla (uno degli altri personaggi femminili) sono l’emblema di donna che lotta contro una società patriarcale e che, attraverso la forza di volontà e un carattere incandescente, ottiene un’emancipazione dai costumi sociali della sua epoca.
Tutto questo è vero, ma c’è molto di più. Altrimenti nelle 790 pagine di questo libro vi perdereste senza trovarne il capo e la coda.
Cosa, quindi, c’è da scoprire ne Il Re del grano e la Regina di Primavera?
Siamo pressappoco in età ellenistica, Alessandro è già passato a miglior vita (cosa che davvero gli auguro) e i diadochi hanno messo a ferro e fuoco il suo impero riducendolo in frantumi.
La narrazione inizia in Scizia, territorio più o meno compreso tra il Volga e il Dnestr (per aiutarvi è, grosso modo, il luogo in cui oggi si combatte una guerra), e tocca molti altri territori famosi: Sparta, Megalopoli e Alessandria.
Alcuni dei personaggi sono realmente esistiti, come potete constatare dalla casa regnante di Sparta che dei fasti dell’antica città guerriera ha ormai solo il nome.
Ma fino a qui non vi ho ancora detto cosa non avete ancora scoperto di questo corposo ma bel libro.
Non fatevi fuorviare dalla ricerca della bellezza di Berris, dalla fame di toccare l’intangibile di Tarrik e dalla lotta all’emancipazione di Erif e Fililla.
Il Re del grano e la Regina di Primavera nasconde il suo vero significato in un capitolo che potrebbe passare inosservato.
Sto parlando della cerimonia del raccolto. Tutte le culture toccate da Naomi Mitchinson hanno in comune la celebrazione del raccolto, è un rito di passaggio ed è qualcosa di ancestrale per ogni popolazione a prescindere dai riti religiosi che questa pratichi.
Sapete cosa hanno in comune tutte queste popolazioni nel libro?
Tutte sono in un momento di mutamento in cui l’ordine è sul punto di spezzarsi, sono tutte in un inverno in cui solo un apparente distruzione invernale può portare alla rinascita primaverile.
Affrontare un “male” necessario per consentire alla terra di rinascere, questo avviene in natura e nelle civiltà, anche se gli esseri umani spesso hanno modi davvero discutibili di mettere in pratica questo meccanismo di rifioritura.
La Mitchinson crea una storia che solo in apparenza è una storia tra ragione e sentimento, tra filosofia e magia, in questo il suo amico Tolkien le ha ben insegnato.
Nascondere tra le trame la struttura di segreti che, forse, non hanno bisogno di essere spiegati a chi vuol intendere.
C’è ancora molto altro da scoprire e non sempre i protagonisti ve lo renderanno facile!
Vi auguro una buona lettura e fatemi sapere cosa ne pensate.
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Ari il campo, ma non è tuo. Perchè il campo dovrebbe ascoltarti? La terra chiusa non vuole l’aratro, e fredda e dura sarà per il seme. Perchè dovrebbe venire la primavera?
Galleggiare tra fluidi confusi e torbidi di scontate o inattese Parole, troppo spesso poco veritiere, altrettanto spesso scarsa espressione dei pensieri.
Eppure basta cercare la corrente giusta, quella che tira sotto, nei pensieri oscuri e nei silenzi che succhiano l’ossigeno direttamente dai polmoni, lasciandoci senza fiato, alla disperata ricerca di un nuovo respiro, di una nuova, vera parola.
Parole è un albo illustrato da Raùl Nieto Guridi, un tuffo nel colore pieno, deciso, quasi un’impronta dentro la testa.
Visi, profili, bocche serrate, bocche spalancate e fiato, tanto fiato per buttare fuori tutto ciò che è stato seppellito.
I visi si guardano, comunicando in mille linguaggi, uno di fronte all’altro, a testa in giù, visi che sovrastano e visi che si nascondono, illustrati in una sapiente ed espressiva gradazione di colore.
Ci sono tentativi, urla, incapacità ad esprimersi, confusione, risentimento, sensi di colpa e sempre di più ci si sente travolti dal vortice delle emozioni.
Non conta il numero di parole, ma l’intensità con cui esse vengono scagliate contro le nostre orecchie.
Allora ecco che ogni immagine diventa fucina ardente di emozioni, trasformazione continua, crescita personale e caduta nel baratro di nuove, dolorose consapevolezze.
Guridi è uno sperimentatore, un esploratore dell’arte stampata, una freccia in grado di bucare il foglio ed insinuarsi, pagina dopo pagina, all’interno della nostra mente espandendosi gradualmente, costringendoci a sentire anche quando vogliamo solo infilare le dita dentro le orecchie.
Un cammino dentro tutto ciò che non ci siamo mai concessi di dire, dolorosissimo, dentro l’anonimato di visi comuni, un nodo che solo noi possiamo decidere se sciogliere o lasciare marcire dentro.
In silenzio chiudo l’ultima pagina, identica alla prima, mi sembra un invito a ricominciare in ogni senso, mi sento dentro una spirale dove ogni nuovo giro non è mai uguale al precedente, o forse lo è, ma io non sono già più la stessa.
Non solo un albo illustrato, un microcosmo, un pezzo d’arte da custodire gelosamente.
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Leo cosa succede? è la storia di un leoncino che si sveglia triste, sente che qualcosa non va, i suoi amici cercano di coinvolgerlo in varie attività pur di farlo tornare a sorridere.
Provano e riprovano in tanti modi, ma il viso di Leo è sempre triste.
Lina la scimmietta però è convinta di avere la soluzione, abbraccia il leoncino che finalmente ritrova il sorriso.
Questo di cui vi parlo oggi è un albo illustrato in grado di mostrare anche ai lettori più piccoli il valore di un abbraccio, l’importanza di un gesto spontaneo che arriva dritto al cuore e degli sforzi che fanno gli amici quando qualcuno del loro gruppo no è felice.
Giada, due anni, ha apprezzato moltissimo le illustrazioni molto colorate e vivaci, che rappresentano lo scenario della giungla a cui le è molto legata.
IL racconto è composto da piccole e semplici frasi, spesso ripetitive poiché Leo risponde spesso “no grazie” stimolando Giada a replicare la frase del leoncino. Durante la lettura di questo albo mi sono trovata a condividere con mia figlia le emozioni attraverso il viso del protagonista e dei suoi amici. Mi sono divertita molto a vedere la mia bambina cercare di imitare le espressioni di Leo man mano che incontrava i vari animaletti.
Un libro imbevuto di colore e tenerezza che pervade sia i genitori che i bambini.
Un libro da leggere e osservare insieme per tornare ad apprezzare il valore dei piccoli gesti che spesso sono in grado di far tornare il sorriso.
Dopo la lettura Giada ha compreso anche quanto un abbraccio possa essere curativo, infatti immaginava con i suoi giochi degli scenari simili e se in famiglia capitava qualcosa che ci rattristava, lei era subito pronta a guarirci con un abbraccio.
Le immagini sono ricche di particolari e molto vivaci, rispecchiano la semplicità delle parole, gli amici che si avvicinano a Leo sono sempre sorridenti e pronti a proporre attività e giochi per divertirlo, ma a Leo mancava proprio l’affetto di un abbraccio che sa scaldare anche i cuori riportando la felicità nel viso del leoncino e spazzando via il malumore.
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Se vi portassi a fare un viaggio a poche miglia dalla costa ligure? Andiamo a Zoagli, una piccola isola in cui non va mai nessuno e che è apparsa nelle tele di Arnold Böcklin. La chiamano L’isola dei morti, anche se il pittore la dipinse chiamandola “un luogo tranquillo”. Io l’ho scoperta quando Fabrizio Valenza mi ha donato una copia del suo libro: L’isola dei morti.
Ora che vi ho affascinato con questa tela dal fascino mistico e che siete volontariamente con me su questa barchetta in mezzo al mare, ora che non potete tornare indietro se non a nuoto, vi informo che è il 1885 e che non esistono il GPS e il cellulare e sull’isola non c’è che UN telefono ma l’unico numero che potete comporre è quello per richiamare il vostro Caronte.
Non preoccupatevi, né Dante né Virgilio verranno a salvarvi e, in fondo, non ce n’è bisogno. Andiamo in un posto tranquillo.
Di recente hanno tutti una passione morbosa per Mercoledì di Tim Burton ma io la amavo quando ancora il pubblico internazionale la riteneva la degna figlia di una coppia fuori testa, quando se ti chiamavano Mercoledì o Morticia era per insultarti e non per farti un complimento.
E questo cosa centra con L’isola dei morti?
Niente ma volevo dirvi che quando si parla di comportamenti riguardo alla morte io ci sono.
Un archeologo che non osa andare dove va un antropologo culturale sarebbe lo zimbello di tutti.
Potete accorgervene già dal dipinto, chi non ha pensato ai Re stregoni di Angmar guardando quelle sponde, evidentemente non ha una passione per Tolkien e forse nemmeno per Tim Burton, ma di fronte a voi ci sono grotte che sembrano tombe.
Andrea Nascimbeni è un antropologo e decide di voler indagare sul luogo, sulle tradizioni del luogo in merito alle inumazioni e come queste siano rimaste intatte nonostante il cattolicesimo.
Ve l’ho già detto che L’isola dei morti non è una meta turistica?
Il nostro studioso si accorge presto che c’è qualcosa di molto più che misterioso in questa isola. Sì, perché nessuno ne vuole parlare e chiunque fa di tutto per distoglierlo dalla sua intenzione.
Vi svelo in segreto: nessuno può dire a uno studioso dove non può andare a ficcare il naso. Se conoscete Indiana Jones o Lara Croft lo sapete bene.
Se avete sentito qualche diceria sulla spedizione che scoprì la tomba di Tutankhamon, ecco ora sapete anche che può non andare come speravate. Ma la storia sulla maledizione non è vera, non credete a tutto diamine.
Andrea, che forse ha più spirito di sopravvivenza di quanto lui stesso crede, si presenta a Rosina (che è la proprietaria dell’unico posto che potete chiamare locanda) con un nome diverso.
Forse perché qualcosa, oltre alle rimostranze di tutti riguardo al viaggio, non lo convince.
Nemmeno la locandiera lo vuole lì. Andrea insiste a chiamare il luogo L’isola dei morti, Rosina dice che per gli abitanti quel luogo non ha nome.
La locanda si chiama L’ultimo posto, vi è chiaro?
In effetti l’antropologia del luogo è singolare e il Nascimbeni se ne accorge prestissimo.
Benedetto ragazzo, una delle prime raccomandazioni che gli è stata fatta è quella di non farsi vedere dagli abitanti; la seconda è di andarsene prima del 32 di ottobre.
No, non mi sono sbagliata.
Durante il vagabondare del nostro personaggio, si è profilata davanti ai suoi occhi una pletora di individui che potrebbero farvi giungere ad una conclusione sbagliata, è successo anche a me.
Ma, come vi dicevo prima, non bisogna credere a tutto.
L’isola dei morti non si chiama così per il motivo che credete voi.
Alti cipressi adombrano il teatro di camere funebri che Andrea non tarda a trovare a caro prezzo.
Tra tutte le ipotesi che potrebbero giustificare una tale consuetudine funeraria, non sono sicura che il sesto senso di Andrea abbia subodorato quello esatto.
Io lo avevo immaginato? Sapete, quando noi studiosi siamo abituati a conoscere le abitudini di popoli molto antichi, anche quando questi popoli delle loro abitudini non ci hanno lasciato nulla se non i luoghi, ci capita spesso di fare la cosa più semplice: ovvero metterli in correlazione.
L’Isola dei morti non ha abitudini diverse da altre culture, solo che, per il nostro cervello, la possibilità che queste si verifichino in una società occidentale e sotto al sole della cattolicissima chiesa di Roma, rende la supposizione improbabile.
Quindi se una cosa sembra improbabile, viene scartata e capita di fare la figura degli sciocchi. Può capitare che alla fine tocchi riscrivere la storia delle scoperte sull’Umanità, non è una tragedia.
L’isola dei morti è antica e vive nel mondo al tempo presente.
Insomma, se nessuno vuole che gli esterni si facciano gli affari loro una ragione ci deve essere, giusto?
Quando la scopriremo sappiate che qualcuno deve chiamare Caronte, che si chiama Andrea anche lui, e deve farlo anche in fretta prima che succeda l’irreparabile.
Vi avevo avvertito che qui urlare AIUTO non sarebbe servito, vero?
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Mi auguro che ciò che leggerete nelle seguenti pagine, a voi solo dirette e non per gli occhi della Scienza, non vi induca a giudicarmi, ma che, anzi, possano muovervi a pietà della mia vita e della disperazione che la corrode.
Tra tutti i personaggi femminile della storia antica che nella mia vita da lettrice e da storica, ho conosciuto, lo ammetto: tutte mi aspettavo tranne la più improbabile di tutte. Antonella Prenner, per Rizzoli, pubblica Il canto di Messalina.
In fondo, perché no?
Perché la scandalosa imperatrice di Roma non dovrebbe aver voce, in questo periodo storico, in cui tutte le eroine delle leggende prendono voce per smascherare l’ingiusto trattamento che è stato riservato loro?
Figlia di Domizia Lepida, nipote della sorella di Augusto, e di Marco Valerio Messalla Barbato, Messalina è, se non la più famosa, una delle più famigerate matrone della casa imperiale.
Antonella Prenner, forse ha infiorettato la vita di questa giovine, ma ci restituisce una Valeria Messalina viva e ebbra di passioni.
Sapete, quando ho visto questa pubblicazione, mi aspettavo che la scrittrice mi avrebbe raccontato di una Valeria Messalina che le fonti avevano distorto, che mi avrebbe narrato un’imperatrice distrutta ingiustamente dalla tradizione che ne ha narrato le gesta.
Mi aspettavo un libro in cui non mi sarei riconosciuta come storica e che avrei storto il naso ben più di qualche volta.
Come è andata? Il canto di Messalina è un canone inverso, è una melodia dissonante e straziata.
Non sono così abile con le parole, probabilmente non riuscirò in poche righe a dirvi cosa c’è da sapere su questo personaggio ma farò quello che posso.
Valeria Messalina prende il suo nome dal padre, le ragazze del suo tempo non hanno la possibilità di ricevere un nome scelto tra milioni di possibilità.
A Roma le ragazze ereditano il nome della loro Gens paterna.
Le donne romane erano più libere delle donne greche, soprattutto quelle nate nelle famiglie più abbienti, ma non pensiate che potessero avere chissà quale margine di azione.
Non avrebbe mai potuto scegliere di sposarsi per amore, nemmeno se suo padre fosse stato vivo lo avrebbe permesso.
Era davvero molto giovane, per i canoni moderni lo sarebbe stata troppo.
Il canto di Messalina cosa vi mostra che ancora non sapete?
Suppongo che nell’immaginazione di tutti, Messalina sia quanto di più vicina ad una donna che si può definire poco virtuosa.
Famosa per i suoi complotti, per gli omicidi commissionati e per la libertà discinta nell’amministrare il suo corpo.
A suo confronto, le accuse degli storici mosse contro Livia Drusilla, Giulia e Agrippina maggiore sembrano delle reprimente per educande.
Messalina e il suo canto… non c’è giuria che possa assolverla, nemmeno al giorno d’oggi.
Il canto di Messalina, ve l’ho già detto: non è una melodia pastorale, non è un valzer.
La sindrome di Messalina è un fenomeno riconosciuto dalla psicologia e vi rimando alle pubblicazioni scientifiche per sapere di cosa si tratta ma posso dirvi che i nomi delle sindromi non spiegano la personalità della persona che dona loro l’appellativo.
Fatico a trovare le parole per questo libro che mi ha sorpreso. L’ho letto in due giorni e mi ha completamente stravolta.
Messalina NON è una vittima, l’imperatrice vive in una follia dissociativa.
È difficile accettare, per noi ma anche per le persone come Messalina, che ci sia qualcuno al mondo che non percepisce la realtà di quello che si percepisce e che si vede. Queste persone insistono di essere nella ragione e per chi sta loro attorno è un gioco al massacro.
L’atmosfera della lettura di questo spartito è dissonante.
Il canto di Messalina è la strozzata cacofonia di una musica che suona nelle orecchie di chi la canta in maniera differente di come arriva a chi la ascolta.
La danza di una menade che non ha visto finire il baccanale e ancora balla senza la musica ad accompagnarla.
Questa è una marcia di morte e la giovane Valeria Messalina non se ne accorse prima del barlume d’argento.
Vorrei che teneste a mente questo, perché nel libro è ben presente quest’atmosfera: Messalina cercherà di irretirvi alle sue ragioni ma, davanti a voi, è ben presente la realtà che lei sta distorcendo.
Potreste essere in accordo sul fatto che è stata data in sposa ad un uomo molto più anziano di lei e che lei non volesse.
Suo marito fu scelto dai suoi genitori su consiglio dell’imperatore, non è nulla di strano per quel tempo, ma Caligola non era una persona a cui si potesse dire di No.
Claudio non solo era anziano ma anche claudicante e balbuziente. Insomma, per una bellissima giovane quale era Messalina, non era quello che si dice un adone.
Roma, ahimè, non è governata da sentimenti o da favole ma da alleanze.
Chi ha mai avuto tra le mani l’Apolokyntosisdi Seneca ha un’idea di come lo zio di Caligola apparisse ai suoi detrattori.
Messalina ha molti spettri nella mente che si agitano convulsi: Valerio Messalla, Giulia e Agrippina Maggiore. La giovane imperatrice coltiva questi nomi come miti senza rendersi conto che le loro storie non sono la sua.
Messalina è arrogante, talmente da non comprendere. Non ascolta nessuno finché non sente quello che vuole lei.
Non vi confondete: Valeria Messalina NON è un eroina moderna.
Non ha bisogno di amore ma di assoggettare le volontà ai suoi capricci.
Si dice che nella gens giulio-claudia scorresse il gene della pazzia e forse è così ma…
Messalina canta alla sua cara luna una canzone non sente nessun altro.
Si è prefissa una missione che non aveva motivo di esistere, ha compiuto atti indicibili per il puro piacere di esercitare un potere che era il riflesso della luce di altri.
Lei guardava l’uomo che era stata costretta a sposare ma non vedeva Claudio.
Eternamente insoddisfatta per i motivi più volubili, tenterà di convincervi che il mondo è contro di lei.
Tenterà di essere la sirena che vi conduce nelle profondità del mare.
Non c’è davvero giuria che potrebbe assolverla. Non c’è coro che potrebbe assecondare la sua musica, nessuna Circe a comprendere i suoi incantesimi. Nemmeno Medea comprenderebbe la sua ira.
A differenza delle donne che Messalina prende ad esempio per giustificare la sua condotta, Livia Drusilla e Tiberio non avrebbe dovuto mandare nessuno a metterla a tacere: non c’è bisogno di far uccidere chi si distrugge da solo.
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Era felice perchè vedeva il suo proposito vicino, le mani sulla pelle di suo marito flaccida, pallida, fredda di morte, lo avrebbe accarezzato, trafitto da una spada o rosso di sangue ancora fresco, oppure livido al collo per il segno della corda, gli occhi sbarrati in cerca del respiro interrotto, e gli avrebbe dato un bacio sulle labbra esangui, l’ultimo, l’unico vero. Ma possibile che felicità significasse dare la morte?
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