Buongiorno lettori, oggi dedicherò questo spazio per parlarvi del primo capitolo della Trilogia Imperial Radch”, “Ancillary Justice”, dell’autrice di fantascienza pluripremiata, Ann Leackie, pubblicato da Oscar Mondadori Vault.
Ann Leckie (Toledo, Ohio, 1966), da sempre appassionata di fantascienza, ha esordito nel 2013 proprio con Ancillary Justice, vincendo tra gli altri i premi Hugo, Nebula, BSFA, Arthur C. Clarke e Locus. Anche i successivi volumi Ancillary Sword (2014) e Ancillary Mercy (2015) hanno vinto il Locus e sono stati finalisti al Nebula. Nello stesso universo di Ancillary sono ambientati il romanzo Provenance, di prossima pubblicazione in Italia per Mondadori, e i racconti Il lento veleno della notte e Lei Comanda e Io Obbedisco, compresi in questo volume. Nel 2019 Ann Leckie ha pubblicato il suo primo romanzo fantasy, The Rave Tower.
È doveroso, prima di parlare di questo romanzo, fare un cenno alla nota del traduttore che trovate nelle prime pagine.
“Quella Radchaai è una cultura che non bada alla distinzione fra i generi sessuali, e questo si riflette sul linguaggio: dato che il genere non è importante, per consuetudine tutte le persone vengono indicate con il pronome femminile”.
Altrettanto importante è dare una breve definizione al Radch che dà il titolo alla trilogia: il Radch è un impero millenario, dove migliaia di corpi sono al servizio di intelligenze artificiali. All’interno di questo mondo convivono coscienze umane e coscienze artificiali. Queste ultime sono rappresentate dalle astronavi, a tutti gli effetti delle entità vive, dotate di raziocinio, capaci di provare gioia e dolore. La storia è raccontata, proprio, da un’intelligenza artificiale. La Justice of Toren, un’astronave, anzi, da una delle sue Ancelle, One Esk. Le Ancelle sono entità create partendo da corpi umani modificati.
One Esk condivide con la Justice of Toren i ricordi e la consapevolezza. Ma è anche un’entità indipendente, capace di provare emozioni, perfino rabbia, frustrazione o piacere. È sorprendente come l’autrice ci mostri One Esk, (o Breq, come si fa chiamare), come se non esistesse alcuna differenza tra lei e l’essere umano.
Per chi come me è orfana di Star Wars è affascinante quanto questo mondo fantascientifico, pieno di azione e di guerre spaziali, mi abbia intrigato, coinvolta e portata a leggere tutta d’un fiato la trilogia. All’inizio sarete spaesati, confusi, perché la storia non è solo originale, ma decisamente complessa. Anche l’uso dei pronomi tutti al femminile non aiuta. Eppure, procedendo con la lettura, diventerà via via molto più facile comprenderne il meccanismo.
Vi garantisco, che terminato il primo romanzo, quel mondo alieno vi sarà totalmente familiare.
Ancillary Justice è un libro da sorseggiare, anzi, degustare con cura, per riuscire ad apprezzarlo come merita.
Ancillary Justice, trascende la mera definizione di Space Opera, perché se lo scenario è quello colorato di Star Wars, le riflessioni che ne derivano sono molto più complesse. Si parte dal concetto di umanità, anche cosa è umano e cosa no, per arrivare a una approfondita valutazione sulla coscienza di genere, quanto mai attuale nel periodo storico che stiamo vivendo. La voce narrante, l’ancella Breq, dal presente ci trascina nel suo passato.
Presto dimentichiamo che a raccontare la storia è un androide, un cyborg, estensione di una gigantesca astronave, per quanto ultra evoluto. Un libro consigliato a tutti, non solo agli appassionati di Sci-Fi. Spero di leggere altri libri di questa sorprendente autrice.
Lo ammetto prima di ogni altra cosa: la copertina di Le Impure di Kim Ligget non mi piace e non mi piaceva quando ho deciso che lo avrei letto.
Perché?
Il colore mi ricordava qualcosa di zuccheroso, il volto di profilo sembrava la raffigurazione della ragazza perfetta e baciata dai doni di Madre Natura.
Tutto mi lasciava presagire che avrei trovato una storia trita e ritrita basata su un femminismo irreale ma tanto in auge anche se svilisce la verità della questione che vorrebbe valorizzare.
Chi non sceglie libri anche lasciandosi guidare dalle loro vesti grafiche, forse, non mi può comprendere ma il colpo d’occhio è uno dei miei criteri di scelta.
Mi capita di sbagliare? Ovviamente.
Se Le Impure non mi fosse stato consigliato da chi pensava che lo avrei apprezzato, nonostante la copertina, non starei qui a parlarne con voi.
Non è stato primo amore tra me e Le Impure, ci siamo osservate da lontano e siamo arrivate ad avere il primo appuntamento. Uno di quei Rendez-vous per cui non si hanno grandi aspettative e ci si aspetta di essere delusi.
Insomma, ho detto all’altro libro sul comodino che se non fossi arrivata a prenderlo in mano entro una certa ora, avrebbe dovuto chiamarmi per fingere un’emergenza.
Come è andata? Quando la chiamata è arrivata, ho rassicurato che l’appuntamento non era poi così malvagio e sarei rimasta in attesa.
Sono stata ben ripagata di questo mio azzardo: le pagine di sono guadagnate il mio tempo e il mio apprezzamento.
Le Impure è un libro che ho amato?
Non sono sicura della risposta che dovrei dare.
Questo è un libro dall’ambientazione distopica che strizza l’occhio alle opere più famose della grandissima Atwood.
E come tutte le storie con questo tipo di caratterizzazione, ci si trova in una bolla di realtà dove non è importante il luogo degli avvenimenti, nemmeno è determinante il tempo (ammiccare ad un’epoca storia piuttosto che ad un’altra è un mero gioco di costruzione della storia).
La narrazione è per sua natura esacerbata e portata a toccare il limite di un’incredulità che sfonda la parete della dimensione del reale ed è talmente forte il paradosso che ci si trova catapultati un realismo inaspettato e bruciante.
È un gioco di confini sottili ma taglienti e non è facile giocare con le lame se hai paura di tagliarti.
Torniamo a Le Impure.
In un villaggio che fa pensare ad una comunità religiosa conservatoria dei costumi medievali, le ragazze che raggiungono l’età di 16 anni vengono mandate per 365 giorni, il loro Anno di Grazia, in un luogo lontano dal villaggio in cui staranno per liberarsi dalla loro magia.
Perché? Le esponenti del sesso femminile, nel momento della loro maturità, sembrano possedere la malìa concessa da poteri che solo il demonio potrebbe aver concesso loro. Quindi la comunità governata da soliti ignoti, le obbliga a rendersi pure e questo le aiuterà a tornare nella società pronte ad obbedire, essere madri e svolgere il loro ruolo nella società: madri e soprammobili.
Non è una caccia alle streghe, la comunità di Garner County non si mette a cercare nessuna praticante di arti magiche, da solo per scontato che lo siano tutte e quindi siano Impure.
In un mondo distopico non è importante nemmeno il tipo di culto, tutti sono uno e uno sono tutti, funziona così: sono tutti reali perché così è nella realtà.
Cosa accade in quel luogo in cui si viene mandate per essere libere dal peccato?
Iniziamo con il confessare che prima di partire “le elette”, Le Impure, subiscono la cerimonia del dono del velo. Quando saranno pronte per la società si sposeranno con chi ha donato loro il velo nuziale, le altre forse saranno spedite nel borgo dell’infamia o a lavorare presso altre comunità.
Se vuoi rimanere nell’unica società che conosci ti devi sposare. Meccanismo già visto, la distopia non è fantasia ma realtà.
Tierney James, protagonista principale della nostra storia, è l’eccezione: quella che non ci sta ad essere trattata come un animale da riproduzione, quella che accetterebbe di essere cacciata pur di non sottostare a regole che non vuole ma, riceve il velo dal ragazzo che è sempre stato il suo migliore amico. Ovvero, l’unica persona da cui pensava di essere capita.
Ragazzi e ragazze possono essere d’accordo su qualsiasi cosa prima di scontrarsi con l’ordine costituito.
Tutte le donne di Garner County devono pettinarsi allo stesso modo, con i capelli scostati dal viso e intrecciati sulla nuca. Gli uomini credono che, così facendo, le donne non potranno nascondergli nulla: un’espressione sprezzante, un’occhiata lanciata ad altri o un lampo di magia. Nastri bianchi per le bambine, rossi per le ragazze dell’anno di grazia e neri per le mogli.
Innocenza. Sangue. Morte.
Quattro sono le stagioni in cui Le Impure devono affrontare l’accampamento nella foresta.
Un luogo in cui le abitanti dell’Anno di Grazia precedente hanno distrutto tutto. Un accampamento che è una rovina recintata da uno steccato che potrebbe ricordare un certo villaggio gallico circondato dai romani.
Sole contro tutto e contro loro stesse.
Al di fuori ci sono bracconieri pronti ad ucciderle se si allontanano dallo spazio loro riservato: come bestiame, come fiere.
Le streghe sono dentro e gli agnelli sono fuori o tutto il contrario?
Sappiate che se tutto vi sta sembrando crudele, la verità dietro a questo gioco al massacro è peggiore di come pensate che sia. Non vi piacerà.
Siete in un mondo che è reale ma non lo è. Non è un incubo ma la realtà, lo sapete anche voi.
Ogni stagione nella narrazione rappresenta un momento di svolta della storia, c’è un tempo per ogni cosa.
Tierney inizia con un approccio realistico e pratico alla situazione: serve acqua, serve cibo, serve essere una squadra. Peccato che tra le sue compagne di sventura c’è chi crede alla storia della magia e decide di usarla a proprio vantaggio.
Qualcuna, per non confessare segreti inconfessabili, diventa carnefice.
Però la magia non è falsa, anzi si manifesta.
Le Impure sperimentano i loro poteri e il logoramento psicologico dell’illusione e della follia.
Non tutte possono tornare a casa e chi lo farà non sarà più la stessa.
La Tradizione uccide.
Le ragazze uccidono.
Tierney, scettica e priva di una briciola della magia delle altre, viene isolata e poi scacciata.
Inizia a scoprire che le donne che hanno vissuto quell’esperienza prima di lei hanno qualcosa da dirle ma prima che lei possa arrivare a comprendere il vero segreto delle donne della contea, Tierney incappa nel difetto di questo libro.
Qui arriva il punto dolente, che non mi ha proprio convinta ma non mi ha nemmeno distrutto la lettura.
Tierney verrà tratta in salvo dalla creatura meno improbabile che si può trovare in un libro come questo: La Bestia dal cuore d’oro.
Come se fossimo in una pellicola di animazione, la ragazza più intelligente finisce preda del cliché più banale che Le Impure poteva incontrare.
Certo che al punto in cui era la protagonista le svolte potevano essere due:
La prima: la fanciulla nella foresta scopre di essere Bear Grylls (noto esperto di sopravvivenza in casi estremi) creando l’ulteriore stereotipo della superdonna che risolve ogni situazione tanto caro a quest’epoca;
La seconda: in cui la sfortunata ingenua, ingiustamente presa a calci da un regime di follia, cade innamorata del cattivo dal cuore d’oro.
Davvero non so scegliere quale delle soluzioni sia peggio.
Non so cosa ne pensate voi ma io dopo una cosa del genere, normalmente chiudo il libro.
Questo tipo di storie inizia ad annoiarmi e il mio tempo è prezioso per essere sprecato con creature graziose, costruite in serie, che possono solo essere supereroine o bisognose del fusto di turno.
Ho continuato a leggere Le Impure? Se non lo avessi fatto non ve ne parlerei.
Ho deciso di proseguire perché la magia delle ragazze, che minacciava di trasformare la distopia in una fantasia da Young Adult scritto in serie, doveva essere smascherata e dare un finale.
Tierney doveva dare forma a l’idea che le si stava formando nella mente e nel cuore, per la salvezza di tutte e di tutti.
La liaison amorosa sarà stata un cliché, forse banale, ma nel contesto generale aveva uno scopo.
Non ci si salva da sole e nemmeno si salva qualcuno con la testardaggine di essere migliori del sesso opposto.
Si deve poter credere che esiste una via d’uscita dal considerarsi sempre ed inesorabilmente vittima l’uno dell’altro.
L’autrice è riuscita a convincermi ad andare avanti.
La distopia è un’esasperazione della realtà ma non è forse vero che, a prescindere se uomini o donne, si crede di essere necessariamente in credito di qualcosa nei confronti dell’altra “squadra”?
Se non si spezza la catena nulla cambierà mai e nel farlo, doveroso è dire, per chi crede che le storie debbano sempre essere Rosa e piene di lieti fini, che sovvertire l’ordine costituito è doloroso e comporta un prezzo.
Costerà sacrificio, costerà vite e costerà orgogli.
Le Impure mi ha dato la possibilità di riflettere su alcuni temi trattati.
È una lettura piacevole, scorrevole, non mi ha sedotta ma si merita di essere letto.
Vuoi leggere la trama de Le Impure? Segui questo link
Si dice che abbiamo il potere di convincere gli uomini ad abbandonare i loro letti, di far perdere la testa ai ragazzi e di far impazzire di gelosia le mogli. Si crede che la nostra stessa pelle emani un forte afrodisiaco, l’essenza potente della gioventù, delle ragazze sul punto di diventare donne.
Quando si pensa alla ricerca che porta alla vendetta personale non si può non pensare al libro che parla della grande Balena Bianca: Moby Dick o La Balena.
Ho deciso di affrontare questa lettura, troppo a lungo rimandata, con la versione che è la migliore in commercio: quella di Adelphi del 1994 con la prefazione di Cesare Pavese.
Questo libro è super citato e molto amato. Ne si ritrova la trama in molti film (Heart of The Sea) e in diverse serie tv (Una mamma per amica tra tutte).
Con una così grande pubblicità letteraria e mediatica mi aspettavo di trovare la grande Storia che avrebbe allietato la mia lettura e mi avrebbe travolto fino a piombarmi nel fondo dell’oceano.
Mi aspettavo, a mio torto, leggere Moby Dick nella versione facilitata per ragazzi.
Aaah quanto mi sbagliavo!!!
Mi è piaciuto Moby Dick? Ho proprio l’intenzione di parlarne con voi.
La caccia alla balena bianca del capitano Achab è piena di riferimenti biblici, a partire dal nome dei personaggi.
Ismaele è la voce narrante e porta il nome che era del figlio di Abramo.
Achab, Ahab in origine, è il capitano che conduce l’equipaggio verso la perdizione e uno dei sovrani della terra d’Israele.
Tutta la narrazione è una metafora sulla condizione dell’uomo, sull’insegnamento biblico ma Moby Dick è anche una fonte inesauribile di informazioni sul mondo delle baleniere e sull’industria che gravita attorno ad esso.
Una sorta di compendio per molti usi.
Herman Melville dedicò il volume a Nathaniel Hawthorne scrittore affermato e noto per La lettera Scarlatta. L’autore si auspicava di essere all’altezza del collega e possiamo pensare che ci sia più che riuscito, anche se al tempo della pubblicazione se ne accorsero davvero in pochi.
Moby Dick è l’emblema della grande caccia alla vendetta, la ricerca della redenzione ed è per la letteratura, senza dubbio alcuno, uno dei capolavori più acclamati.
Ma la domanda è: a me è piaciuto?
La realtà è che oltre alle considerazioni più che doverose, la lettura di Moby Dick mi ha fatto sorgere altre domande sulle possibili implicazioni della narrazione.
Ismaele è un povero diavolo, da sempre marinaio nella marina mercantile, che decide di imbarcarsi a Nantucket su di una baleniera armata da una cooperativa di mercanti.
Finisce con l’imbarcarsi sul Pequod.
Il linguaggio e la cultura universale sfoggiata da questo marinaio, esattamente da dove proviene?
È ovvio che il libro fosse indirizzato a quella parte di popolazione che poteva permettersi un’istruzione e che avrebbe compreso i riferimenti ma Ismaele ne era davvero a conoscenza vista la sua estrazione sociale?
Quando il linguaggio della letteratura ha iniziato ad uniformarsi all’effettivo livello culturale dei suoi personaggi?
Con l’aumento della scolarizzazione?
E cosa sta succedendo al linguaggio della letteratura negli ultimi anni? Sta trascinando tutti verso un gorgo senza fine o sta trovando nuove strade?
Questi sono pensieri fuori tema, me ne rendo conto ma ho voluto farvene partecipi per rifletterci insieme. Sappiate che non esiste una risposta giusta e universale.
Potrebbe darsi che io non ci abbia capito molto ma ogni lettura è un’esperienza unica che si adatta al lettore e questa è la mia.
Torniamo a Moby Dick…
Esistono molti fraintendimenti su di chi fosse la nave. La nave apparteneva ad un gruppo di proprietari e non ad Achab che, invece, ne era unicamente il capitano e i suoi datori di lavoro lo pagavano per la caccia alle balene non per perseguire la sua vendetta contro la balena che gli era costata una gamba.
Ma anche lì, la perdita della gamba è avvenuta in concomitanza allo scontro con Moby Dick ma non era del tutto colpa sua se l’aveva persa. Achab era un marinaio di vecchio corso che aveva iniziato come ramponiere, non poteva davvero incolpare la balena bianca per tutti i suoi male e rischi del mestiere.
Ma quindi da cosa nasce questa ossessione così distruttiva?
Non coinvolse solo se stesso ma anche l’equipaggio. Una ciurma di uomini esperti ma terrorizzati e spaventati dalla follia del capitano, hanno anche provato a riportarlo sulla retta via ma, dopo un brevissimo tentennamento, la fine fu segnata da uno spruzzo e un dosso bianco.
Inoltre, non dimentichiamolo, i proprietari persero carico e nave. Non stiamo parlando della Marina con fondi dello Stato ma di Persone che avevano investito tutto in quella spedizione.
Posso dire che il libro di Melville mi sia piaciuto?
Si ma anche no. Infatti non lo posso considerare un mio Must Have perché la narrazione è più volte interrotta da capitoli che frenano lo scorrere dei fatti.
Sono consapevole che sia congeniale all’esperienza che il lettore deve vivere.
Ovvero, la discesa discontinua verso un abisso da cui non si può tornare, lo stillicidio ritmico ma di un sottofondo quasi insignificante che è il tramite narrativo che non permette a chi legge di avere la percezione dei momenti di lucidità dell’equipaggio e quelli di estraneità dalla realtà della vita del Pequod.
Il libro è lo stesso abisso di cui parla, questo è certo.
Scrittura magistrale e, oltre alla penna di Melville, riesco a sentire il Pavese che fortissimamente volle la pubblicazione in italiano di questo libro.
Mi è piaciuto molto del libro ma non molto il libro in sé e non posso spiegarmi meglio di così, spero che per voi lettori sia abbastanza.
Vuoi leggere la trama di Moby Dick? Segui questo link!
Che Dio t’aiuti, vecchio: i tuoi pensieri hanno creato in te una creatura, e a colui che dal pensiero intenso ècosì trasformato in Prometeo, un avvoltoio divora il cuore per sempre, e quest’avvoltoio è la creatura stessa ch’egli ha creato.
Casa ci riserva la Vendetta degli dei di Hannah Lynn? State per scoprirlo.
Chi mi segue da un po’ sa che, ormai da tempo, mi impegno per leggere tutte le narrazioni che hanno a che fare con la rilettura del mito e, per fortuna, spesso, mi trovo coinvolta in miti che sono fedeli a loro stessi pur acquistando freschezza, potenza narrativa e nuovi significati.
Ma a questo servono i racconti che parlano di dèi e mortali: ad ispirare, a diffondere, ad insegnare, ad offrire spunti di crescita e limiti da vagliare.
Dove voglio portarvi in viaggio?
La Grecia antica è la nostra meta.
Micene è il regno coinvolto.
So che sarebbe affare di Artemide raccontarvi di quella città, in fondo, è stata lei ad essere testimone degli avvenimenti ma il compito di narrare è stato dato a me e Calliope mi ha appena prestato parte della sua ispirazione e donato il suo benestare quindi…
Miei cari fratelli e sorelle, miei amati astanti, accomodatevi e lasciate che vi parli di quando Agamennone, il re dei re, portò la sua tracotanza verso le porte della guerra più famosa della storia, del mito e della poesia epica: La guerra di Troia.
O meglio, vi parlerò della versione di Hannah Lynn della storia di Clitennestra, la sorella di Elena per cui la guerra ebbe inizio.
“Baggianate dico io”.
Torniamo a noi, il libro in questione è La vendetta degli Dei.
Agamennone offese mia sorella Artemide per una questione di caccia. Un povero daino che a lei piaceva particolarmente venne ucciso dal re di Micene e quando il vento per far partire le navi sparì Artemide capì che ad Agamennone andava forzata un pochino la mano.
Doveva decidere se per lui valesse di più l’onore della guerra o la sua famiglia.
Sapete tutti cosa scelse. Con un inganno fece credere ad Ifigenia e alla regina Clitennestra che la ragazza avrebbe sposato Achille.
“Per tutti i calici dell’Olimpo, lo avrei sposato anche io ma non è questo il punto”.
Ifigenia morì per amore dell’oro di suo padre e il vento tornò.
Nei 10 anni che quel bue vanaglorioso si prese il merito dei risultati di altri, a Micene governo la regina che si prese cura della città, della sua casa e dei suoi figli.
Lo fece come un re, di sicuro meglio del Suo re.
Furono dieci anni in cui la regina auspicò che l’uomo che l’aveva umiliata, aveva distrutto la sua vita a Sparta e ucciso il suo primo marito con il loro bambino, morisse per una ferita o una pestilenza.
Ma così non fu e non contento Agamennone portò a casa con sé anche una certa principessa troiana.
Comunque sia, mentre il re dei re era lontano, Clitennestra si innamorò della sua vita da regina libera e di Egisto cugino del sovrano.
“Non vi tedierò con la storia di Egisto, la famiglia di Agamennone è sempre stata un tantino…complicata per così dire”.
Quindi quando il magnificente vincitore di Ilio fece il suo ingresso a Micene accompagnato da Cassandra, la tragedia prende forma e soffia nel fuoco sulle ceneri di profezie, maledizioni e una rabbia che avrebbe fatto impallidire perfino Achille.
Clitennestra uccise sia suo marito che la principessa figlia di Priamo.
Quando, in questa storia, inizia la Vendetta degli dei?
Bella domanda, perché più che vendicarsi di un torto alle sacre leggi sembra che si divertano un sacco.
Decisamente più del dovuto.
Oreste, l’erede al trono miceneo, venne portato da un parente di Agamennone insieme a sua sorella Elettra che lo crebbe per avere vendetta per il loro padre.
Oreste per ordine di Apollo, interrogato a Delphi, uccise sua madre ed Egisto.
“Una vera tragedia questa antica legge che obbliga i figli a vendicare i loro padri!
Vedrete poi cosa accadrà quando il ragazzo verrà processato all’Areopago…
Certo, mio fratello Apollo era il suo difensore e mia sorella Athena fu chiamata a giudicare ma le Erinni avevano ragione: perché vendicare un padre è giusto mentre una madre non merita lo stesso?
Perché tutti i padri sono perfetti, forse?”
Questo retelling reinterpreta la storia della tragedia Orestea scritta da Eschilo con la quale l’autore vinse le Grandi Dionisie nel 458 a. C.
Il componimento era suddiviso in tre parti: Agamennone, Coefore e Eumenidi e vi era anche un poema satiresco: Proteo, creato per alleggerire l’atmosfera per il pubblico ormai provato dagli avvenimenti in scena.
Il Proteo è però perduto se non per qualche frammento e commenti posteriori alla sua stesura.
Dell’opera di Eschilo ci rimangono la sua potenza, i suoi insegnamenti e la profondità dei suoi protagonisti.
E questo libro? Cosa ci rimane de La vendetta degli dei?
Beh, ci sono molti buoni spunti, la storia la conosciamo, ma manca di…
Manca di profondità, manca l’abisso, non si sente la disperazione nella penna dell’autrice.
Non basta la tragedia già presente nella storia per rendere La Tragedia.
Quel poco di mordente che queste pagine avevano lo hanno perduto nelle ultime pagine: il processo a Oreste sembra un teatrino con una colonna sonora che ricorda programmi in onda negli anni ‘80 su quella vostra scatola animata.
L’autrice non menziona il Proteo ma se nella terza parte del libro la sua intenzione era quella di donare un po’ di leggerezza narrando con un tono da commedia i fatti del processo…l’impressione è che abbia calcato un tantino troppo la mano.
Mi è rimasto dell’amaro in bocca, il primo libro (il segreto di Medusa) era piaciuto anche ad Athena. Peccato, speriamo nelle prossime pagine sulle Amazzoni.
Volete leggere la trama de La vendetta degli dei? Seguite il questo link
Gli uomini non hanno più valore delle donne. I padri non valgono più delle madri. Pensate che un dio sarebbe qui a difendere una ragazza se questa avesse ucciso suo padre? Certo che no. Una ragazza sarebbe stata impiccata, o peggo.
This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.
Cookie strettamente necessari
I cookie strettamente necessari dovrebbero essere sempre attivati per poter salvare le tue preferenze per le impostazioni dei cookie.
Se disabiliti questo cookie, non saremo in grado di salvare le tue preferenze. Ciò significa che ogni volta che visiti questo sito web dovrai abilitare o disabilitare nuovamente i cookie.